26
Una sera d’inizio febbraio erano tutti a casa di Stanislas. Key, Laura, Claude e Faron giocavano a carte nella sala da pranzo. Aimé poltriva nel soggiorno. Gros, invece, era uscito di soppiatto per ripassare le sue lezioni di inglese. Era sceso nel giardinetto che circondava l’edificio, approfittando della luce di un lampione e del nascondiglio offerto da una siepe ben curata. Faceva freddo, ma lì almeno aveva la sicurezza di stare tranquillo: non voleva che lo prendessero in giro. Si allenava a pronunciare bene i suoi “I love you”. Doveva decidersi ad andare a trovare Melinda, ma non si riteneva ancora pronto, per via del suo inglese. E non solo. Pensava anche che per amare ci vuole coraggio, e temeva di non averne abbastanza. Interruppe i suoi esercizi quando udì un rumore: arrivava qualcuno. Si rannicchiò dietro la siepe per non farsi vedere. Erano Stanislas e Pal.
Fecero qualche passo, con aria mesta. Gros trattenne il fiato per ascoltare.
“Mi sembri triste,” disse Pal.
“Un po’,” replicò Stanislas.
Silenzio.
“Dobbiamo ripartire, vero?”
Stanislas annuì. Quasi sollevato.
“Come fai a saperlo?”
“Io non so niente. Però me l’aspettavo. Ce l’aspettavamo tutti.”
Dietro la siepe, Gros sentì una stretta al cuore.
“Stan, non te la prendere,” disse Pal. “Lo sapevamo che sarebbe successo…”
“Allora perché l’abbiamo fatto?” sbottò l’ex pilota.
“Fatto cosa?”
“Affezionarci! Non avremmo mai dovuto legarci in questo modo! Non avremmo dovuto incontrarci, dopo Beaulieu… È tutta colpa mia… perdio! Nella mia solitudine qui a Londra avevo così tanta voglia di rivedervi: mi mancavate tanto, tutti voi! Ma perché ho voluto che ci riunissimo? Sono il peggiore degli egoisti! Maledetto me!”
“Anche tu ci sei mancato, Stan. Siamo amici, e gli amici sentono la mancanza l’uno dell’altro. E poi, noi siamo più che amici. Ci frequentiamo da appena un anno e mezzo, ma ci conosciamo come nessun altro. Abbiamo vissuto insieme quello che probabilmente non vivremo mai più con nessuno.”
Stanislas gemette, avvilito.
“Siamo più che amici: siamo una famiglia!”
“Non c’è niente di male, Stan.”
“Avreste dovuto passare la licenza in un alloggio di transito, a bere e spassarvela con le puttane. Non a vivere la vita vera, non a passare il tempo come se non ci fosse la guerra, non a comportarsi come se fossimo Uomini! Non l’hai capito? Noi non siamo Uomini!”
I due si guardarono a lungo, in silenzio. Cominciò a cadere una pioggerellina fastidiosa. Stanislas si sedette a terra, in mezzo al piccolo sentiero lastricato che portava dal marciapiedi al caseggiato. Pal si mise accanto a lui.
“Qualcuno di voi non tornerà,” disse Stanislas. “Qualcuno di voi non tornerà, e io me ne starò qui, seduto sul mio sporco culo da invalido. Qualcuno di voi non tornerà. È già un miracolo se siamo riusciti a rivederci tutti in dicembre… I nostri agenti muoiono in continuazione!”
“Parli di Denis, vero?”
“Forse. Non lo so. Non abbiamo più sue notizie. Qualcuno di voi non tornerà, Pal. Capisci? Capisci? Le facce che abbiamo visto stasera – Key, Claude, Laura, tu stesso… qualcuno di voi non tornerà! Allora, io cosa devo fare? Non dirvi niente? Chiudervi in una cantina? Supplicarvi di scappare, di andarvene in America e non tornare mai più?”
“Tu non sei responsabile per noi.”
