2.

GAUVAIN PENSOSO.

 

Imperscrutabile, quella sua meditazione.

Si era operato un inaudito cambiamento a vista.

Il marchese di Lantenac si era trasfigurato.

Gauvain era stato testimone di tale trasfigurazione.

Non aveva mai creduto che cose simili potessero risultare da una complicazione d'incidenti, quali che fossero. Non avrebbe mai, neppure in sogno, immaginato che potesse accadere alcunché di simile.

L'imprevisto, quel non so che di sdegnoso che si trastulla con l'uomo, aveva afferrato Gauvain e lo teneva stretto. Gauvain aveva davanti a sé l'impossibile divenuto reale, visibile, palpabile, inevitabile, inesorabile.

Che ne pensava Gauvain?

Non era il caso di tergiversare; bisognava concludere.

Gli era stato posto un problema; non poteva sottrarsi con la fuga.

Proposto da chi quel problema?

Dagli avvenimenti.

E non dagli avvenimenti soltanto.

Giacché, quando gli avvenimenti, che sono variabili, ci pongono un problema, la giustizia, che è immutevole, ci ingiunge di risolverlo.

Dietro la nube che ci proietta la sua ombra, c'è la stella, che ci manda la sua luce.

Noi non possiamo sottrarci alla luce meglio che all'ombra.

Gauvain subiva un interrogatorio.

Compariva davanti a qualcuno.

Davanti a qualcuno di temibile.

La sua coscienza.

Egli sentiva vacillare in sé ogni cosa. Le risoluzioni più salde, le promesse più fermamente fatte, le decisioni più irrevocabili, tutto traballava nel profondo della sua volontà.

Ce ne sono di terremoti d'anima.

Più meditava su quanto aveva appena veduto, più si sentiva sconvolto.

Gauvain, repubblicano, credeva d'essere, ed era, nell'assoluto. Si era proprio allora rivelato un assoluto superiore.

Ai di sopra dell'assoluto rivoluzionario, c'è l'assoluto umano.

Ciò che accadeva non poteva essere eluso. Il fatto era grave; Gauvain faceva parte di questo fatto, ne era parte integrante; non se ne poteva sottrarre; e sebbene Cimourdain gli avesse detto: "Ciò non ti riguarda più", egli sentiva in sé qualche cosa di simile a ciò che prova un albero nel momento in cui viene strappato dalla sua radice.

Ogni uomo ha una base. Una scossa a questa base causa un turbamento profondo. Gauvain avvertiva questo turbamento.

Si stringeva la testa fra le mani, come per farne zampillare la verità. Precisare una situazione simile non era facile. Nulla di più malagevole del semplificare il complesso. Egli aveva davanti a sé terribili cifre, di cui bisognava fare il totale. Che vertigine, addizionare il destino! Egli tentava di farlo; cercava di rendersi conto; si sforzava di raccozzare le sue idee, di disciplinare le resistenze che avvertiva in sé, e di ricapitolare i fatti.

Li esponeva a se stesso.

A chi non è mai capitato di farsi un rapporto e d'interrogarsi in una circostanza suprema, sull'itinerario da seguire, sia per procedere che per indietreggiare?

Gauvain aveva assistito a un prodigio.

Contemporaneamente al combattimento terrestre, aveva avuto luogo un combattimento celeste.

Il combattimento del bene contro il male.

Un cuore spaventoso era stato vinto.

Dato l'uomo con tutto ciò che è in lui di cattivo, la violenza, l'errore, l'accecamento, la malsana caparbietà, l'orgoglio, l'egoismo, Gauvain aveva veduto un miracolo.

La vittoria dell'umanità sull'uomo.

L'umanità aveva vinto l'inumano.

E con quale mezzo? in che modo? Come aveva atterrato un colosso materiato di collera e di odio? di quali armi si era valsa? di quali macchine da guerra? La culla.

Su Gauvain era passato un barbaglio. In piena guerra sociale, in piena conflagrazione di tutte le inimicizie e di tutte le vendette, nel momento più oscuro e più furibondo del tumulto, nell'ora in cui il delitto dava tutta la sua fiamma e l'odio tutte le sue tenebre, in quel punto della lotta in cui ogni cosa diventa proiettile, in cui la mischia è tanto funesta, che non si sa più dove sia il giusto, dove sia l'onesto, dove sia il vero, bruscamente, l'Ignoto, il misterioso avvisatore delle anime aveva fatto risplendere, al di sopra delle luci e delle ombre umane, la grande luce eterna.

