Fu una cosa veramente spaventevole.
Quel corpo a corpo superò tutto quanto si era potuto immaginare che sarebbe stato.
Per trovare qualche cosa di simile, bisognerebbe risalire ai grandi duelli di Eschilo o alle antiche carneficine feudali, a quegli "attacchi all'arma corta" che sono durati fino al diciassettesimo secolo. quando si entrava nelle piazzeforti dalle falsebrache; assalti tragici, nei quali, dice il vecchio sergente della provincia di Alentejo, "avendo le mine fatto il loro effetto, gli assedianti avanzeranno portando tavole rivestite di lastre di latta, armati di scudetti rotondi e di ripari mobili, forniti come si deve di granate, facendo abbandonare le trincee o le ridotte ai difensori, e se ne impadroniranno, incalzando vigorosamente gli assediati".
Il punto d'attacco era orribile. Era una di quelle brecce che si chiamano in gergo del mestiere "brecce sotto volta", che è quanto dire, e il lettore se ne ricorderà, perché già ne abbiamo parlato, un crepaccio che attraversava il muro da una parte all'altra, e non una frattura svasata e scoperta. L'effetto della mina era stato così violento, che la torre era stata spaccata dall'esplosione fino a più di quaranta piedi al di sopra del fornello; ma non era che una spaccatura, e l'apertura praticabile che serviva da breccia e dava adito alla sala a terreno somigliava a un colpo di lancia, che fora, piuttosto che a un colpo di scure, che intacca.
Era una puntura nel fianco della torre; una lunga frattura penetrante; qualche cosa come un pozzo coricato a terra, un corridoio sbisciolante e saliente come un budello attraverso a una muraglia di quindici piedi di spessore; non si saprebbe dire che informe cilindro ingombro di ostacoli, di tranelli, di esplosioni, nel quale la fronte urtava nei blocchi di granito, i piedi nei rottami e gli occhi nelle tenebre.
Gli assalitori avevano innanzi quell'andito nero, imboccatura di voragine, che aveva per mascelle, di sopra e di sotto, tutte le pietre della muraglia fracassata; le fauci di un pescecane non hanno più denti di quanti ne avesse quella formidabile lacerazione. Era giocoforza entrare in quel foro, e uscirne.
Dentro, tempestava la mitraglia; fuori, si rizzava la ridotta. Fuori, che è quanto dire nella bassa sala a pian terreno.
Solo gli scontri degli zappatori nelle gallerie coperte quando la contromina viene a distruggere la mina; solo i massacri a colpi di scure nei frapponti dei vascelli all'abbordaggio durante le battaglie navali, hanno una tale ferocia. Battersi in fondo a una fossa è l'estremo grado dell'orrore. E' spaventoso uccidersi l'un l'altro con un soffitto sopra la testa. Nel momento in cui la prima ondata degli assedianti entrò, tutta la ridotta si coprì di lampi, e fu qualche cosa come un fulmine che scoppiasse sotto terra. Il tuono che assaliva ribatté al tuono in agguato. Le detonazioni si incrociarono. Si levò il grido di Gauvain: "Addosso!". Poi il grido del Lantenac: "Fermi contro il nemico!". Poi il grido dell'"Imânus": "A me quelli del Maine!". Si udirono quindi dei tintinnii, sciabole contro sciabole, e, una dietro l'altra, spaventose scariche, un vero macello. La torcia infissa nel muro rischiarava in modo vago tutto quello spavento.
Impossibile distinguere alcunché, i combattenti erano immersi in un tenebrore rossastro; chi entrava là dentro, diventava subito sordo e cieco, sordo per lo strepito, cieco per il fumo. Gli uomini posti fuori combattimento giacevano tra i rottami; gli altri camminavano su cadaveri, calpestavano piaghe, frantumavano membra infrante, di dove uscivano urli; i morenti mordevano loro i piedi. Di tanto in tanto, si stabilivano silenzi più orrendi del frastuono. Erano una colluttazione generale; si udivano gli spaventosi aliti delle bocche, poi digrignar di denti, rantoli, imprecazioni, e il tuono ricominciava. Un rivo di sangue usciva dalla torre per la breccia e si spandeva nell'ombra.
