Capitolo 6
Firenze, 26 dicembre.
Due giorni dopo il suicidio di Monsignor de Beaumont
Nigel Sforza varcò la soglia degli Uffizi alle nove in punto.
Il museo era chiuso ma Andrea Cavalli Gigli lo accolse davanti alla porta della sala riunioni e gli fece cenno di entrare. «Piacere di conoscerla».
«Piacere mio. La ringrazio per avermi ricevuto». Sforza si accomodò su un divano della sontuosa stanza. Dalle ampie finestre si vedeva l’Arno e uno scorcio del Ponte Vecchio. Pioveva.
«Purtroppo posso dedicarle solo pochi minuti», esordì Cavalli Gigli mentre si accomodava sulla poltrona di fronte a Sforza. Era un uomo più vicino ai sessanta che ai cinquanta, capelli neri tagliati molto corti che lasciavano intravedere una calvizie incipiente. Indossava una giacca di tweed, gilet vinaccia, camicia chiara e cravatta dello stesso colore del gilet. Accavallò le gambe, le mani sulle ginocchia. «D’altra parte, credo di averle già detto al telefono quanto sapevo».
Sforza sorrise, perplesso. «Come saprà sto conducendo un’indagine con la Gendarmeria vaticana. Dai tabulati relativi a monsignor Claude de Beaumont risultano molte telefonate dirette al suo cellulare e al suo ufficio. Mi può spiegare meglio cosa voleva da lei con tanta insistenza?».
Cavalli Gigli fece cadere lo sguardo sulla statua di due angeli, sistemati tra le due finestre, e si morsicò le labbra. Sembrava indeciso su cosa raccontare all’ispettore e su cosa, invece, tacere. «Come le ho già raccontato ho conosciuto de Beaumont cinque anni fa. Pubblicammo un libro insieme. Non l’ho più rivisto ne sentito fino all’inizio di dicembre».
«Poi il monsignore l’ha contattata…», tagliò corto Sforza.
Il soprintendente annuì e si alzò dalla poltrona. «Disse che aveva un’incisione da mostrarmi, voleva sapere cosa ne pensavo».
«Al telefono mi ha detto che la portò qui di persona e poi gliela lasciò per esaminarla. Me la può mostrare?».
L’anziano aveva raggiunto il tavolo sistemato dalla parte opposta rispetto alle finestre. Due imponenti quadri si riflettevano sulla superficie lucida. Da una busta, che evidentemente doveva aver sistemato prima dell’arrivo dell’ispettore, estrasse una cartellina nera e la aprì davanti al suo ospite.
«È di Marcantonio Raimondi, risale al 1520 circa. Sembra autentica», disse, mentre porgeva la pergamena a Sforza. «Potrebbe essere parte di un dittico. Questa sembrerebbe la parte superiore».
L’ispettore osservò l’immagine. Era un’incisione in bianco e nero, simile a un disegno ma ottenuta cospargendo d’inchiostro una lastra di rame lavorata. Era poco più grande di un normale foglio A4 e sembrava molto antica. «Assomiglia a qualcosa che ho già visto…».
«Assomiglia alla Trasfigurazione di Raffaello. È un po’ come una fotografia. Secondo Claude de Beaumont, Raimondi la realizzò mentre il dipinto dell’artista di Urbino veniva completato. È la copia della parte alta del quadro, ma differisce per un particolare».
Sforza osservò meglio l’incisione e notò subito che la figura del Cristo, al centro dell’immagine, aveva qualcosa di insolito. Sembrava differente da come gli pareva di ricordarla.
«Come forse saprà la Trasfigurazione è stato l’ultimo quadro a essere dipinto da Raffaello. Si dice che il pittore morì subito dopo aver completato il volto del Cristo».
Sforza appoggiò l’incisione sul tavolino e accavallò le gambe. «Non capisco quale possa essere il motivo dell’ossessione di de Beaumont. Per quale ragione continuava a telefonarle?».
Cavalli Gigli si avvicinò a un mobiletto bar e ne estrasse due bicchieri. «Cosa beve?», domandò asciutto.
«Nulla, grazie», borbottò Sforza.
Il soprintendente si versò un po’ di liquore e tornò a sedersi. «Se quell’incisione è davvero ciò che de Beaumont credeva che fosse, si dovrebbero riscrivere pagine intere dei libri di storia dell’arte», spiegò con tono pacato, come se stesse parlando a un bambino. «Fino a oggi si diceva che Raffaello fosse morto subito dopo aver dipinto il volto di Cristo. E che la parte incompleta fosse stata terminata dai suoi allievi. Ma se quell’incisione rappresenta davvero una sorta di fotografia dell’opera prima che l’artista morisse, significa che il quadro era già completo».
