Prologo

Thingvellir, Islanda. Estate dell’anno 1217.

Il cavallo si drizzò su due zampe e poi tornò ad affondare gli zoccoli nel sentiero fangoso.

Il getto d’acqua, abbagliante e alto come le guglie di una cattedrale, si dissolse ben presto in una nuvola di vapore. L’animale sbuffò, irrequieto: non aveva mai visto nulla di simile.

Snorri Sturluson smontò agilmente dal suo destriero e gesticolò con le mani guantate. Dietro di lui, i cavalieri tirarono le briglie e il convoglio si fermò in un fragore di nitriti e tintinnii di spade.

«Siamo arrivati. È laggiù!», esclamò in francese. Era un uomo robusto, nel fiore degli anni. Aveva il viso coperto da una folta barba che metteva in risalto gli occhi azzurri e una chioma bionda che gli scendeva fin sul mantello.

Il nobiluomo che lo seguiva accarezzò il manto sudato del suo purosangue e si avvicinò zoppicando all’islandese.

Sotto di loro si apriva una distesa verdeggiante, incastonata tra due falesie di pietra lavica. Dal costone della montagna scendeva una cascata d’acqua cristallina e all’orizzonte, oltre un assembramento di persone, bestiame, casupole e capanne, si innalzava un’immensa scogliera nera. Ai suoi piedi, scorrevano inquiete le acque di un fiume frastagliato, azzurro come il cielo di quel mattino.

«E così è questo il tanto acclamato Althing?», sibilò il cavaliere, con un ghigno dipinto sul viso. Si chiamava Guillaume de Chartres, figlio del conte di Bar-sur-Seine, ed era il Gran Maestro dell’Ordine da otto anni. Alla testa di un manipolo di templari aveva condotto campagne contro gli infedeli in tutti i luoghi conosciuti, dalla Terrasanta, fino a Damasco e la Cilicia. E adesso si trovava lì, ai confini del mondo, per quella che quasi certamente sarebbe stata la sua impresa più importante.

«E dunque… in questa landa approvate le vostre leggi?», si informò de Chartres incredulo. Sotto il mantello e la sopravveste bianca indossava un usbergo di cuoio incrociato che gli cingeva la testa, lasciando scoperto solo il viso. Sullo scudo di pioppo era incisa l’effigie dei Cavalieri del Tempio di Salomone. «E tutti questi uomini sono giunti fin qui solo per ascoltare le vostre parole?».

Snorri si limitò ad annuire, con una punta d’orgoglio. Oltre che un poeta e uno storico, aveva l’onore di essere il Lögsögumaður, l’Annunciatore, l’eletto più importante di quell’organo legislativo; a lui spettava il compito di declamare le consuetudini e le norme in vigore davanti ai rappresentanti di tutte le tribù dell’isola.

Nelle due settimane di adunanza dell’Althing accorrevano nella piana migliaia di persone; si fermavano lì, sistemandosi in capanne di pietra ed erba, e ascoltavano le sue parole in prosa. Era anche l’occasione, per la gente comune, di concludere buoni affari: Thingvellir si trasformava nel centro culturale del Paese e si potevano incontrare mercanti, forgiatori, conciatori, musicisti e anche poeti, esattamente come Snorri.

«Nel nostro Regno, le decisioni le prende Sua Altezza in persona…», insistette il conte, lanciando un’occhiata all’uomo che l’aveva condotto a Thingvellir.

L’islandese non replicò. Se quel cavaliere, con il suo nutrito seguito, era giunto sull’isola, era per una ragione molto importante, vitale. Inutile spiegargli che l’Althing era un’istituzione nata trecento anni prima e che le decisioni per il popolo le prendeva il popolo stesso, e non un monarca. De Chartres non avrebbe compreso, a giudicare dai suoi modi.

«Dobbiamo parlare con Finnur Hrafnsson», mormorò infine Snorri. «È l’unico che può fornirvi ciò di cui avete bisogno… Lo incontreremo questa sera, dopo l’audizione!».

Il nobiluomo restò per un secondo in silenzio. Se dovevano attendere un’intera giornata, tanto valeva mettersi comodi. Si mordicchiò le labbra, riflessivo, e poi tornò oltre il crinale, verso i suoi cavalieri. «Fratelli! In sella!», ordinò. «Scendiamo!».

Gli uomini rimontarono sui cavalli che avevano portato dal continente a bordo di tre grandi velieri salpati dal porto di Brest. Si misero in marcia e giunsero sulla cima dell’altura, al di là della quale si apriva la pianura. Cominciarono la discesa seguendo ordinatamente Snorri e il loro fratello cavaliere.

