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Disponevano di qualche settimana di permesso a Londra, e dalla sera della rimpatriata natalizia non si erano più lasciati. L’Inghilterra era stretta nella morsa ghiacciata dei primi giorni di gennaio. Dopo la serie di fallimenti subita nel corso degli ultimi mesi dalla Sezione F, lo stato maggiore del SOE era stato costretto a rivedere gli obiettivi per il nuovo anno. Gli agenti erano in licenza almeno fino a febbraio.

Pal, Key, Claude e Aimé, stufi degli alloggi temporanei del SOE, decisero di affittare un appartamento. Avere un indirizzo significava non essere più dei fantasmi. Entrati nel SOE con il grado di ufficiale, ricevevano dall’esercito britannico una paga che gli consentiva di vivere senza patemi. Aimé cedette al fascino di una mansarda nel quartiere di Mayfair; Pal, Key, Gros e Claude decisero di alloggiare insieme in un grande appartamento ammobiliato nel quartiere di Bloomsbury, non lontano dal British Museum.

Stanislas abitava nel suo appartamento di Knightsbridge, mentre Laura era tornata a casa dei genitori, a Chelsea, dicendo loro che la sua unità della FANY aveva ottenuto una licenza. Alla fine dell’ultimo corso del SOE, la ragazza aveva trascorso qualche giorno con la famiglia; dovendo giustificare la sua partenza, aveva raccontato di essersi arruolata in un’unità che presto sarebbe stata inviata in Europa. Quel tipo di spiegazione era autorizzata: gli agenti facevano ufficialmente parte dell’esercito britannico, inquadrati come gli altri militari, e gli elementi inglesi del SOE, quando andavano in missione, dicevano ai famigliari che partivano per la guerra come qualsiasi altro soldato – ma nessuno immaginava che sarebbero stati paracadutati dietro le linee nemiche, nel cuore di un paese occupato, per combattere i tedeschi dall’interno. Peraltro, nella Sezione F, il colonnello Buckmaster dedicava una particolare attenzione a rassicurare i parenti degli agenti in missione ogni volta che era possibile, scrivendo loro regolarmente una lettera piuttosto vaga, che diceva più o meno questo: “Gentili Signori, non preoccupatevi. Abbiamo buone notizie.”

Laura trascorreva le giornate con i suoi compagni e le notti con Pal. Rientrava a Chelsea soltanto all’alba, poco prima che Suzy – la cameriera – si svegliasse. Stanca morta, gettava il vestito su una sedia e si buttava sul letto. Sospirava di piacere, contenta. Aveva ritrovato Pal. Lui l’aveva sicuramente amata sin dall’inizio; Laura ricordava bene quando si erano conosciuti a Wanborough, e soprattutto quando lui si era azzuffato con Faron. A quell’epoca gli aspiranti agenti si addestravano solo da un paio di settimane, ma tutti già odiavano il colosso, quel tipo imponente che si comportava sempre in maniera arrogante e sfrontata. Nel refettorio, quando Faron gliele aveva suonate, nello sguardo di Pal si era accesa una luce fiera, come se il vigore fisico del compagno non potesse nulla contro la sua forza morale. Dopo quell’episodio, in più occasioni Pal si era distinto durante gli addestramenti e, nonostante la sua giovane età, tutti si fidavano di lui. Aveva già una certa reputazione all’interno della Sezione F. Decisamente, quel ragazzo aveva tutto per piacere. Dopo la loro prima notte a Beaulieu, Laura si era sentita obbligata a giocare all’amore galante: lui le aveva rivolto qualche frase amorosa, e lei si era limitata a scherzare. Non si erano più rivisti, e quei mesi di separazione erano stati insopportabili. E se non l’avesse più rincontrato? Si era pentita di non averlo preso sul serio, e non aveva fatto altro che pensare a lui. Le era toccato aspettare quasi dieci mesi – dieci maledetti mesi –, fino a quando non si erano ritrovati, poco prima di Natale, a Londra, negli uffici della Sezione F. Che gioia rivederlo! Era proprio lì, tutto intero. Magnifico. In una stanza deserta, si erano abbracciati a lungo, si erano coperti di baci, e per due giorni di fila erano rimasti chiusi in una camera del Langham, l’albergo di lusso in Regent Street. Si era resa conto di amarlo come non aveva mai amato nessuno, come non avrebbe mai più amato nessuno. Ma la prima notte, sdraiata nell’immenso letto accanto a Pal addormentato, si era sentita pervadere dal dubbio: e se lui non l’amava più? In fondo, durante l’ultimo periodo di formazione al SOE lei era l’unica ragazza che lui potesse frequentare: forse era stato solo un amore nato dalle circostanze. Lui aveva sicuramente conosciuto altre donne, a Londra e in Francia; la tensione per le missioni doveva averlo spinto a cercare un po’ di conforto femminile. Comunque, non si erano mai promessi niente: avrebbero dovuto giurarsi fedeltà reciproca, prima di partire! E invece no, lei aveva dovuto fare la stupida, quella notte a Beaulieu. Lui le aveva detto che la amava, lei aveva avuto voglia di rispondergli che lo amava più di quanto la amasse lui, ma si era trattenuta. Ora se ne pentiva amaramente. Sì, era sicura che Pal avesse conosciuto qualche graziosa brunetta che gli offriva più tenerezza di lei. Forse adesso si doveva sforzare per stare lì con lei? Proprio così, si sforzava: non la amava più. Avrebbe ritrovato le sue conquiste una volta tornato in Francia, e lei sarebbe morta di dolore e di solitudine.

