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Kunszer scese nelle cucine del Lutetia e chiese dello champagne a un cameriere cui stava simpatico, poiché parlava un francese senza accento, e quindi sembrava meno tedesco degli altri. Domandò una bottiglia di demi-sec, senza secchiello, senza niente. Aggiunse dei “Per favore”, dappertutto. Fuori c’era una luce grigia, cupa; per l’ufficiale dell’Abwehr dicembre era il mese più brutto dell’anno. Aveva inventato una parola apposta per qualificarlo: Scheissigdezember*. Il cameriere tornò con la bottiglia; Kunszer lo ringraziò.
Da novembre, ripeteva la stessa operazione ogni settimana. Infilava la bottiglia di champagne in un sacchetto di carta che riempiva di tutte le squisitezze che poteva trovare al Lutetia, soprattutto quelle costose come il foie-gras, e poi usciva. Faceva il percorso a piedi, con passo solenne. La marcia dei vinti, la marcia dei pentiti, la marcia degli ossessionati che non dimenticano mai. Dal Lutetia scendeva fino all’incrocio tra Raspail e Saint-Germain. Una marcia terribile, estenuante, una marcia cristica… O Saint-Germain del Calvario: portava le vivande come la pesante croce di legno, e quasi gli dispiaceva che i passanti non lo frustassero mentre camminava. In quel modo, ogni settimana, andava in Rue du Bac, a portare un po’ di provviste al padre dell’agente inglese.
Kunszer aveva compiuto quarantaquattro anni in novembre. Non si era mai sposato. Aveva conosciuto la sua Katia molto tardi, quando lei aveva solo venticinque anni. Ormai ne avrebbe avuti venticinque per sempre. Più volte aveva pensato che, dopo la guerra, l’avrebbe presa in moglie. Non prima della fine: durante una guerra non ci si deve sposare. Al momento era sposato con l’Abwehr, con il Reich. Ma presto avrebbero divorziato.
Quarantaquattro anni. Aveva fatto il conto: aveva passato più tempo da soldato che da uomo. Ma da novembre non voleva più essere un soldato. Un mese prima del suo compleanno, le rivelazioni di Paul-Émile avevano permesso l’arresto di quel Faron, il temibile agente britannico di cui gli aveva parlato Gaillot, in un appartamento del III Arrondissement. Sul tavolo della cucina, Kunszer aveva scoperto un incartamento sul Lutetia. Avevano progettato un attentato al quartier generale dell’Abwehr: era intervenuto in tempo.
Dall’appartamento, il colosso era stato trasferito direttamente al carcere del Cherche-Midi, a pochi passi dal Lutetia, dove gli specialisti della Gestapo si sarebbero occupati di lui. Kunszer non praticava la tortura, e in generale quelli dell’Abwehr non amavano farlo: lasciavano che in prima battuta se ne occupasse la Gestapo, in Avenue Foch, in Rue des Saussaies o al Cherche-Midi, e solo in seguito il detenuto, spesso in condizioni pietose, veniva trasferito al Lutetia per rilasciare una confessione. Kunszer aveva dato personalmente l’ordine di portare Faron al Cherche-Midi, sapendo che senza quel trattamento preventivo non sarebbe riuscito a cavargli niente; procedeva sempre così. Tranne per la bella resistente, la ragazza che somigliava così tanto alla sua piccola Katia e che aveva arrestato mentre andava in bicicletta. L’aveva condotta al Lutetia per risparmiarle la Gestapo. Poiché lei non aveva parlato, era toccato a lui picchiarla – a lui che odiava la violenza. Aveva dovuto farsi coraggio. Mentre la schiaffeggiava, non era riuscito a trattenere i gemiti di vergogna. I suoi primi colpi erano stati quasi delle carezze. Non osava – non con Katia. Poi aveva cominciato a picchiare più forte. Ma era troppo difficile. Allora aveva chiesto che gli portassero un bastone o qualcosa del genere – per non doverla toccare con le mani. Sì, con un bastone sarebbe stato meglio. Era meno diretto. Al Cherche-Midi, appena gli avevano tolto le manette, il colosso si era suicidato con una pillola. Eppure l’avevano perquisito. Kunszer stesso gli era stato addosso, senza lasciarlo neanche per un istante. Ma era bastato un attimo di distrazione: il tempo di accorgersene, e l’altro era già disteso a terra. Osservando il corpo riverso sul pavimento, Kunszer si era detto che quell’uomo era un leone.