Al di sopra del cupo duello tra il falso e il relativo, giù negli abissi, era apparsa di colpo la faccia della verità.

Era prontamente intervenuta la forza dei deboli.

Si erano visti trionfare tre poveri esserini appena nati, incoscienti, orfani, abbandonati, soli, balbettanti, sorridenti, aventi contro di sé la guerra civile, il taglione, la spaventosa logica delle rappresaglie, l'assassinio, la carneficina, il fratridicio, la rabbia, il rancore, tutte le gòrgoni, insomma. Si era veduto l'aborto e la sconfitta d'un infame incendio, incaricato di commettere un delitto.

Si erano viste sconcertate e mandate a vuoto le feroci premeditazioni.

Si erano visti l'antica ferocia feudale, il vecchio disdegno inesorabile, la pretesa esperienza delle necessità della guerra, la ragion di Stato, tutti gli arroganti partiti presi della feroce vecchiezza svanire davanti all'azzurro sguardo di coloro che non hanno ancora vissuto. Nulla di più semplice, giacché chi non ha ancora vissuto non ha compiuto il male, è la giustizia, è la verità, è il candore; e gli immensi angeli del cielo son bimbi.

Utile spettacolo; consiglio; lezione. I frenetici combattenti della guerra senza pietà avevano improvvisamente visto ergersi, di fronte a tutti i misfatti, a tutti gli attentati, a tutti i fanatismi, all'assassinio, alla vendetta che accende i roghi, alla morte che sopraggiunge con una torcia in mano, al di sopra della enorme lezione dei delitti, l'onnipotente innocenza.

E l'innocenza aveva vinto.

E si poteva dire: "No, la guerra civile non esiste, la barbarie non esiste, l'odio non esiste, il delitto non esiste, le tenebre non esistono; per disperdere tali spettri, basta questa aurora:

l'infanzia".

Mai, in nessun combattimento, Satana era stato più visibile; e Dio neppure.

Quel combattimento aveva avuto per arena una coscienza.

La coscienza di Lantenac.

E adesso ricominciava, forse ancora più accanito e più decisivo, in un'altra coscienza.

La coscienza di Gauvain.

Che campo di battaglia è mai l'uomo!

Tutti noi siamo alla mercé di quegli dèi, di quei mostri, di quei giganti che sono i nostri pensieri.

Spesso, questi terribili belligeranti calpestano la nostra anima.

Gauvain meditava.

Il marchese di Lantenac, accerchiato, bloccato, condannato, posto fuori legge, stretto da presso come la belva nel circo come il chiodo nella tenaglia, chiuso nella sua tana diventata la sua prigione, stretto da ogni parte da una muraglia di ferro e di fuoco, era riuscito a evadere. Aveva compiuto il miracolo di scappare. Era riuscito in quel capolavoro, il più difficile di tutti in una guerra simile: la fuga. Aveva ripreso possesso della foresta per tornarvisi a trincerare, del paese per combattervi, dell'ombra per scomparirvi. Era ridivenuto il terribile randagio, il sinistro errabondo, il capitano degli invisibili, il capo degli uomini sotterranei, il padrone dei boschi. Gauvain aveva la vittoria, ma Lantenac aveva la libertà. Aveva ormai la sicurezza Lantenac, l'illimitata corsa davanti a sé, l'inesauribile scelta dei rifugi. Era inafferrabile, introvabile, inaccessibile. Il leone era stato preso in trappola, e ne era uscito.

Orbene; quell'uomo vi era rientrato.

Il marchese di Lantenac aveva volontariamente, spontaneamente, di sua piena elezione, lasciato la foresta, l'ombra, la sicurezza, la libertà per rientrare nel più spaventoso pericolo, intrepidamente; una prima volta, Gauvain l'aveva veduto precipitarsi nell'incendio a rischio di inabissarvisi, una seconda volta discendere quella scala che lo restituiva ai suoi nemici, e che, scala di salvataggio per gli altri, era per lui scala di perdizione.

E perché l'aveva fatto?

Per salvare tre bimbi.

E che ne avrebbe fatto, adesso, di quell'uomo?

L'avrebbero ghigliottinato.

Così quell'uomo; per tre bimbi, suoi? no; della sua famiglia? no; della sua casta? no; per tre piccoli poveri, i primi venuti, trovatelli, ignoti, straccioni, a piedi nudi, quel gentiluomo, quel principe, quel vecchio, fuggito, libero, vincitore, giacché l'evasione è un trionfo, aveva tutto arrischiato, tutto compromesso, tutto rimesso in discussione, e alteramente, al tempo stesso che restituiva i bambini, aveva recato la propria testa e questa testa, fino a quel momento terribile, adesso augusta, egli l'aveva offerta.