Laura aveva finito per addormentarsi, per poi svegliarsi di soprassalto: Pal non era più nel letto. Era in piedi, immobile, in un angolo della stanza: tormentato dalla tristezza del mondo, guardava fuori dalla finestra, con la mano destra poggiata sul petto muscoloso, all’altezza del cuore, come per nascondere la sua cicatrice. Lei si era alzata subito e l’aveva abbracciato.

“Perché non dormi?” gli aveva chiesto teneramente.

“La mia cicatrice…”

La sua cicatrice? Era ferito! Laura si era precipitata nel bagno, alla ricerca di bende e disinfettante; non trovandone, era tornata di corsa nella stanza per telefonare alla reception; ma quando era riapparsa, Pal aveva sorriso, divertito: “Era una metafora… Sto bene.”

Si era sentita stupida! La più stupida delle donne, piantata in mezzo alla stanza come paralizzata: non era altro che una stupida innamorata, servile e asfissiante.

Intenerito, lui l’aveva presa tra le braccia per consolarla.

“Come ti sei procurato quella cicatrice?”

“Un giorno te lo dirò.”

Laura aveva fatto una smorfia; non le piaceva provare un amore così profondo.

“E mi dirai anche che non mi ami più? Hai conosciuto un’altra, vero? Se è così, dimmelo: soffrirò di meno se lo saprò…”

Lui le aveva poggiato un dito sulle labbra. E aveva mormorato:

“Ti dirò della mia cicatrice, ti dirò ogni cosa. Il giorno in cui ci sposeremo.”

L’aveva baciata sul collo, e Laura aveva sorriso di gioia e si era stretta più forte a lui, chiudendo gli occhi.

“Allora mi vuoi sposare?”

“Certo. Dopo la guerra. O prima, se va troppo per le lunghe.” Laura aveva riso. Sì, si sarebbero sposati. Alla fine della guerra. E se la guerra non fosse mai finita, sarebbero scappati lontano: sarebbero andati in America, a mettersi al sicuro dal mondo, e avrebbero vissuto la vita che meritavano – la migliore che si potesse immaginare.