Paul-Émile era stato portato al Cherche-Midi quello stesso giorno, per essere interrogato dagli agenti speciali che si occupavano delle spie inglesi. Non aveva detto neanche una parola, nonostante il suo supplizio fosse durato tre settimane. Alla fine di ottobre era stato decapitato. Finalmente, aveva pensato Kunszer, quasi sollevato.
L’ufficiale dell’Abwehr era rimasto molto colpito dall’ultima conversazione che aveva avuto con il giovane, nel suo ufficio al Lutetia. Ci ripensava spesso. Era stato qualche giorno prima dell’esecuzione. Sarebbe bastato attraversare la strada, eppure Paul-Émile era stato condotto all’albergo in una Citroën Traction nera della Gestapo. Era in condizioni pietose: l’avevano sfigurato, pestato a sangue. Riusciva a malapena a camminare. Nell’ufficio erano soli, seduti uno di fronte all’altro. Pal l’aveva guardato, stravolto, tumefatto, e aveva detto:
“Perché mi ha conciato così, se le ho detto tutto quello che voleva?”
Kunszer non aveva avuto neanche il coraggio di sostenere il suo sguardo. Paul-Émile: quel ragazzo aveva proprio un bel nome. Ed era così giovane. Non ricordava più quanti anni avesse. Intorno ai venticinque.
“Non decido sempre io,” si era giustificato.
Silenzio. Aveva osservato il suo corpo straziato.
“Non ha parlato, eh?”
“Quello che avevo da dire, gliel’ho già detto. Le ho consegnato la donna della mia vita in cambio di mio padre, e adesso lei vuole ancora di più. Ma come posso darle di più?”
“La capisco, ragazzo mio.”
Perché l’aveva chiamato “ragazzo mio”? E chi era la donna di cui parlava? Nell’appartamento aveva arrestato solo Faron.
“Cosa posso fare per lei?” aveva chiesto Kunszer.
“Sto per morire, vero?”
“Sì.”
Silenzio. L’ufficiale dell’Abwehr aveva osservato le labbra del giovane. Parlare doveva essere doloroso: erano livide, gonfie e chiazzate di sangue rappreso.
“Ricorda la sua promessa?” aveva chiesto Pal.
“Sì.”
“La manterrà? Proteggerà mio padre?”
“Sì, signore.”
L’aveva chiamato “signore” per dimenticare. Per dimenticare che se avesse conosciuto una Katia quand’era giovane, forse adesso avrebbe avuto un figlio dell’età di Paul-Émile.
“Grazie,” aveva sussurrato il ragazzo.
Kunszer l’aveva guardato negli occhi. Il suo ringraziamento era sincero. Per lui, ormai, contava solo il vecchio genitore.
“Vuole scrivere a suo padre? Tenga, qui c’è della carta. Gli scriva quello che vuole: io non leggerò, e andrò a portargli la sua lettera. Vuole che la lasci solo qualche minuto per concentrarsi meglio?”
“No, grazie. Comunque non scriverò. Vuole davvero farmi un favore?”
“Sì.”
“Faccia in modo che mio padre non sappia mai che sono morto. Mai. Un padre non deve mai sapere che il figlio è morto. Non è nella natura delle cose, capisce?”
Il tedesco aveva annuito, serio in volto.
“Perfettamente. Conti su di me. Non saprà mai niente.”
Erano rimasti in silenzio. Kunszer aveva offerto una sigaretta, una bevanda, qualcosa da mangiare. Pal aveva sempre rifiutato.
“È ora che io muoia. Dopo quello che ho fatto, è proprio ora che io muoia.”
L’ufficiale tedesco non aveva insistito e aveva chiamato i soldati per condurlo al carcere. Prima che entrassero nella stanza, aveva sussurrato al ragazzo, in tono confidenziale:
“Non c’era nessuna donna. Nell’appartamento, non c’era nessuna donna. C’era solo un uomo. Si è suicidato poco dopo l’arresto, con una pillola. È morto da soldato, eroicamente. Non è stato torturato. Non ha sofferto. E non c’era nessuna donna. Se ce n’era una, ci è sfuggita.”