“Ma allora, chi è responsabile per voi? Voi siete quasi tutti ragazzi. Io potrei essere vostro padre. Che ne sarà di voi? Morirete? La morte non è un futuro! Io vi ho visti a Wanborough, il primo giorno: dei ragazzini, eravate dei ragazzini! E mi sono spaventato. Dei ragazzini! Poi vi ho visti crescere, diventare formidabili Uomini. Fieri, coraggiosi, valorosi. Ma a che prezzo? Quello delle scuole di guerra. Voi eravate ragazzi, siete diventati Uomini imparando a uccidere.”
Stanislas, stringendo i pugni per la rabbia e la frustrazione, abbracciò Pal. Il giovane, per consolarlo, gli passò una mano tra i capelli bianchi. “Se avessi avuto un figlio…” mormorò Stan. “Se avessi avuto un figlio, l’avrei voluto come te.” E singhiozzò. La sua unica certezza era che avrebbe continuato a vivere, lui che non poteva più andare a combattere. Avrebbe vissuto ancora per molti anni – qualche decina, forse –, avrebbe vissuto nella vergogna dei risparmiati, avrebbe assistito alla terribile corsa del mondo. Ma, pur ignorando cosa sarebbe stato dell’Umanità, poteva essere sereno, perché li aveva conosciuti e li aveva frequentati, quelli che forse erano gli ultimi degli Uomini – Key, Faron, Gros, Claude, Laura, Pal –, e non li avrebbe dimenticati mai. Che fossero benedetti, che fosse benedetta la memoria di coloro che non sarebbero più ritornati. Erano i loro ultimi giorni. Giorni di lutto. Nel suo appartamento, con gli specchi coperti, si sarebbe seduto per terra, avrebbe stracciato le sue camicie e non avrebbe più mangiato. Non sarebbe più esistito. Non sarebbe stato più niente.
“Finora ce la siamo cavata bene,” mormorò Pal. “Non disperare.”
“Tu non sai niente.”
“Non so niente di che?”
“Di Gros.”
“Cioè?”
“Durante la sua seconda missione, è stato catturato dalla Gestapo.”
“Cosa?”
Il cuore di Pal ebbe un sussulto.
“L’hanno torturato.”
Pal gemette.
“Non ne sapevo niente.”
“Non lo sa nessuno. Lui non ne parla.”
Ci fu un improvviso silenzio durante il quale Pal supplicò il Signore di non permettere che accadesse mai più una cosa così atroce. ‘Pietà, Signore. Non Gros, non Gros, non il buon Gros.’ Che il Signore risparmiasse il ragazzone e prendesse la vita a lui, il figlio cattivo, il figlio indegno, quello che aveva abbandonato il padre.
“Cos’è successo?”
“L’hanno lasciato andare. Quel furbacchione è riuscito ad abbindolarli e a convincerli che non aveva niente da nascondere. L’hanno liberato, con tante scuse, e lui ne ha approfittato per rubare dei documenti negli uffici della Kommandantur.”
Pal rise.
“Ah, che dritto!”
Sorrisero per qualche istante. Ma presto le nubi avrebbero oscurato il sole nei loro pensieri. Tornarono seri.
“E lo faranno ripartire?”
“Per ora l’ufficio di sicurezza non ha dato l’autorizzazione.”
Gros, nascosto, aveva chiuso gli occhi, ricordando ciò che aveva patito. Era stato arrestato. Dalla Gestapo. L’avevano riempito di botte, ma lui se l’era cavata bene: era riuscito a convincerli che era pulito, e alla fine era stato liberato. Tornato a Londra, aveva ovviamente descritto l’episodio nel suo rapporto, ma non l’aveva detto a nessuno dei suoi amici. Tranne a Stanislas, che l’aveva saputo a Portman Square. Perché Stan aveva raccontato tutto a Pal? Gros si vergognava così tanto! Si vergognava di essersi lasciato prendere, si vergognava di essere stato picchiato selvaggiamente per ore. E non si riteneva coraggioso per questo: se non aveva detto niente durante gli interrogatori, se non era crollato per far cessare quell’orrore, non era stato per coraggio, ma solo perché, se avesse parlato, l’avrebbero certamente condannato a morte. Alla decapitazione. Era così che facevano, i tedeschi. E lui aveva pensato che, se fosse morto, non avrebbe più rivisto Melinda, e quindi non avrebbe mai conosciuto l’amore. Mai nessuna donna gli aveva detto di amarlo. E lui non voleva morire senza aver ascoltato quelle parole. Sarebbe stato come morire senza aver vissuto. E lì, nel terrificante sotterraneo della Kommandantur, era riuscito a restare così muto che alla fine l’avevano liberato.