E che si stava per fare?

Accettarla.

Il marchese di Lantenac aveva avuto la scelta tra la vita altrui e la propria; in quella superba opzione, aveva scelto la propria morte.

E si stava per concedergliela.

Si stava per ucciderlo.

Che guiderdone all'eroismo!

Che rimpicciolimento per la repubblica!

Mentre l'uomo dei pregiudizi e delle servitù, prontamente trasformato, rientrava nell'umanità, loro, gli uomini della liberazione e dell'affrancamento, sarebbero rimasti nella guerra civile, nella pratica del sangue, nel fratridicio.

E' l'alta legge divina di perdono, di abnegazione, di redenzione, di sacrificio sarebbe esistita per i combattenti dell'errore e non per i soldati della verità!

Come! non fare a gara di magnanimità! rassegnarsi a quella sconfitta d'essere il più debole essendo il più forte, d'essere l'omicida essendo il vincitore, e di far dire che ci sono dalla parte della monarchia quelli che salvano i bambini, e dalla parte della repubblica quelli che ammazzano i vecchi!

Si sarebbe visto quel grande soldato, quel potente ottuagenario, quel combattente disarmato, rubato più che preso, acciuffato in piena buona azione, ammanettato col suo permesso, con la fronte ancora imperlata del sudore d'una grandiosa dedizione, salire i gradini del patibolo come si salgono i gradini di una apoteosi! E si sarebbe messo sotto la mannaia quella testa, attorno alla quale avrebbero alitato, supplici, le tre animucce degli angioletti salvati! e, davanti a quel sacrificio infamante per i carnefici, si sarebbe visto il sorriso sulla faccia di quell'uomo, e sulla faccia della repubblica il rossore!

E tutto questo si sarebbe compiuto in presenza di lui, Gauvain, comandante!

E, in condizioni di poterlo impedire, egli se ne sarebbe astenuto! Si sarebbe accontentato di quell'altero allontanamento: "Ciò non ti riguarda più", né si sarebbe detto, che, in un caso simile, abdicazione è complicità? E non si sarebbe accorto che in un'azione enorme come quella, tra colui che fa e colui che lascia fare, il peggiore è colui che lascia fare, in quanto è il più vile!

Ma non l'aveva promessa, quella morte? Lui, Gauvain, l'uomo clemente, non aveva forse dichiarato che Lantenac faceva eccezione alla clemenza, e che avrebbe consegnato Lantenac a Cimourdain?

Era in debito, lui, di quella testa. Orbene la pagava, e tutto era fatto.

Ma si trattava proprio della stessa testa?

Fino a quel momento Gauvain non aveva veduto in Lantenac che il barbarico combattente, il fanatico della regalità e del feudalesimo, il massacratore di prigionieri, l'assassino scatenato dalla guerra, l'uomo sanguinario. Quell'uomo, egli non lo temeva. Quel proscrittore egli lo avrebbe proscritto. Quell'implacabile lo avrebbe trovato implacabile. Nulla di più semplice; la strada era tracciata e lugubremente facile da seguire; tutto era previsto: si ucciderà chi uccide; si era nella linea retta dell'orrore. Inopinatamente quella linea retta si era spezzata; una svolta imprevista rivelava un orizzonte nuovo; si verificava una metamorfosi. Entrava in scena un Lantenac inatteso. Dal mostro si sprigionava l'eroe, più ancora che un eroe, un uomo. Più ancora che un'anima, un cuore. Gauvain non aveva più davanti a sé un uccisore, ma un salvatore. Gauvain era stato atterrato da un torrente di luce celeste. Lantenac lo aveva colpito con un fulmine di bontà.

E Lantenac trasfigurato non avrebbe trasfigurato Gauvain! Come! quello sprazzo di luce non avrebbe avuto il suo equivalente! L'uomo del passato sarebbe andato avanti, e l'uomo dell'avvenire indietro! L'uomo delle barbarie e delle superstizioni avrebbe improvvisamente messo le ali, e avrebbe volato, e avrebbe guardato strisciare sotto di sé, nel fango e nelle tenebre, l'uomo dell'ideale! Gauvain sarebbe rimasto a ventre in giù nella vecchia carreggiata feroce, mentre Lantenac sarebbe asceso nel sublime a correre le avventure!