Pal aveva sorriso come un angelo, e aveva supplicato il cielo di proteggere Laura per sempre. In Francia, in Inghilterra, in America. Che andasse lontano. Che ritrovasse l’amore. Che fosse felice. Che non fosse triste per lui, lo dimenticasse in fretta e non portasse il lutto. Lui era un traditore, e Laura l’avrebbe saputo. Eppure Pal la amava enormemente: amava lei, amava il padre. Era sempre amore, ma un amore diverso. Com’era possibile pensare che una sola parola fosse in grado di identificare sentimenti così diversi?
“Lei non ha niente da rimproverarsi,” gli aveva sussurrato ancora Kunszer. “Lei ha scelto suo padre.”
A quel punto, il tedesco l’aveva preso per le spalle, e il ragazzo si era detto che quello era un gesto paterno – il gesto del padre quando lui era andato via da Parigi, il gesto del dottor Calland quando l’aveva reclutato nel SOE, il gesto del tenente Peter alla fine della scuola di Beaulieu. E Kunszer aveva continuato:
“Qualsiasi figlio sceglierebbe il proprio padre! Io avrei fatto come lei! Lei è un grande soldato! Quanti anni ha, signore?”
“Ventiquattro.”
“Io ne ho venti di più. Lei è un soldato migliore di quanto possa mai essere io.”
Due uomini della Gestapo erano entrati nell’ufficio e avevano portato via Pal, per sempre. Quando gli era passato davanti, Werner Kunszer, diritto come un fuso, aveva fatto il saluto militare. Ed era rimasto così, sull’attenti, per diversi minuti. Forse per ore.
Una settimana dopo l’esecuzione di Paul-Émile, Kunszer era andato a trovare il padre. Era novembre, il giorno del suo quarantaquattresimo compleanno. Perché diavolo era tornato da lui? Da quel momento aveva cominciato a odiarsi.
Erano quasi le dodici e trenta quando era entrato nella casa di Rue du Bac. Passando davanti allo sgabuzzino, aveva avuto un brivido di disgusto. Era salito al primo piano, aveva bussato alla porta. E il vecchio aveva aperto. L’ufficiale tedesco era a disagio: avendolo spiato per settimane, sapeva tutto di lui, ma il padre di Paul-Émile non l’aveva mai visto.
“In cosa posso esserle utile?” aveva chiesto.
Kunszer era turbato per la tristezza della situazione: il vecchio gli sembrava molto dimagrito, e l’appartamento era in disordine. Esitò per qualche istante, poi rispose:
“Vengo da parte di suo figlio.”
L’altro aveva fatto un enorme sorriso ed era corso a prendere la valigia, afferrando il cappotto e il cappello, e tornando alla porta.
“Eccomi, sono pronto! Buon Dio, quanto ho aspettato! Ho persino temuto che non sarebbe tornato mai più. Mi accompagna lei? È il suo autista? Come andiamo a Ginevra? Dio santo, che sollievo vederla! Pensavo che non saremo mai più partiti! Paul-Émile mi sta aspettando alla stazione?”
Kunszer, sconcertato, si era scusato:
“Mi dispiace, signore, ma io non sono venuto a prenderla.”
“Ah. Non andiamo a Ginevra?”
“No. Però suo figlio mi ha incaricato di portarle sue notizie.”
Il viso del vecchio si era illuminato nuovamente.
“Notizie? Magnifico! Ma-gni-fi-co!”
Il tedesco era stato sfiorato dall’idea di annunciargli la morte del ragazzo, ma aveva subito rinunciato. Per non dargli quel dispiacere enorme e per onorare la promessa fatta a Pal.
“Sono venuto per dirle che suo figlio sta bene. Benissimo, oserei dire.”
“Ma perché non è mai venuto a prendermi?”
“È una questione complicata.”
“Complicata? Complicata? Cosa c’è di complicato? Quando si promette al proprio padre di partire insieme a lui, lo si va a prendere, no? Dove se n’è andato ancora, per l’amor del cielo?”
Kunszer, rammentandosi della cartolina di Ginevra, aveva risposto senza riflettere:
“È a Ginevra.”
“A Ginevra?”
“Sì. Sono qui per comunicarle che suo figlio è dovuto recarsi immediatamente a Ginevra, per alcune questioni urgenti. È molto occupato. Ma tornerà presto.”
Il viso del vecchio si era irrigidito.
“Sono molto deluso. Se è andato a Ginevra, perché non mi ha portato con lui?”
“L’emergenza bellica lo ha impedito, signore.”