Quando le decine di rappresentanti delle tribù che affollavano la pianura li individuarono, da mille piedi di distanza, calò il silenzio.

Nessun vociare, nessuno schiamazzo, nessun verso.

Solo lo scalpitio ritmico degli zoccoli dei cavalli che scendevano verso il lago. Qualcuno si fece il segno della croce, qualcun altro pregò gli antichi dèi. Tutti temettero che, alla fine, il giorno del giudizio fosse ormai giunto; non avevano mai ammirato uno spettacolo simile. Nessuno, su quell’isola, in pace da decenni, aveva mai visto un esercito. E certamente non di quel tipo.

Gli ottanta cavalieri, tutti con identiche uniformi e identiche effigi e vessilli, scesero lentamente dal pendio, uno dietro l’altro, in groppa ai loro potenti destrieri. Indossavano tuniche di cuoio, brache di ferro allacciate dietro i polpacci e mantelli candidi. Le armature scintillavano al sole, così come l’elsa delle spade e i cappelli di ferro dai bordi ribattuti.

Giunti ai piedi dell’altura, attraversarono la folla ammutolita. Nella parte ovest della radura erano state erette costruzioni di legno e pietra, con fronde di alberi utilizzate come tetto: si trattava dei ripari di fortuna in cui si rifugiavano, la notte, migliaia di isolani.

Al piccolo trotto si inoltrarono nella distesa, dove cominciarono a comparire i recinti degli animali. Un maiale, alcune capre e un piccolo gregge di pecore gli tagliarono la strada; un grosso bue si lamentò del loro passaggio.

Si sistemarono, uno di fianco all’altro, ai piedi del frastagliato massiccio che cingeva Thingvellir sul lato nord, battuto e scolpito dalle impetuose onde dell’oceano.

Fu Snorri stesso a stemperare la tensione, causata dall’imprevisto arrivo di quei bizzarri stranieri. «Sono amici. Vengono in pace», urlò, in maniera che anche dalla parte opposta del campo, tutti lo potessero udire. «Assisteranno all’adunanza!».

Quando il sole fu alto, i capi tribù si avvicinarono alla roccia dalla quale l’Annunciatore avrebbe prima risolto le controversie e poi avrebbe declamato le norme in vigore.

Snorri Sturluson, eletto due estati prima, salì sulla sommità del rilievo naturale che veniva usato come pulpito e cominciò a parlare, il tono della voce alto e le parole ben scandite. Mentre con grande enfasi assolveva il suo ruolo, si interruppe spesso per poi ricominciare, asciugandosi più volte il sudore che gli scorreva copioso sulla fronte. Recitò, come d’usanza, le regole vigenti e guardò a uno a uno le centinaia di uomini che aveva davanti, fino a quando, all’imbrunire, l’adunanza dell’Althing si fu conclusa.

Il Lögsögumaður era sfinito, ma sapeva che prima di far riposare le sue membra lo aspettava un compito forse ancora più arduo: parlare con Finnur Hrafnsson, un gigante imburberito dall’età e dagli acciacchi, che avrebbe ricevuto i suoi ospiti di malavoglia.

«Mi dicono che avete bisogno di una guida per attraversare le mie terre», mormorò, appena la piccola delegazione si presentò al suo cospetto. Era il più anziano dei capi tribù, aveva spalle larghe, un addome prominente e un viso segnato dal tempo. I lunghi capelli ricci erano di color argento. Si accarezzò la folta barba mentre armeggiava con una fucina spenta e le sue parole furono tradotte da Snorri.

«Con il vostro permesso e la vostra benedizione, s’intende», rispose il nobiluomo.

L’omaccione sorrise in modo sguaiato e osservò la schiera di templari che avevano seguito il francese: se avesse voluto, li avrebbe schiacciati come mosche. Dietro di loro era stato posizionato un carro di legno coperto con un grande drappo bianco. Lo fissò per qualche istante, poi tornò a osservare il cavaliere. «Sarà un viaggio difficile. Voi non siete avvezzi…», lo schernì.

Il nobile si strinse nelle spalle e dopo una breve riflessione rispose: «È per questo che siamo venuti da voi, messere… Siamo qui in pace, come amici, a chiedere il vostro umile supporto e aiuto. Ciò che trasportiamo è troppo importante per essere affidato a uomini inesperti o per permettere che cada tra le mani degli infedeli». Pronunciò quel discorso con una solennità tale che lo stesso Snorri dovette faticare parecchio a tradurre, almeno a giudicare dalle numerose pause tra le parole.

«Vengono in pace dal continente e la loro missione è di vitale importanza», aggiunse l’Annunciatore, nella speranza di rendere più solide le ragioni di de Chartres.

