Capitolo 9

Parigi, Capodanno. 08:47.

Sessanta secondi prima dell’esplosione, Julia si arrampicò sul pianerottolo antincendio. Si mosse velocemente e silenziosamente, con l’eleganza sinuosa di una pantera che ha individuato la sua preda. Era una massa armoniosa di muscoli e curve celate dalla tuta di pelle.

Aveva rintracciato Meredith grazie ai minuscoli microchip organici impiantati alla base della corteccia celebrale della regina. Chiunque aveva a che fare con il dispositivo ne aveva almeno due posizionati poco dietro le orecchie. Emettevano un debole campo magnetico ed erano dotati di un geolocalizzatore: non aveva avuto difficoltà a individuarne la posizione esatta.

Circa un mese prima, un congegno identico era stato sistemato sulla nuca di Monsignor Claude de Beaumont, che però aveva avuto il cattivo gusto di suicidarsi prima che fosse rimosso.

La ragazza sbirciò da una finestra dove la carta di giornale si era scollata. La donna che avrebbe dovuto proteggere era dentro il locale, legata. La stavano interrogando.

Non erano amiche, ma una forma di complicità tra loro la faceva sentire più responsabile per lei, di quanto non lo fosse realmente. Erano così diverse nell’aspetto e così simili nel carattere. Meredith, americana, aveva la pelle ambrata e gli occhi castani. Lei, invece, pur essendo cittadina degli Emirati Arabi, aveva lineamenti nordici, una carnagione chiara, zigomi alti, naso piccolo e all’insù e occhi color smeraldo.

L’aspetto fisico aveva sempre giocato un ruolo importante nella vita di entrambe. Tutte e due bellissime, Meredith era stata scelta dallo sceicco anche per la sua bellezza tipicamente mediorientale, lei, invece, per la ragione opposta: a parte il passaporto, non aveva nulla di arabo.

Julia osservò di nuovo il cellulare. Il puntino lampeggiante, che simboleggiava la posizione della regina, era immobile al centro del display. Spense il telefono e lo infilò in una delle tasche della tuta.

Si trovava nella sede deserta della Credez CMR Privatbank, uno degli istituti di credito coinvolti nello scandalo dei bond spazzatura. Fallita a causa della crisi economica e della paura dei risparmiatori, la sua sede era stata abbandonata da un giorno all’altro. Nell’edificio, un parallelepipedo in cemento armato a poca distanza da Place de La Défense, erano rimaste solo sedie, scrivanie e poco altro.

Il sole, intanto, aveva cominciato a fare capolino oltre le nuvole. Una luce giallognola si rifletteva sulla superficie lucida dell’arco bianco che si stagliava lungo l’orizzonte.

Prese lo zaino e ne estrasse alcuni lacrimogeni, una Glock 9x21 e un caricatore di riserva. Li infilò nel giubbotto e poi tirò fuori un’altra arma: una pistola mitragliatrice Heckler & Koch MP7. Era una piccola mitraglietta in dotazione alle forze speciali americane ed era particolarmente adatta alla guerriglia urbana: la situazione per la quale sta addestrata a combattere… e che aveva intenzione di scatenare.

Si mise l’H&K MP7 a tracolla e tirò fuori dallo zaino l’ultima arma che aveva portato con sé: un barattolo nero grande come una bomboletta spray. Si trattava di una granata stordente, chiamata anche flashbang o stun grenade: un dispositivo in grado di provocare un frastuono da oltre 170 decibel e una luminosità di diversi milioni di candele. Chi veniva esposto all’esplosione di un flashbang rimaneva stordito per diversi istanti, e subito dopo accusava capogiri e nausea.

Julia guardò sotto di sé, verso la strada: era deserta. Inforcò un paio di occhiali speciali e si mise delle cuffie simili a quelle degli operai edili. Inspirò a fondo e azionò il grilletto della mitraglietta. Il vetro andò in frantumi e un secondo dopo fece rotolare il barattolo all’interno del locale.

Sentito il boato, gli uomini nella Land Rover aprirono gli sportelli simultaneamente. Erano nella strada dietro la banca per coprire le spalle ai loro colleghi dentro l’edificio.

A differenza dei compagni che avevano scortato Hide nell’hotel Ritz, loro avevano un abbigliamento più adatto all’attività per la quale erano stati pagati: indossavano mimetica nera, jacket tattici, giubbotti antiproiettile, ginocchiere e gomitiere. Sopra i passamontagna avevano caschetti Pro-Tech in Kevlar.

Divorarono i gradini a due a due e raggiunsero la sala principale della banca. Il primo dei tre sfondò la porta con un calcio. C’era fumo: oltre alla granata stordente, gli aggressori dovevano aver lanciato anche alcuni lacrimogeni. Non era facile individuare la posizione dei colleghi.

Poi una raffica di mitra esplose alla loro destra. Due uomini si buttarono a terra, il terzo rispose al fuoco alla cieca. Due spari in mezzo alla nebbia.

Poi si sdraiò anche lui e strisciò sotto il bancone.

Ancora colpi di mitra. Due, tre raffiche. Provenivano sempre dalla stessa posizione.

Nel frattempo uno dei militari si era spostato di nuovo. Strisciava verso una catasta di scrivanie. Mentre si muoveva prese la mira e sparò esattamente in direzione delle esplosioni precedenti. L’unico risultato furono vetri infranti.

Un secondo dopo una nuova raffica arrivò nella sua direzione e lo colpì in pieno. Crollò in ginocchio con un gemito.

Hidetoshi Tanaka aveva gli occhi che lacrimavano e, in ginocchio, teneva entrambe le mani premute sulle orecchie. Alzò lo sguardo verso Meredith: era immobile, svenuta.