“E quando tornerà?”
“Molto presto, immagino.”
Il padre del ragazzo sembrava debole e denutrito. Eppure, nell’appartamento aleggiava un piacevole odore di cucina.
“Mangia abbastanza?” aveva chiesto il tedesco.
“Be’, a volte me ne scordo.”
“Eppure sento un profumino… Sta preparando qualcosa?”
“Sì, cucino per il mio Paul-Émile. Ogni giorno, alle dodici, faccio una scappata a casa dal lavoro. Esco prima, poi recupero. Perché con Paul-Émile abbiamo appuntamento qui, per pranzo. L’appuntamento è a mezzogiorno preciso: bisogna essere puntuali, perché il treno è alle due.”
“Il treno? Per andare dove?”
“Ma a Ginevra, è chiaro!”
“A Ginevra?” ripeté Kunszer, che non capiva più niente. “Come diavolo pensa di andare a Ginevra?”
“Non lo so. Non lo so più. Però andiamo a Ginevra, questo è certo, perché me l’ha detto Paul-Émile. Nei giorni in cui non viene, io sono triste e mi passa l’appetito. La tristezza toglie la fame.”
Quindi non mangiava mai.
“Perciò oggi non pranzerà?”
“No.”
“Ma deve nutrirsi! Suo figlio tornerà presto.”
Kunszer si era odiato per quelle parole, per la speranza che spandeva con tanta leggerezza. Ma che altro poteva fare? La sofferenza… Che schifo, non voleva più infliggerne a quel poveruomo!
“Le va di pranzare con me?” gli aveva proposto allora il vecchio. “Le parlerò un po’ di mio figlio.”
L’ufficiale dell’Abwehr aveva esitato per qualche secondo, poi aveva accettato per pietà.
Il padre del ragazzo l’aveva fatto entrare: l’appartamento era diventato un sordido tugurio, disordinato e lercio. Accanto alla porta, la valigia pronta per la partenza.
“Come vi siete conosciuti lei e Paul-Émile?”
Kunszer non sapeva cosa rispondere. Non poteva dire che erano amici, sarebbe stato il colmo del cinismo.
“Siamo colleghi,” aveva risposto, senza riflettere troppo.
Il vecchio si era rianimato.
“Ah, bene. Anche lei è un agente dei servizi segreti britannici?”
Il tedesco aveva avuto la tentazione di buttarsi dalla finestra.
“Sì. Però non bisogna parlarne.”
Il vecchio aveva sorriso, portandosi un dito alle labbra.
“Ma certo, certo. Quelli come voi sono persone magnifiche. Ma-gni-fi-che!”
Dopo pranzo, il tedesco aveva proposto di mettere in ordine l’appartamento.
“Non ha una domestica?”
“No. Prima le pulizie le facevo io, per tenermi occupato. Ora non mi va più.”
Kunszer aveva scovato una scopa, qualche strofinaccio, un secchio d’acqua e del sapone, e si era messo a lavorare di buona lena. L’ufficiale dell’Abwehr faceva le pulizie a casa del padre dell’agente inglese che aveva mandato a morte.
Alla fine, quando si era congedato, il vecchio gli aveva stretto le mani tra le sue, grato per ciò che aveva fatto.
“Non so neanche come si chiama.”
“Werner.”
Gli era sembrato un nome strano per un inglese, ma non aveva detto niente per non offenderlo.
“Tornerà, signor Werner?”
Doveva dire di no: avrebbe voluto dirgli che non sarebbe tornato più, mai più, perché non avrebbe sopportato tutte quelle incredibili menzogne. Ma poiché la ragione tardava a rispondere, a parlare era stato il suo cuore.
“Certo. Ci vedremo presto.”
Il vecchio aveva sorriso con contentezza: com’era gentile quell’amico di Paul-Émile che veniva ad alleviare la sua solitudine!
Il pomeriggio di quel maledetto giorno di novembre, nel suo ufficio al Lutetia, Kunszer, sconvolto, aveva giurato a se stesso che avrebbe mantenuto la promessa fatta a Paul-Émile: ogni settimana sarebbe andato a occuparsi del padre, gli avrebbe portato di che vivere. Quell’uomo sarebbe diventato suo padre, e lui sarebbe diventato suo figlio. Fino all’ultimo giorno di vita, se fosse stato necessario.
* “Dicembre di merda” [N.d.T.].