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Si era all’inizio di ottobre, un sabato. Davanti a Notre-Dame, Faron aveva incontrato Gaillot, il partigiano. Passeggiavano tra la gente con aria disinvolta, approfittando del sole d’autunno. Era una bella giornata.

“Sono contento che tu sia tornato: era da un pezzo che non ci vedevamo,” disse Gaillot, per avviare la conversazione. Faron annuì. Il partigiano lo trovò cambiato: sembrava tranquillo, calmo, contento. In pratica, un’altra persona.

“E la guerra?” domandò.

“Procede,” rispose il colosso, evasivo.

Gaillot sorrise: Faron non parlava mai. Ormai c’era abituato, tuttavia non si arrese. “Bene,” disse, “in cosa posso esserti utile? Se mi hai contattato, non sarà solo per il piacere di vedermi, immagino.”

“Non solo per quello.”

Prima di proseguire, Faron si guardò intorno. Trascinò in disparte Gaillot.

“Quanti uomini potresti darmi? Gente ben addestrata. Avrei anche bisogno di plastico. Molto.”

“È per una grossa operazione?”

Faron annuì con aria grave. Non aveva ancora idea di come organizzare l’attentato al Lutetia: tutto dipendeva dalle risorse di cui avrebbe potuto disporre. Gaillot sarebbe stato la sua principale fonte di approvvigionamento di esplosivo: era impensabile chiedere al SOE di paracadutare il materiale su Parigi, e inoltre a Londra nessuno era a conoscenza del suo piano per il Lutetia. Avrebbe informato Portman Square solo dopo aver predisposto ogni cosa. A quel punto, lo stato maggiore non avrebbe potuto tirarsi indietro.

“Dipende,” disse Gaillot. “Devo verificare. Farò del mio meglio. Quanta gente ti serve?”

“Non ho ancora un’idea precisa.”

“È un’azione che organizzi da solo? Voglio dire… senza i Rosbif?”

Faron si voltò di colpo, improvvisamente nervoso. Ecco il tipo di parola che non bisognava pronunciare in pubblico. Ma evitò di rimproverare Gaillot: non era il caso di contrariarlo, visto che gli serviva il suo appoggio.

“Saremo due o tre, probabilmente. Ho un marconista che arriva in questi giorni, e un terzo elemento che non dovrebbe tardare.”

“Conta su di me,” disse Gaillot, stringendo la mano del colosso.

“Grazie, amico.”

Si separarono.

Faron si diresse verso Les Halles. Poi deviò in direzione dei grandi viali e camminò per un’ora e mezza attraverso la città, cambiando spesso direzione, per assicurarsi di non essere seguito. Faceva sempre così dopo un contatto.

Per il momento, a Parigi era solo: era stato inviato senza un marconista. Non gli piaceva trovarsi senza collegamenti con Londra. Nell’attesa, la consegna era di rivolgersi a Gaillot in caso di problemi, ma il partigiano, nonostante le sue qualità, non era un uomo del SOE, e Faron aspettava con impazienza che arrivasse il suo “pianista”. Prima di lasciare Londra, a Portman Square gli avevano detto che Marc, il suo operatore a Parigi, era stato assegnato a una rete dell’Est. Faron non aveva gradito: si fidava di lui, era un bravo agente. Chissà chi gli avrebbero mandato in sostituzione quelli di Londra. A mezzogiorno era andato di nuovo ad aspettare il rimpiazzo, all’uscita della metropolitana di Montparnasse. Ma non era arrivato nessuno, o almeno non aveva visto nessuno che potesse essere un marconista. Perché la consegna era di attendere il “pianista” a mezzogiorno, davanti all’uscita della metrò, e avviare la conversazione: “Ho i suoi due libri, le interessano ancora?”, “No, grazie: me ne basta uno”. E ripetere quella trafila ogni giorno, finché non si fossero trovati. Faron odiava essere costretto a una routine perché era molto pericoloso. Tutti i giorni, nello stesso posto, alla stessa ora, ad aspettare: un comportamento del genere attirava facilmente l’attenzione. Lui faceva sempre in modo di cambiare aspetto e di mimetizzarsi nell’ambiente: a volte attendeva davanti a un’edicola, altre in un bar o seduto su una panchina; indossava un paio di occhiali o un cappello. La situazione non gli piaceva, così decise che, chiunque fosse il marconista, poiché non era quello di cui si fidava, l’avrebbe mandato a dormire da Gaillot, per non compromettere la sicurezza del suo piano. L’attentato al Lutetia veniva prima di tutto.