Quella tetra pozza fumava, là fuori, tra l'erba.
Si sarebbe detto che fosse la stessa torre a perdere sangue, che la gigantessa fosse ferita.
Cosa sorprendente, tutto quel parapiglia non faceva quasi nessun rumore all'esterno. La notte era quanto mai buia, e, sia nella pianura che nella foresta, c'era attorno alla fortezza investita una non so qual funebre pace. Dentro, era l'inferno; fuori, era il sepolcro. Quel cozzo d'uomini sterminantisi nelle tenebre, quei crepitii di moschetti, quei clamori, quegli urli di rabbia, tutto quel tumulto spirava sotto la massa dei muri e delle volte; al fragore mancava l'aria, e alla carneficina si aggiungeva il soffocamento. Fuori della torre tutto quel fracasso si avvertiva appena. In quel frattempo i bimbi dormivano.
L'accanimento aumentava. La ridotta teneva duro. Non c'è nulla di più malagevole da forzare che quel genere di barricate ad angolo rientrante. Se gli assediati avevano contro il numero, avevano dalla loro la posizione. La colonna d'assalto perdeva molti uomini.
Allineata e allungata fuori, ai piedi della torre, essa si cacciava pian piano nell'apertura della breccia, e si raccorciava, come un serpente che entri nella sua tana.
Gauvain, che aveva imprudenze da giovane condottiero, era nella sala bassa, là dove più ferveva la mischia, con tutta la mitraglia attorno a sé. Aggiungiamo che aveva la fiducia dell'uomo che non è mai stato ferito.
Mentre si voltava per impartire un ordine, un barbaglio di moschetteria illuminò, vicinissima a lui, una faccia.
Cimourdain! - esclamò il giovane. - Che cosa venite a fare qua dentro?
Era Cimourdain infatti; e rispose:
Vengo per starti vicino.
Ma vi farete uccidere!
E tu, allora, che altro fai?
Ma qui, io sono necessario; voi no.
Dal momento che ci sei tu, ci debbo essere anch'io.
No, maestro.
Sì, figlio mio!
E Cimourdain rimase presso Gauvain.
I morti si ammucchiavano sul lastrico della sala bassa.
Sebbene la ridotta non fosse ancora forzata, il numero doveva evidentemente finire per vincere. Gli assalitori erano allo scoperto e gli assaliti al riparo; per ogni assediato che cadeva cadevano dieci assalitori; ma gli assedianti si rinnovavano. Gli assedianti aumentavano e gli assediati diminuivano.
I diciannove assediati erano tutti dietro la ridotta, in quanto là era l'attacco. Avevano morti e feriti. A dire molto, erano in quindici a combattere ancora. Uno dei più selvaggi, Canta-d'inverno, era stato spaventosamente mutilato. Era un bretone tozzo e ricciuto, della specie piccola e vivace. Aveva un occhio sfondato e la mascella fracassata. Poteva ancora camminare. Si trascinò, su per la scala a spirale, nella camera del primo piano, sperando di potere colà pregare e morire.
Si era addossato al muro, presso la feritoia, per cercare di respirare un poco.
Di sotto, il massacro davanti alla ridotta si faceva sempre più orribile. Nell'intervallo tra due scariche, Cimourdain alzò la voce:
Assediati! - gridò. - Perché far scorrere sangue ancora più a lungo?
Siete presi. Arrendetevi. Pensate che siamo quattromilacinquecento contro diciannove, cioè in più di duecento contro uno. Arrendetevi.
Finiamola con queste melensaggini, - rispose il marchese di Lantenac.
E venti pallottole risposero a Cimourdain.
La ridotta non saliva fino alla volta; ciò permetteva agli assediati di sparare dal di sopra di essa; ma permetteva anche agli assedianti di scalarla.
All'assalto della ridotta! - gridò Gauvain. - C'è qualcuno di buona volontà per dare la scalata alla ridotta ?
Io! - disse il sergente Radoub.