Quando Pal e Stanislas tornarono in casa, Gros s’inginocchiò dietro la siepe e supplicò Dio di non finire mai più nelle mani dei crucchi.
La paura cominciò a incalzare gli agenti della Sezione F a mano a mano che si avvicinava la partenza. Vennero convocati a Portman Square, dove ricevettero le istruzioni per le rispettive missioni. Presto sarebbe iniziato il trasferimento negli alloggi di transito situati nei pressi della pista di Tempsford. Tutti si sforzarono di approfittare quanto più possibile degli ultimi giorni. Laura e Pal uscivano ogni sera: andavano a cena, poi a teatro o al cinema. Rientravano tardi nell’appartamento di Bloomsbury, spesso a piedi nonostante il freddo di febbraio, tenendosi per mano. Di solito, a quell’ora Key e Claude stavano già dormendo, mentre Gros, in cucina, ripassava il suo inglese. Nella stanza di Pal, i due innamorati si sforzavano di mantenere una certa discrezione. Alle prime luci dell’alba, Laura tornava a Chelsea.
Il pericolo incombeva: il ritorno in Francia, il ritorno tra i padri. Il pericolo costituito dalla loro stessa esistenza. Faron era molto nervoso e si rivelava sempre più insopportabile. Durante una delle ultime sere, trascorsa tutti insieme nell’appartamento di Bloomsbury, provocò ognuno di loro. Dopo aver rischiato di azzuffarsi con Key, il colosso se ne andò in cucina per sfuggire ai commenti che gli fioccavano addosso. Claude lo seguì. Stranamente, il pretino era l’unico per cui Faron avesse rispetto, quasi timore. Forse perché, in fondo, tutti lo consideravano come il braccio di Dio. Raggiunta la cucina, Claude lo rimproverò.
“Non puoi restare un coglione per tutta la vita, Faron!”
Il colosso cercò di evitare la conversazione, mettendosi a frugare negli armadietti. Si riempì la bocca con i biscotti di Gros.
“Cosa vuoi, Faron? Che ti odino tutti?”
“Mi odiano già tutti, se è per questo.”
“Perché te lo meriti!”
Faron deglutì lentamente, prima di chiedere, amareggiato:
“Lo pensi davvero?”
“No… E comunque, non lo so! Quando ti sento parlare con la gente…”
“Ma stavo scherzando, cazzo! Bisogna rilassarsi un po’, siamo qui per questo. Tra qualche giorno ripartiremo per la Francia: non dobbiamo dimenticarcelo.”
“Bisogna essere buoni, Faron: ecco cosa non dobbiamo dimenticare…”
Ci fu un silenzio molto lungo. Il colosso assunse un’espressione seria, grave; poi parlò con la voce rotta:
“Non lo so, Claude. Siamo soldati, e i soldati non hanno futuro…”
“Noi siamo combattenti. I combattenti si preoccupano del futuro degli altri.”
Lo sguardo di Claude si rasserenò. Si sedettero al tavolo della cucina, e il pretino chiuse la porta.
“Cosa devo fare?” gli chiese Faron.
Lo scrutava nel fondo degli occhi, come per raggiungere la sua anima. Un giorno gliel’avrebbe fatta vedere lui, gliel’avrebbe fatta vedere a tutti quanti: lui non era affatto come pensavano, non era una carogna. Claude capì che il compagno gli chiedeva una sorta di assoluzione.
“Va’ a fare del bene, Faron. Sii Uomo.”