Ancora una cosa.

E la famiglia?

Il sangue che stava per versare, (poiché lasciarlo versare è lo stesso che versarlo), non era forse il suo proprio sangue, di lui, Gauvain?

Suo nonno era morto, ma il suo prozio viveva; e quel prozio era il marchese di Lantenac. Forse che il fratello che era nella tomba non si sarebbe rizzato per impedire all'altro di entrarvi? E non ordinava egli forse al nipote di rispettare ormai quella corona di capelli bianchi, sorella della sua propria aureola? Non c'era forse lì, tra Gauvain e Lantenac, lo sguardo sdegnato di uno spettro?

Aveva forse per scopo di snaturare l'uomo, la rivoluzione? Era forse stata fatta per spezzare la famiglia, per soffocare l'umanità?

Tutt'altro! L'89 era sorto per affermare quelle supreme realtà, e non per negarle. Rovesciare le bastiglie significa liberare l'umanità; abolire il feudalesimo significa fondare la famiglia. E dal momento che l'autore è il punto di partenza dell'autorità, e che l'autorità è insita nell'autore, non c'è altra autorità che la paternità. Da ciò la legittimità dell'ape regina, che crea il suo popolo, e che, essendo madre, è regina; da ciò l'assurdità del re-uomo, che, non essendo il padre, non può essere il padrone; da ciò la soppressione del re, la repubblica. Che cos'è tutto questo? La famiglia, l'umanità, la rivoluzione. La rivoluzione è l'avvento del popolo; e, in fondo, il Popolo è l'Uomo.

Si trattava adesso di sapere se, dal momento che Lantenac era rientrato nell'umanità, lui, Gauvain, doveva rientrare nella famiglia.

Si trattava di sapere se lo zio e il nipote si sarebbero raggiunti nella luce suprema, o se, a un progresso dello zio, avrebbe corrisposto un indietreggiamento del nipote.

La questione, in quel patetico dibattito di Gauvain con la sua coscienza, pareva porsi in tali termini, e la soluzione pareva scaturire da se stessa: salvare Lantenac.

Sì. Ma la Francia?

A questo punto, il vertiginoso problema mutava faccia di punto in bianco.

Come! La Francia era agli estremi! La Francia era tradita, aperta, smantellata! non aveva più fossato, poiché la Germania varcava il Reno; non aveva più mura, poiché l'Italia scavalcava le Alpi e la Spagna i Pirenei. Le rimaneva il grande abisso, l'Oceano. Aveva dalla sua la voragine. Poteva addossarvisi, e, gigantesca, appoggiata a tutto il mare, combattere tutta la terra. Situazione, dopo tutto, inespugnabile. Ebbene, no, tale situazione stava per farle difetto, giacché quell'Oceano non era più suo. C'era l'Inghilterra in quell'Oceano. L'Inghilterra, è vero, non sapeva come passare. Orbene, un uomo stava per gettarle il ponte, un uomo stava per tenderle la mano, un uomo stava per dire a Pitt, a Craig, a Cornwallis, a Dundas, ai pirati: "Venite!". Un uomo stava per gridare: "Inghilterra, prendi la Francia!". E quest'uomo era il marchese di Lantenac.

Quest'uomo lo avevano preso. Dopo tre mesi di caccia, di inseguimento, di accanimento, finalmente se ne erano impadroniti. La mano della rivoluzione si era proprio allora abbattuta sul maledetto; il pugno annodato del '93 aveva afferrato per il bavero l'assassino realista; grazie a uno di quegli effetti della misteriosa premeditazione che si occupa dal cielo delle cose umane, quel parricida attendeva adesso il suo castigo nella sua propria segreta di famiglia. L'uomo feudale era nella muda feudale; le pietre del suo castello si ergevano contro di lui e si chiudevano sopra di lui, e colui che voleva consegnare il suo paese al nemico era consegnato dalla sua stessa casa ai suoi avversari. Che fosse stato lo stesso Dio a far tutto questo, era evidente. L'ora della giustizia era scoccata; la rivoluzione aveva fatto prigioniero quel nemico pubblico; egli non poteva più combattere, non poteva più lottare, non poteva più nuocere. In quella Vandea, dove c'erano tante braccia, l'unico cervello era lui; finito lui, la guerra civile era finita. Era preso: tragico e felice scioglimento. Dopo tanti massacri e tante carneficine, eccolo immobilizzato, l'uomo che aveva ucciso; toccava a lui morire, adesso.