Hrafnsson rimase in un silenzio meditabondo. Poi sorrise appena e si avvicinò al francese. Gli diede una vigorosa pacca sulla spalla, tale da far tintinnare l’armatura, e subito dopo scoppiò in una risata fragorosa. «Se siete amici del nostro Lögsögumaður, siete anche amici miei. Avrete ciò che vi occorre. E adesso beviamo».

La mattina successiva la carovana abbandonò Thingvellir. Gli ottanta cavalieri si diressero verso nord, ordinatamente come erano giunti. Alcuni destrieri scrollarono la testa, soffiando nell’aria gelida, e l’abbaiare di un cane li accompagnò finché l’ultimo dei templari non scomparve dietro un costone roccioso.

Alle prime luci dell’alba del quinto giorno di marcia, davanti a Guillaume de Chartres si aprì una caldera di rocce gialle e rosse. Era una specie di anfiteatro naturale, talmente grande che tutti gli ottanta cavalieri con le guide potevano entrarci comodamente in sella ai loro destrieri.

L’avevano raggiunta dopo un cammino estenuante, su un terreno impervio percorso da fiumi che sciabordavano sotto il livello dei sentieri, scavandosi il letto tra rocce grandi come galee. Avevano attraversato radure sterminate, campi di lava ricoperti da pallidi muschi, foreste di fitti alberi verdeggianti, pozze di roccia fusa che ribollivano al loro passaggio. Lungo l’orizzonte di pietra lavica, i vulcani a ridosso dei ghiacciai non avevano mai smesso di vomitare vapori sulfurei e cenere bianca.

Ciò che più impressionò i cavalieri furono però i getti di vapore improvvisi che eruttavano dalle numerose depressioni calcaree del terreno. Sembravano colonne di fumo, alte come uno dei minareti degli infedeli, ma erano fatte di acqua calda e di vapore.

«Sono manifestazioni del maligno», avevano cominciato a bofonchiare gli uomini, impauriti e stanchi per la fatica. «Il signore ci ha abbandonato».

Ma le guide incaricate da Finnur Hrafnsson di accompagnare gli ottanta templari, avevano spiegato che si trattava di fenomeni del tutto naturali in quelle terre, e che nulla avevano a che fare con il prezioso carico che portavano.

Il baule, nero e con sigilli dorati sulle quattro serrature, era stato sistemato su un carro trainato faticosamente da due destrieri roani, con una scorta armata che non lo abbandonava mai, neppure di notte.

Dopo aver viaggiato verso est senza sosta, per cinque giorni e cinque notti, sotto cieli stellati, scrosci di pioggia improvvisi e giornate assolate, erano infine giunti a destinazione.

«Voi! Individuate dei massi che facciano al caso nostro… Forza, mettiamoci al lavoro», li incitò de Chartres, stravolto e con il viso pallido ed emaciato.

Al calar della sera del secondo giorno, gli scalpellini che li avevano accompagnati avevano terminato le loro opere: avevano trasformato quattro pietre grezze, scelte accuratamente, in altrettante statue grossolane, appena accennate. Con pochi semplici colpi di scalpello avevano creato i quattro riferimenti che erano stati concordati.

Il nobiluomo scrutò il cielo con un sestante tra le mani e individuò quattro punti dell’anfiteatro, che indicò ai suoi uomini. In uno tracciò un segno sulla pietra e ordinò poi di scavare.

Quando la notte stava per cedere il passo al giorno e la luna piena era tramontata dietro un costone roccioso, una fenditura era stata aperta nella roccia lavica contrassegnata dal Gran Maestro.

Il baule fu portato fin sull’orlo di quel crepaccio artificiale e quattro cavalieri, aiutandosi con alcune cime, lo calarono nell’anfratto ricavato nel terreno e lo coprirono con terra e pietre. Infine, spostarono una delle quattro sculture e la posizionarono sopra il punto esatto sul quale avevano scavato.

A quel punto, tutti gli uomini si dedicarono a sistemare anche gli altri tre manufatti nei luoghi già individuati. Poco prima dell’alba, il lavoro era completo. Nei quattro punti cardinali dell’anfiteatro erano state collocate tutte le sculture: un guerriero con un elmo a nord; un’aquila che si lancia in volo a sud; un rudimentale scranno, simile a un trono, a ovest, e un volto simile a quello di Cristo.

Prima di ripartire, de Chartres scrutò a uno a uno i suoi ottanta fratelli del tempio. Erano stremati, ma la felicità per aver portato a termine quell’importante impresa gli si leggeva nei volti scavati dalla fatica.

Poi osservò la scultura sotto la quale era stato sepolto il prezioso baule e si fece il segno della croce. Pregò Dio che non cadesse mai in mani sbagliate.