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La famiglia Montagu, appartenente all’aristocrazia britannica, abitava da quattro secoli in un’immensa tenuta nei dintorni di Beaulieu, un villaggio dell’Hampshire nell’estremo sud dell’Inghilterra. Su quei terreni si trovava il quarto e ultimo istituto di formazione del SOE, la scuola di perfezionamento – Finishing School –, ospitata in un gruppo di piccoli edifici che passavano pressoché inosservati nella vastissima estensione della proprietà. Lord Montagu aveva messo la sua tenuta a disposizione del SOE all’insaputa dell’intero villaggio di Beaulieu e persino della sua stessa famiglia, che pure viveva in uno splendido maniero nel cuore della proprietà. Nessuno immaginava che in quelle piccole case, vuote dall’inizio della guerra – gli inquilini erano stati arruolati oppure erano andati a mettersi al sicuro più a nord –, i servizi segreti britannici preparassero alle tecniche della guerra segreta decine di volontari provenienti da tutta Europa.
Si era alla metà di febbraio; la pioggia densa e gelida dell’inverno lasciava lentamente il posto ai leggeri piovaschi della futura primavera. Presto le giornate sarebbero diventate più lunghe e luminose, il fango si sarebbe asciugato e, nonostante il freddo fosse destinato a continuare ancora un po’, i primi crochi avrebbero fatto capolino dalla crosta gelata del terreno. Stanislas, Denis, Aimé, Frank, Key, Faron, Gros, Jos, Laura, Pal e Claude, i membri della sezione F, gli undici sopravvissuti alla selezione, si preparavano ad affrontare insieme le quattro settimane del loro ultimo corso – la scuola di Beaulieu era la tappa finale prima di diventare un agente del SOE a tutti gli effetti. A Wanborough avevano irrobustito il proprio corpo; a Lochailort avevano familiarizzato con l’arte della guerra; a Ringway avevano imparato la tecnica del lancio con il paracadute. A Beaulieu avrebbero appreso a muoversi in Francia nel massimo segreto, ossia a restare anonimi in mezzo agli anonimi, e a non tradirsi, neanche con un gesto apparentemente insignificante, ma inconsueto, che potesse destare sospetti. Si insediarono in una delle undici abitazioni della scuola; la tenuta pullulava di aspiranti agenti di tutte le nazionalità, in un’atmosfera che ricordava Arisaig House.
A Beaulieu, la formazione era organizzata in diversi dipartimenti incaricati di insegnare alle reclute le arti del servizio segreto: la vita in clandestinità, la sicurezza personale, le comunicazioni sul territorio, la creazione e la gestione di una copertura, i modi in cui muoversi quando si era sorvegliati dalla polizia e le maniere per eludere un pedinamento. I corsi erano tenuti da specialisti di ogni materia e, oltre agli istruttori dell’esercito britannico, nel corpo docente si trovavano anche criminali, attori, medici, ingegneri: nessuna esperienza era trascurabile per la formazione dei futuri agenti. Così le reclute seguirono un corso di effrazione tenuto da un esperto scassinatore, che insegnò loro a forzare serrature, a introdursi in un appartamento e a scardinare casseforti, nonché a duplicare una chiave utilizzando una scatola di fiammiferi riempita di plastilina per fare un calco dell’originale.
Un attore li iniziò all’arte del camuffamento e all’abilità di cambiare aspetto rapidamente. Si trattava di un insegnamento raffinato, che aveva a che fare non tanto con parrucche e barbe finte, quanto con la scelta di piccole modifiche: indossare un paio di occhiali, pettinarsi in maniera diversa, modificare la propria apparenza anche solo disegnandosi sul volto una finta cicatrice con il collodio, una sostanza simile alla cera e che asciugava molto rapidamente.
Un ufficiale dell’esercito istruì le reclute sulle tecniche di uccisione silenziosa, per eliminare con la massima discrezione un eventuale inseguitore o un obiettivo: strangolamento, coltello, pistola di piccolo calibro con o senza silenziatore.