Sforza indugiò per un istante, indeciso se interrompere Cavalli Gigli. «Mi perdoni ma ancora non capisco il motivo di tanta insistenza da parte del monsignore».
«Il motivo è molto semplice: quell’incisione potrebbe rappresentare un movente per il possibile omicidio di Raffaello. De Beaumont aveva fatto delle indagini e ipotizzava che il committente di quell’opera non fosse il papa, bensì un monarca arabo. Ha guardato bene l’immagine centrale?». Cavalli Gigli voltò il foglio, ancora appoggiato sul tavolino, e lo mostrò nuovamente a Sforza. «Quello non è Gesù. E secondo il monsignore era Maometto. L’incisione sarebbe la prova che qualcuno ha modificato il quadro dopo la morte dell’artista... Raffaello è stato ucciso e Maometto è diventato Cristo!».
Sforza osservò di sfuggita l’incisione e poi tornò a guardare il soprintendente. «Voleva sapere cosa ne pensava? E le ha telefonato diciassette volte in un giorno?». Sforza fece una pausa teatrale, certo che Cavalli Gigli nascondesse qualcosa. «A questo punto mi tolga una curiosità: lei cosa pensa?»
«Credo che se de Beaumont avesse ragione, si tratterebbe di una scoperta straordinaria. Il monsignore si era convinto che Raffaello fosse stato ucciso e che Papa Leone X fosse il mandante. Secondo lui, con quell’opera il pittore intendeva rappresentare la pace tra i cattolici e i musulmani. E quello poteva essere un valido movente».
«Non mi ha ancora risposto: secondo lei de Beaumont aveva ragione?».
Cavalli Gigli non replicò immediatamente, scosse la testa e poi tornò a osservare la pergamena. «Come le ho detto l’incisione sembra autentica. Tutto il resto, compresa la teoria sulla pacificazione dei popoli, mi sembra un po’ azzardata e fantasiosa... Da storico dell’arte potrebbe essere una scoperta straordinaria... D’altra parte capisco che per un religioso potrebbe invece essere un colpo terribile. Sapere che i musulmani volevano la pace e che il papa invece volle l’opposto…».
Sforza osservò l’orologio, per nulla convinto. «Avete parlato solo di arte quindi? Non avete discusso d’altro? De Beaumont le ha mai parlato di una donna?».
Cavalli Gigli scosse timidamente la testa.
«Le sembrava normale, lucido, durante i vostri colloqui?»
«Io userei la parola ossessionato. Per il resto però, se mi sta chiedendo se era in sé, le direi proprio di sì. Non era pazzo. Era un uomo che improvvisamente credeva di aver perso ogni certezza nella Chiesa. E questa potrebbe essere la causa della sua ossessione».
«Prima mi diceva che avete pubblicato assieme un libro. Come ha detto che si intitolava?»
«Non credo ne troverà in giro molte copie», scherzò Cavalli Gigli, appoggiando il bicchiere sul tavolo. «È un’opera di nicchia, si intitola Il segreto dei pittori maledetti, con un sottotitolo un po’ più tecnico: Le personificazioni allegoriche da Botticelli a Caravaggio.
«Di cosa parla?»
«Come dice il titolo stesso, delle allegorie, cioè dei concetti espressi attraverso le immagini di alcuni quadri realizzati nel Cinquecento da pittori come Botticelli, Tintoretto e Caravaggio. Tra i pittori definiti “maledetti” c’è certamente Caravaggio, il più conosciuto… ma secondo noi non è il solo. Tutte quelle allegorie e quei simboli avevano lo scopo di trasmettere un messaggio secondario rispetto ai dipinti. Un messaggio che, nelle intenzioni degli artisti, doveva rimanere segreto».
In quel momento qualcuno bussò, poi la porta della sala riunioni venne aperta. «Dottore, la sua ospite è arrivata», annunciò una giovane donna.
Cavalli Gigli annuì e fissò Sforza con sguardo tronfio. «Temo che i “pochi minuti” siano scaduti. Come le avevo detto, ho un altro impegno: le pubbliche relazioni mi aspettano».
Sforza strinse la mano del soprintendente che lo accompagnò alla porta. Oltre alla segretaria, nel frattempo, era arrivata una piccola delegazione di tre donne con il capo coperto da veli.
Cavalli Gigli fece gli onori di casa: «Nigel Sforza, le presento Meredith Al Husayn».
L’ispettore sorrise e annuì con il capo. «Piacere di conoscerla». Poi tornò a guardare il soprintendente.
«È la moglie dello sceicco Mohamed bin Saif Al Husayn...», aggiunse lui. «Uno dei benefattori più generosi della galleria».