E si sarebbe trovato qualcuno per salvarlo?

Cimourdain, che è quanto dire il '93, teneva in pugno Lantenac, che è quanto dire la monarchia, e si sarebbe trovato qualcuno per strappare quella preda da quel pugno di bronzo? Lantenac, l'uomo in cui si concentrava tutto quel fascio di flagelli, che si dicono il passato, il marchese di Lantenac era nella tomba, la pesante porta eterna si era richiusa su di lui, e sarebbe venuto qualcuno, dal di fuori, a tirarne indietro il chiavistello? Quel malfattore sociale era morto, con lui erano morte la rivolta, la lotta fratricida, la guerra bestiale, e qualcuno lo avrebbe resuscitato?

Oh! come avrebbe riso quella testa di morto!

Come quello spettro avrebbe detto: "Sta bene, eccomi vivo, imbecilli!".

Come si sarebbe rimesso alla sua opera orrenda! come si sarebbe rituffato, implacabile e gaudioso, nella voragine dell'odio e della guerra, Lantenac! come si sarebbe tornato a vedere, fin dal giorno dopo, case arse, prigionieri massacrati, feriti soppressi, donne fucilate!

E non se la esagerava forse un pochino, dopo tutto, Gauvain, quell'azione che lo affascinava?

Tre bambini erano perduti; Lantenac li aveva salvati.

Ma chi li aveva perduti?

Non era forse stato Lantenac?

Chi aveva collocato quelle culle in quell'incendio?

Non era forse stato l'"Imânus"?

Ma chi era l'"Imânus"?

Il luogotenente del marchese.

Il responsabile è sempre chi comanda.

L'incendiario e l'assassino era dunque Lantenac.

Che cosa aveva compiuto di tanto ammirevole, dunque?

Non aveva persistito. Null'altro.

Dopo aver architettato il delitto ne era indietreggiato. Aveva fatto orrore a se stesso. Il grido della madre aveva risvegliato in lui quel fondo di vecchia pietà umana, specie di sedimento della vita universale, che si ritrova in tutte le anime, anche nelle più fatali.

A quel grido, egli era ritornato sui suoi passi. Dalla notte in cui stava sprofondando, era retrocesso verso la luce. Dopo aver perpetrato il delitto, lo aveva disfatto. Tutto il suo merito stava in questo:

non essere stato un mostro fino in fondo.

E per così poco, restituirgli tutto! rendergli lo spazio, i campi, le pianure, l'aria, la luce! rendergli le foreste, di cui si sarebbe servito per il banditismo; rendergli la libertà, di cui si sarebbe valso in favore della servitù; rendergli la vita, che avrebbe impiegato per la morte.

Quanto a cercare d'intendersi con lui, quanto a voler venire a trattative con quell'anima altera, quanto a proporgli la libertà a certe condizioni, quanto a chiedergli se avrebbe consentito, per aver salva la vita, ad astenersi per l'avvenire da ogni ostilità e da ogni rivolta, che errore sarebbe stato! Gli si sarebbe innanzi tutto dato un vantaggio enorme; poi si sarebbe andati a dar di cozzo contro un disdegno da non dirsi; e infine Lantenac avrebbe schiaffeggiato la domanda con la risposta, dicendo: "Tenete le vergogne per voi.

Uccidetemi!".

Nulla da fare, infatti, con un tal uomo, se non ucciderlo o metterlo in libertà. Era un uomo fatto a picco, sempre pronto a involarsi o a sacrificarsi, aquila e precipizio di se stesso. Anima strana.

Ucciderlo? che ansietà! Liberarlo? che responsabilità!

Salvo che fosse Lantenac, tutto sarebbe stato da ricominciare, con la Vandea, come con l'idra fin tanto che non le viene mozzata la testa.

In un batter d'occhio, e con una corsa da meteora, tutta la fiamma, spenta dalla scomparsa di quell'uomo, si sarebbe riaccesa. Lantenac non si sarebbe riposato finché non avesse messo in atto il piano esecrando di porre, come il coperchio di una tomba, la monarchia sulla repubblica e l'Inghilterra sulla Francia. Salvare Lantenac era lo stesso che sacrificare la Francia; la vita di Lantenac era la morte d'una folla d'esseri innocenti, uomini, donne, bambini, riafferrati dalla guerra civile; era lo sbarco degli inglesi, l'indietreggiare della rivoluzione, le città saccheggiate, il popolo straziato, la Bretagna insanguinata, la preda restituita all'artiglio. E Gauvain, in mezzo a tutti quegli incerti bagliori, a tutti quei barbagli di luce contraddittori, vedeva vagamente abbozzarsi nella sua fantasticheria e porglisi innanzi questo problema: la messa in libertà della tigre.