Un medico affrontò qualche nozione di chirurgia plastica: il SOE disponeva di chirurghi in grado di modificare l’aspetto fisico di un agente la cui copertura fosse stata compromessa.
Un esperto del SOE illustrò i principi della comunicazione cifrata. Laddove i contatti con Londra sarebbero avvenuti tramite marconisti e messaggi criptati, in zona operativa gli agenti si sarebbero trovati a dover comunicare con altri agenti o membri delle reti clandestine. Gli uffici postali erano sorvegliati, così come i telefoni, ed era impossibile inviare telegrammi senza declinare la propria identità, perciò occorreva industriarsi. Gli aspiranti agenti appresero quindi la cifratura, i codici dissimulati nel testo di lettere o cartoline, la tecnica dell’inchiostro simpatico, l’utilizzo di documenti miniaturizzati – in un bottone, in una pipa, o inseriti nelle sigarette con l’aiuto di un ago (in queste ultime due evenienze, in caso di arresto, i messaggi potevano essere distrutti fumando la pipa o la sigaretta in questione). C’era anche l’S-Phone, una ricetrasmittente a onde corte che permetteva a un aereo o un’imbarcazione di comunicare in un raggio di qualche decina di chilometri con l’agente a terra, munito di una stazione ricevente contenuta in una valigetta. Le conversazioni con l’S-Phone avevano la stessa chiarezza di quelle su un telefono tradizionale, e l’apparecchio poteva servire tanto a guidare un bombardiere verso un’area di lancio quanto a permettere a un agente in una zona operativa di comunicare con i membri dello stato maggiore a Londra, utilizzando il velivolo come ponte-radio con la capitale. Ma le prove delle reclute con l’S-Phone si rivelarono tutt’altro che promettente poiché, a parte i quattro anglofoni, nessuno di loro parlava abbastanza bene l’inglese per farsi capire da un pilota. E durante un’esercitazione di guida da terra di un aereo, il povero Aimé farfugliò in una lingua incomprensibile che gli valse il rimprovero dell’istruttore, il quale gli ordinò di non fare il cretino.
Vennero affrontati anche due aspetti che, in seguito, gli agenti avrebbero dovuto spiegare alle reti locali: come guidare da terra l’atterraggio dei Lysander e come delimitare le zone di lancio dei paracadutisti e dei materiali. Per quest’ultima operazione occorreva accendere a terra tre punti luminosi. In tal modo, l’equipaggio del bombardiere passava a volo radente sull’area prevista per il lancio – una manovra già molto pericolosa. Quando il pilota o il secondo individuavano il triangolo luminoso, cui si aggiungeva un segnale di sicurezza – una lettera ripetuta dell’alfabeto Morse, cioè il codice prestabilito – avvisavano il sottufficiale addetto al lancio accendendo una luce rossa. In caso di dubbi, il pilota poteva comunicare tramite un S-Phone con l’agente a terra, purché anche quest’ultimo ne fosse dotato.
Per guidare da terra l’atterraggio dei Lysander, occorreva innanzitutto trovare un’area adeguata – un prato o un campo, generalmente. Il quartiere generale del SOE per organizzare le operazioni aeree utilizzava le stesse carte Michelin di cui disponevano gli agenti in missione, in modo da poter stabilire, tramite comunicazione radio, un luogo preciso per l’atterraggio; era altresì essenziale individuare punti di riferimento sul terreno – ponti, edifici, fiumi – per facilitare l’orientamento dei piloti, che volavano di notte, a vista e a bassa quota. Occorreva inoltre segnalare la pista improvvisata disponendo alcune torce a forma di L in base alla direzione del vento, e trasmettere, come per i lanci, un codice di riconoscimento Morse. A quel punto, il pilota poteva atterrare, sbarcare o imbarcare i passeggeri con i motori sempre accesi, e decollare immediatamente dopo.