La licenza a Londra aveva un vago sapore di Spagna. Gli agenti in permesso erano al riparo dalla guerra più trucida, in un universo morbido e accogliente che era diametralmente opposto alle esperienze che avevano vissuto nelle missioni. All’interno del gruppo, ognuno si dedicava alle proprie piccole occupazioni. Quella più importante consisteva nel distrarsi dall’imminente partenza per la Francia: la spensieratezza faceva bene.

Ogni mattina andavano a correre a Hyde Park per mantenersi in forma. Poi passavano la giornata a gironzolare insieme per negozi e bar e, quando proprio non sapevano che cosa fare, si recavano in piccole delegazioni discrete a Portman Square, uno dei distaccamenti della Sezione F in cui si trovava l’ufficio di Stanislas. Andavano a fargli visita, pur non essendo autorizzati. Si sedevano e restavano a chiacchierare del più e del meno e a bere tè, convinti di affrontare questioni importanti. Il quartier generale del SOE non era lì, bensì ai numeri 53 e 54 di Baker Street, un indirizzo sconosciuto alla maggior parte degli agenti operativi; così, in caso di cattura, non avrebbero potuto rivelare l’ubicazione precisa del centro nevralgico delle operazioni. Quello di Portman Square, in realtà, era solo un distaccamento della Sezione F – ne esistevano diversi – creati anche per eludere la curiosità dei tassisti e degli agenti tedeschi infiltrati nella capitale, persuasi che quello fosse il quartier generale di un centro operativo francese, senza sapere esattamente di cosa si trattasse.

La sera cenavano fuori, e spesso concludevano la serata giocando a carte nella mansarda di Aimé a Mayfair. Se pioveva troppo, andavano al cinema, anche se il loro livello di conoscenza dell’inglese non gli permetteva di godersi appieno i film. L’apprendimento della lingua, tra l’altro, era diventato l’ossessione principale di Gros: gli avrebbe permesso di ritrovare Melinda, la camerierina di Ringway. Il poveretto trascorreva le giornate nella cucina dell’appartamento di Bloomsbury a compulsare un grosso testo di grammatica, mangiando biscotti al burro, e quando era da solo si esercitava a pronunciare frasi come “I am Alain, I love you” – la sua preferita.

Pal, con il suo grado di tenente, l’appartamento e il conto in una banca inglese sul quale ogni mese veniva versata la paga governativa, cominciava a sentirsi importante. Da adolescente si era spesso domandato come sarebbero stati i suoi primi passi nella vita da adulto. Ma non aveva neanche lontanamente immaginato ciò che stava vivendo adesso: né la guerra né il SOE né le missioni né l’appartamento di Bloomsbury. Si era visto a Parigi, alloggiato in un grazioso appartamentino nei pressi di Rue du Bac, in maniera che suo padre potesse andare a trovarlo senza problemi. E il genitore avrebbe apprezzato l’indipendenza del figlio. Pal si chiedeva cosa avrebbe detto il padre se avesse potuto vederlo adesso che era diventato un tenente dei servizi britannici. Nei mesi che aveva trascorso nelle scuole del SOE, era cambiato fisicamente e mentalmente, ma il mutamento più drastico era avvenuto durante le sue due missioni operative. In fondo, Wanborough, Lochailort, Ringway e Beaulieu non erano stati altro che una lunga attesa tra pari: agenti con agenti, militari con militari. Sul campo, invece, era diverso: lì la quotidianità era rappresentata da un paese occupato e un pugno di resistenti, perlopiù scarsamente preparati, e il suo status suscitava deferenza. Dopo Berna, quando aveva lavorato da solo per un po’, i suoi contatti nella Resistenza l’avevano guardato con immenso rispetto, e lui si era sentito importante, indispensabile. Come mai prima di allora. Ogni volta che aveva offerto un consiglio, assistito a un addestramento clandestino o spiegato il funzionamento degli Sten, aveva sentito i mormorii di ammirazione provocati dalle sue parole: Pal era un agente inglese. In un’occasione, gli avevano chiesto di parlare a un piccolo gruppo di resistenti bonaccioni e mal organizzati, per incoraggiarli. Era stato bravissimo. Aveva finto di improvvisare ma, in realtà, quelle parole se le era ripetute a lungo in testa, nelle ore che avevano preceduto l’incontro. E lui, il misterioso, l’invincibile, la mano di Londra e la mano dell’ombra, era riuscito a galvanizzare quegli uomini. Quei modesti soldati, giovani e vecchi, tutti in riga davanti a lui, lo ascoltavano incantati! Aveva lasciato scorgere la pistola che portava infilata nella cinta. Era riuscito a trovare le parole, a infondergli coraggio, e si era sentito il migliore tra tutti loro! Più tardi, tornato nella sua stanza d’albergo, era stato punito per il suo orgoglio con un’improvvisa fitta al ventre: la violenta angoscia di essere smascherato, catturato, torturato, lo assaliva spesso, ma mai in maniera così violenta. Si era sentito il più vile dei vili, il più insignificante degli insignificanti e, per la prima volta, aveva vomitato per la paura.