Strisciò a fatica verso di lei ma una nuova pioggia di proiettili lo costrinse a fermarsi. Proveniva dalla finestra dalla quale era arrivato il flashbang.

Rotolò verso una scrivania, proprio un attimo prima che un mucchio di calcinacci si staccasse dal muro. Rovesciò il tavolo e si nascose dietro, ma a poca distanza da lui il legno cominciò a bucherellarsi sotto le scariche della mitragliatrice. Per miracolo non fu colpito né dalle schegge né dai proiettili, che avevano superato il legno, come fosse di carta velina.

Alla cieca tese il braccio oltre la sua barricata ed esplose due colpi dalla Walther PPK. Nessun risultato, visto che subito dopo un’altra scarica di pallottole andò a conficcarsi nel muro alle sue spalle.

Tanaka sbirciò da uno dei fori di proiettile per individuare la posizione degli aggressori. Il fumo ristagnava ancora nella stanza. Nonostante ciò, dalla parte opposta del locale riusciva a intravedere le ombre di due dei suoi uomini, a terra, immobili, forse svenuti. Il terzo non riusciva a vederlo.

Poi, improvvisamente, comparve: abito nero e camicia bianca che risaltava nel fumo. Si udì un clic, come di un’arma inceppata e poi un colpo singolo di pistola, seguito da tre spari di un’altra arma di piccole dimensioni, a giudicare dal suono. Il suo uomo crollò per terra battendo rovinosamente la testa.

Nello stesso istante, da dietro le spalle del giapponese arrivarono altri spari. Singoli, distanziati, potenti. Certamente provenivano da un revolver degli uomini della Land Rover. Li aveva sentiti, era certo fossero arrivati in loro aiuto.

Durante la situazione di breve stallo che seguì, si udì un tonfo sordo: come se fosse caduto un sacco di sabbia.

Julia cercò di individuare la posizione degli avversari basandosi sugli spari. Aveva contato tre guardie nel locale, escluso quello che sembrava il capo. Poi aveva sentito altre esplosioni provenienti dalla sala d’attesa. Tre armi diverse. Ne aveva dedotto che altri tre paramilitari erano arrivati in soccorso.

Sette contro uno. Una lotta impari se si fosse dissolto il fumo dei lacrimogeni. Il debole vantaggio tattico sarebbe durato ancora pochi secondi.

Abbassò la testa ed esplose un’altra scarica di MP7.

Intanto, con il suo visore cercava di individuare la posizione esatta di Meredith.

Ma i suoi rapitori avevano altri piani. Mentre si spostava, una figura nera le si materializzò davanti. L’uomo non l’aveva vista perché era di spalle, a cinque metri da lei.

Fece solo due passi verso di lui e premette ancora il grilletto della pistola mitragliatrice. Nessuno sparo, il caricatore doveva essersi esaurito.

Udito il clic, l’uomo si voltò di scatto e fece fuoco senza prendere la mira.

Il proiettile la mancò, perché Julia si spostò improvvisamente di lato, dietro una colonna. In una frazione di secondo lasciò cadere la MP7 per terra ed estrasse la Glock 9x21. Era la sua arma preferita, piccola e maneggevole. Esplose tre colpi, a distanza ravvicinata, e l’ombra nera si accartocciò su se stessa.

In quel momento udì il tonfo sordo di altri colpi di pistola, provenivano da un revolver. Erano stati sparati proprio in direzione di Meredith. Ne era certa, perché adesso riusciva a distinguere meglio tra il fumo dei lacrimogeni, in quel punto del locale ormai quasi dissolto. Si avvicinò strisciando e la vide per terra, ancora legata alla sedia. Era viva ma il sangue zampillava da una spalla e il corpo tremava per gli spasmi.

Julia si sporse, cercando di metterla al riparo degli spari, ma era troppo pesante. Solo qualche secondo dopo un’altra raffica di proiettili esplose verso la loro posizione da dietro un pilastro. L’ultima delle finestre andò in frantumi.

Infilò la pistola nella cintura e con entrambe le mani afferrò una gamba della sedia. La trascinò verso di sé e finalmente riuscì a ripararsi dietro un altro pilastro. Si avvicinò all’orecchio della regina per sussurrarle qualcosa di rassicurante.

“Stai calma, ce la caveremo”, le avrebbe detto. Ma poi la vide in viso: una macchia nera, grossa come un tappo di champagne, si era formata tra gli occhi, che avevano un’espressione di ghiaccio, esanime; dalla bocca spalancata zampillava un fiotto di sangue. Era stata colpita a morte, probabilmente da quell’ultimo sparo di revolver.

Per un secondo le mancò il fiato. Il cuore cominciò a pompare all’impazzata.

Era accaduto.

Non era possibile: la persona che era stata incaricata di proteggere a costo della sua stessa vita, era stata colpita. Se avessero preso la mira, da così lontano e in mezzo ai lacrimogeni, non sarebbero mai riusciti a centrala… Ma avevano sparato alla cieca. Esattamente come lei.

Non c’era più nulla da fare. Le accarezzò la nuca insanguinata e, in una frazione di secondo, individuò ciò che cercava: rimosse i due piccoli chip – che gli uomini di Tanaka dovevano aver deciso di estrarre in seguito – e se li infilò in tasca. Poi, sconvolta, si alzò in piedi.

Espulse il caricatore dalla Glock e lo sostituì con quello di riserva. In un impeto di rabbia, con le lacrime agli occhi, cominciò a sparare all’impazzata fino a che non terminarono i proiettili, indietreggiando fino alle finestre. Quando ebbe esploso l’ultimo colpo del caricatore scavalcò il muro e si dileguò lungo il ballatoio.