Faron annuì, e Claude si frugò in una tasca. Ne trasse una piccola croce infilata in una catenina.
“Mi hai già dato il tuo rosario a Beaulieu…”
“Prendi anche questa. Mettila al collo, che arrivi a sfiorarti il cuore. Ma portala davvero, perché il rosario non lo vedo.”
Faron prese la catenina e, quando l’altro si voltò, baciò il crocifisso con devozione.
Qualche giorno dopo, l’ufficio di sicurezza del SOE autorizzò Gros a tornare in Francia e gli consegnò l’ordine di servizio per la missione. Dispiaciuto di dover lasciare gli amici, il ragazzone fece la valigia, senza mettervi la sua camicia preferita che aveva acquistato in Francia; rimpiangeva di non essere andato a trovare Melinda. Dopo i saluti di rito, lasciò Londra per raggiungere un alloggio di transito. Era molto avvilito. In macchina, sulla strada verso Tempsford, pensò che se i tedeschi l’avessero preso di nuovo, avrebbe detto di essere il nipote del generale De Gaulle, per essere ben certo che lo uccidessero. A che serve vivere, se nessuno ti ama?
A uno a uno, anche gli altri ricevettero gli ordini di partenza. Si separarono senza cerimonie, per evitare che sembrasse un addio. “A presto,” si dissero, sfidando il destino. Partirono tutti: Claude, Aimé, Key, Pal, Laura e Faron, in quest’ordine. Alla fine di febbraio del 1943, il comando generale aveva ormai stabilito le consegne e gli obiettivi per l’anno in corso, e tutti gli agenti erano già in missione, portati lontano nel ventre dei Whitley.
Aimé aveva affidato la chiave della sua mansarda di Mayfair a Stanislas, mentre Gros, Claude, Key e Pal avevano lasciato quella dell’appartamento di Bloomsbury sotto lo stuoino. Non potevano in alcun modo portarla con loro: era di fabbricazione inglese, e questo poteva tradirli. Gli agenti non dovevano avere addosso nulla che fosse di fabbricazione inglese – indumenti, gioielli o accessori vari. Quindi la chiave sarebbe rimasta sotto lo stuoino, ad aspettare il ritorno di uno degli inquilini. E, in loro assenza, l’affitto sarebbe stato versato al locatario direttamente dalla banca.
Pal era partito subito dopo Key. Aveva passato la sua ultima notte londinese tra le braccia di Laura. Non avevano dormito. Lei aveva pianto a lungo.
“Non ti preoccupare,” le aveva sussurrato per consolarla. “Ci rivedremo qui, presto. Molto presto.”
“Ti amo, Pal.”
“Ti amo anch’io.”
“Prometti che mi amerai sempre.”
“Prometto.”
“Prometti meglio! Prometti che mi amerai con tutta l’anima!”
“Ti amerò. Tutti i giorni. Tutte le notti. La mattina e la sera, all’alba e al tramonto. Ti amerò. Per tutta la vita. Per sempre. Nei giorni di guerra e nei giorni di pace. Ti amerò.”
Mentre la copriva di baci, Pal aveva supplicato il destino di proteggere la donna che amava. Maledetta guerra e maledetti uomini: che il destino gli strappasse fino all’ultima goccia di sangue purché risparmiasse lei. Si offriva al fato per Laura così come si era offerto al Signore per Gros. Qualche giorno dopo, un bombardiere lo paracadutava sul suolo francese.
Dopo diverse settimane – alla fine di marzo –, Denis il canadese, di cui non si erano avute notizie, rientrò a Londra, sano e salvo.
Arrivò la primavera, che presto lasciò spazio all’estate. Prigioniero della propria penosa solitudine, Stanislas andava spesso a passeggiare nei parchi di Londra, che adesso erano ammantati di verde; i fiori purpurei dei grandi viali gli tenevano compagnia. Nell’ufficio di Portman Square seguiva le mosse dei suoi compagni. Su una carta della Francia piantava puntine colorate che rappresentavano le loro posizioni. Ogni giorno pregava.