In Francia, nessuno aveva scoperto la sua vera età. Adesso aveva ventitré anni, ma ne dimostrava sicuramente cinque o perfino dieci di più. Portava i capelli piuttosto lunghi, pettinati all’indietro, e si era fatto crescere un paio di baffetti che gli donavano molto. Quando parlava con un interlocutore importante – ad esempio, il responsabile di una rete clandestina –, assumeva un contegno grave che lo faceva sembrare più esperto, e quando si presentava in giacca e cravatta lo chiamavano “Signore”. A Nizza si era comprato un completo scuro, a spese del SOE ma senza conservare la ricevuta, poiché sarebbe stato difficile giustificare l’esborso. Il servizio contabilità voleva spiegazioni per ogni spesa e, al momento di fare i conti, al rientro a Londra, la tecnica migliore era assumere un’aria contrita e cominciare a parlare della Gestapo ogni volta che non si riusciva a giustificare qualche spesa. Per inaugurare il suo completo, Pal era andato a prendere il caffè e leggere il giornale al Savoy, soltanto per il piacere di farsi ammirare.

E poi c’era stata Lione, dove aveva conosciuto Marie, un’intermediaria sulla via di fuga verso Londra. Era una bella ragazza di venticinque anni, una di quelle che piacevano a Key. Si era accorto di farle una certa impressione, lui, quello nuovo. Preso nel gioco di seduttore, aveva sfoggiato il suo modo particolare di fumare – che in realtà era quello di Doff, uno che aveva molta classe. Aveva iniziato quasi per scherzo, senza mire particolari. Anzi, si era persino sentito un po’ ridicolo. Ma, a poco a poco, l’atteggiamento seduttivo era diventato uno stratagemma per blandire quella Marie, infatuata di lui, e servirsi di lei in maniera spudorata, due volte, per recapitare le cartoline di Ginevra a casa del padre, facendole credere che trasportasse dei documenti segreti. La prima volta era stata in ottobre; la seconda, in dicembre, poco prima di rientrare a Londra: mentre si trovava nel Sud della Francia, per tornare in Inghilterra era ripassato dalla via che aveva organizzato, anziché optare per quella spagnola, più semplice e diretta, in barba alle regole di sicurezza, solo per rivedere Marie e affidarle la sua piccola incombenza privata. Sì, l’aveva raggirata, le aveva mentito, altrimenti non avrebbe mai accettato. E sì, quella seduzione non era stata altro che un trucco da agente segreto, poiché l’unica donna cui pensasse ormai da mesi, l’unica donna che contasse veramente era Laura. L’aveva rivista due giorni dopo essere tornato a Londra, in un ufficio della Sezione F. Si erano appartati e si erano baciati a lungo. Poi lei gliel’aveva detto, finalmente: gli aveva detto le parole che avevano echeggiato a lungo nella sua testa. La risposta alla sua dichiarazione di Beaulieu. “Ti amo,” gli aveva sussurrato in un orecchio.