Poi la faccenda riappariva sotto il suo primitivo aspetto. La pietra di Sisifo, che altro non è che il contrasto dell'uomo con se stesso, ricadeva: era proprio una tigre Lantenac?

Tigre era stato, forse; ma lo era tuttavia? Gauvain subiva quelle vertiginose spirali della mente sempre ritornante su se stessa, che rendono il pensiero simile a un còlubro. Decisamente, era mai possibile, anche dopo esame, negare il sacrificio di Lantenac, la sua stoica abnegazione, il superbo suo disinteresse? Come! attestare l'umanità in presenza di tutte le fauci spalancate della guerra civile! come! apportare la verità superiore in mezzo al conflitto delle verità inferiori! come! provare che al di sopra della regalità, al di sopra delle rivoluzioni, al di sopra delle questioni terrene, c'è l'immenso intenerimento dell'anima umana, la protezione dovuta ai deboli dai forti, la salvezza dovuta a quelli che sono perduti da quelli che sono al sicuro, la paternità dovuta a tutti i bambini da tutti i vecchi! Provare queste cose magnifiche, e provarle facendo dono della propria testa! Come! essere un generale e rinunciare alla strategia, alla battaglia, alla rivincita! come! essere un realista, prendere una bilancia, mettere su un piatto il re di Francia, una monarchia di quindici secoli, le vecchie leggi da ripristinare, l'antica società da restaurare, e mettere sull'altro tre piccoli contadinelli qualunque, e trovare il re, il trono, lo scettro e i quindici secoli di monarchia leggeri, in confronto al peso dei tre innocenti! come! tutto questo non sarebbe nulla! come! colui che ha fatto ciò dovrebbe rimanere tigre ed essere trattato da bestia feroce!

No! no! no! non era un mostro l'uomo che aveva illuminato del fulgore di un'azione divina il precipizio delle guerre civili! Il portatore di spada si era trasformato in portatore di luce. L'infernale Satana era ridiventato il celeste Lucifero. Lantenac si era riscattato da tutte le sue barbarie con un atto di sacrificio; perdendosi materialmente si era salvato moralmente; si era rifatto innocente; aveva firmato la sua propria grazia. O non esiste, forse, il diritto di perdonare a se stesso? Era venerabile, ormai.

Lantenac era stato straordinario. Adesso toccava a Gauvain.

Gauvain era incaricato di ribattergli.

La lotta delle buone passioni e delle passioni cattive produceva in quel momento sul mondo il caos. Lantenac, dominando quel caos, ne aveva sprigionato l'umanità. Toccava a Gauvain, adesso, sprigionarne la famiglia.

Che stava per fare?

Avrebbe forse ingannato la fiducia di Dio?

No. E balbettava a se stesso: "Salviamo Lantenac".

"Sta bene, dunque. Va, fai il gioco degli inglesi. Diserta, passa al nemico. Salva Lantenac e tradisci la Francia".

E rabbrividiva.

"La tua soluzione non è una soluzione, o sognatore!". Gauvain scorgeva nell'ombra il sinistro sorriso della sfinge.

Quella situazione era una specie di temibile crocicchio, dove andavano a sfociare e a confrontarsi le verità contrastanti, e dove fissamente si squadravano le tre supreme idee dell'uomo: l'umanità, la famiglia, la patria.

Ognuna di quelle voci prendeva a suo turno la parola, e ciascuna a sua volta diceva il vero. Come scegliere? Ciascuna a sua volta pareva trovasse il punto di congiunzione della saggezza e della giustizia, e diceva: "Fai così". Era quello che bisognava fare? Sì. No. Il ragionamento diceva una cosa; il sentimento ne diceva un'altra. I due consigli erano contrari. Il ragionamento non è che la ragione; il sentimento è spesso la coscienza. Il primo viene dall'uomo, il secondo da più in alto.

Appunto per questo il sentimento ha minore luminosità e maggior potenza.

Eppure, quanta forza nella severa ragione!

Gauvain esitava.

Perplessità feroce.

Davanti a Gauvain si spalancavano due abissi. Perdere il marchese, o salvarlo? Bisognava precipitarsi nell'uno o nell'altro.

Quale di quelle due voragini era il dovere?

 


Novantatre'
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