Faron tornò con la metropolitana nel III Arrondissement, dove si trovava il suo appartamento. Scese una fermata prima, per sicurezza, e proseguì a piedi. Comprò un giornale all’edicola e, giunto davanti al portone, si guardò intorno un’ultima volta, prima di entrare nell’edificio.

Il suo rifugio al terzo piano. Arrivato quasi al pianerottolo del primo, avvertì una presenza dietro di sé: qualcuno lo seguiva cercando di soffocare il rumore dei propri passi. Come aveva fatto a non accorgersene prima? Senza voltarsi, salì più rapidamente gli ultimi scalini e sfilò lo stiletto dalla manica della giacca. Quando fu sul pianerottolo, si voltò di scatto e rimase di stucco. Era Pal.

“Imbecille!” sibilò Faron tra i denti.

L’amico sorrise e gli diede una pacca amichevole sulla spalla.

“Sono contento di vederti, vecchio pazzo.”

Due giorni prima, Paul-Émile era stato paracadutato nel Sud, per unirsi a un gruppo di clandestini. Era stato accolto dal capo della squadra, un certo Trintier, ma non era rimasto con lui: sostenendo di sentirsi in pericolo, aveva detto che avrebbe fatto meglio a sparire per qualche giorno, ed era partito per Parigi senza avvisare Londra. Aveva organizzato quel piano appena salito a bordo del Whitley, a Tempsford. Poi avrebbe detto a Portman Square che temeva di essere stato scoperto e di aver preferito darsi alla macchia. D’altronde, la sua assenza sarebbe durata solo pochi giorni, e da Londra nessuno avrebbe obiettato di fronte a una precauzione che poteva rivelarsi provvidenziale per l’agente e per il SOE stesso. Pal aveva fissato un altro appuntamento con Trintier e il suo gruppo; poi si era fatto accompagnare a Nizza, e lì aveva preso un treno per la capitale. Parigi: sognava di tornarci da due anni. Al momento di scendere alla Gare de Lyon, tremava di felicità.

Come concordato con Faron a Londra, Pal si era recato all’appartamento sicuro. Aveva bussato, ma nessuno gli aveva aperto: il colosso non era lì. Il giovane si era appostato sul viale in attesa del suo ritorno; poi l’aveva visto fermarsi all’edicola per comprare un giornale e l’aveva seguito.

Non era ancora sera, ma decisero di cenare lo stesso. Persi nei propri pensieri, mangiarono carne in scatola, senza neanche preoccuparsi di versarla nei piatti, seduti nella minuscola cucina. L’appartamento era abbastanza piccolo: oltre alla cucina, un soggiorno, una camera da letto, un bagno e un piccolo corridoio centrale. La stanza più grande era il soggiorno. La camera da letto, il cui unico arredo erano due materassi, aveva un balcone, che costituiva un’autentica uscita di sicurezza: da lì si poteva raggiungere una finestra del vano delle scale dell’edificio vicino.

I due agenti mangiarono nella semioscurità, e si parlarono solo quando ebbero finito il pasto.

“Allora, cosa sei venuto a fare a Parigi?” chiese Faron.

“Meno ne sai, e meglio è. È per questo che non ti rivolgo la stessa domanda.”

Faron ridacchiò. Offrì una mela al compagno.

“Sei solo qui?” domandò Pal.

“Solo.”

“Non hai un marconista?”

“Non ancora. Ne avevo uno, ma è in missione non so dove. Si chiamava Marc, un bravo ragazzo. Londra mi ha inviato un sostituto.”

“Quando arriva?”

“Non lo so. Abbiamo appuntamento a mezzogiorno davanti all’uscita della metrò di Montparnasse. Nessuna data precisa: devo andarci tutti i giorni, finché non arriva. Una trafila che non mi piace.”

“Come si fa a riconoscere qualcuno che non si è mai visto?”

Faron si strinse nelle spalle. Pal assunse un’aria fintamente seria.

“Forse avrà un S-Phone in mano.”

Risero. Dal primo momento in cui si erano visti, Faron si era accorto del nervosismo di Pal, nonostante gli sforzi che faceva per nasconderlo.

In quello stesso istante, in Rue du Bac, il padre di Pal fremeva di gioia. In piedi di fronte al guardaroba, si provava freneticamente giacche e cravatte. Doveva essere impeccabile. Nel tardo pomeriggio, tornato dalla spesa del sabato, aveva trovato dietro la porta un messaggio del figlio. Paul-Émile era a Parigi. Ancora poche ore, e finalmente si sarebbero rivisti.