Un sentore di nostalgia aleggiava sulle giornate a Beaulieu, poiché quelli erano gli ultimi giorni che gli aspiranti agenti vivevano insieme: la guerra era più vicina che mai, e così la loro separazione. All’inizio, a Wanborough, non si erano piaciuti: si erano temuti, si erano presi in giro a vicenda, e a volte avevano volutamente affondato i colpi durante gli addestramenti. Ma ora che stavano per lasciarsi, si accorgevano di quanto si sarebbero mancati. Spesso, la sera, giocavano a carte: non lo facevano per il gioco in sé, ma per restare uniti, per dimenticare lo smarrimento, per ricordarsi di quanto fossero stati bene insieme, nonostante la durezza degli addestramenti. E al momento di solcare il cielo di Francia, quando l’euforia del lancio fosse sfumata e il terrore non li avesse ancora colpiti, per una manciata di secondi avrebbero avvertito tutto lo sgomento di essere soli con se stessi, e quella sorta di rimpianto che provavano gli uni per gli altri.
Una sera, dopo una partita a carte, Gros e Pal andarono a fare quattro passi nella tenuta dei Montagu. L’oscurità era calata da diverse ore, ma il buio non era fitto: la luna piena rischiarava l’immenso parco. Il muschio che ricopriva i tronchi dei pini spargeva nell’aria un precoce odore di primavera. Scorsero in lontananza la sagoma di una volpe.
“Un ‘Georges’!” gridò Gros, emozionato.
Pal salutò la volpe.
“Sai, Pal, io penso continuamente a Melinda.”
L’altro annuì.
“Dici che la rivedrò?”
“Ne sono certo, Gros.”
Pal sapeva che Laura gli aveva mentito.
“Te lo dico perché so che anche tu pensi sempre a Laura, vero?”
“Continuamente.”
“E cosa contate di fare? Intendo dopo, quando ci separeremo.”
“Non ne ho idea.”
“No, perché ti rendi conto anche tu che stiamo vivendo due storie serie. Tu con Laura, e io con Melinda. Mi ha notato. No-ta-to. Non è mica roba da ridere!”
“Certo che no.”
“Già. È roba seria, altroché. Appena mi danno una licenza, corro a trovarla. Lo sai come ci si sente quando si ha il cuore che batte per una bella ragazza, no?”
Pal annuì di nuovo. E pensò che Gros gli sarebbe mancato. Anche Gros pensò la stessa cosa: non aveva mai conosciuto nessuno così sincero e leale.
“Pal, tu per me sei come un fratello,” disse il ragazzone.
“Anche tu per me,” replicò Pal.
Parlarono di ciò che avrebbero fatto una volta finita la guerra.
“Io mi sposerò con Melinda,” disse Gros. “Apriremo un locale tutto nostro. Guarda, ho già disegnato il progetto.”
Estrasse da una tasca un pezzo di carta accuratamente piegato e lo porse al compagno, che lo espose alla luce della luna per vederlo meglio. Fece un fischio di ammirazione: del progetto non capiva niente, ma si rendeva conto che il disegno era stato eseguito con precisione assoluta.
“Capperi! Un gran bel locale.”
Gros gli illustrò lo schema, ma le spiegazioni non chiarirono nulla. Poi alzò la testa, smarrito, e gli chiese di punto in bianco:
“C’è una domanda che si fanno tutti: tu e Laura scopate?”
“No,” rispose Pal, piuttosto imbarazzato di non essere ancora completamente uomo.
Si chinò verso l’orecchio del compagno e sussurrò:
“È che io… non so scopare.”
Gros gli sorrise.
“Non ti preoccupare, ti rifarai molto presto.”
E schiacciò con il suo enorme braccio la spalla del ragazzo.
Pal osservò le stelle scintillanti nel cielo senza nuvole. Se suo padre avesse guardato lo stesso cielo in quel preciso momento, avrebbe visto Beaulieu, avrebbe visto i suoi compagni, avrebbe visto che il figlio non era solo. “Ti voglio bene, papà,” mormorò al vento e alle stelle.