Capitolo 13

15 miglia al largo delle isole Hawaii (Stati Uniti), 26 dicembre.

«Quanto ci vuole per pianificare una guerra civile?». Il principe era appoggiato alla battagliola di dritta, sul ponte principale del suo yacht. Era buio, ma ai riflessi della luna piena il mare sembrava piatto come una lastra di marmo. Nelle vetrate a specchio affacciate sul golfo si riflettevano le acque scure dell’oceano.

«Dipende. Ogni realtà locale è differente». L’uomo dai lineamenti occidentali, era seduto sul bordo della vasca idromassaggio. Indossava un cappellino da baseball con la scritta “I Honolulu”, una camicia bianca, bermuda cachi e scarpe nautiche. Era molto più vecchio del suo interlocutore. «Mi spiego meglio: il problema non è togliere il coperchio a una pentola che sta per esplodere. La difficoltà sta nel capire quanto tempo e quanto denaro serviranno per rimetterlo, quel coperchio».

«Mio zio ha perso da tempo il controllo della nostra terra», commentò Ibrahim sistemandosi lo shemagh, il copricapo musulmano a scacchi rossi e bianchi. Aveva ventinove anni, la pelle abbronzata e dei grandi occhi neri che in quel momento stavano fissando i riflessi sul pelo dell’acqua.

«Suo zio però non è un tiranno», l’apostrofò l’uomo con il cappellino. Si faceva chiamare semplicemente Edward, senza cognome. L’unica cosa che si sapeva per certa di lui era la sua nazionalità: australiana. «Il vostro Emirato non è come la Siria, la Libia o l’Egitto. La primavera araba lì aveva delle ragioni economiche. La gente era ridotta alla fame. Sempre ammettendo che si possa accendere la miccia, il problema resta quello che le ho detto».

«Perché crede che la mia famiglia viva a Dubai, signor Edward?», domandò il principe con un tono non troppo amichevole. «Dice che mio zio non è un tiranno, ma guardi cosa ha fatto a noi... siamo in esilio!».

Edward non commentò. Il principe viveva nell’agio, girava il mondo su uno yacht di Nuvolari & Lenard da 85 metri e suo padre, nonostante tutto, era ancora uno degli uomini più ricchi del Medioriente. Forse Ibrahim, assetato di potere, non aveva ben chiaro il significato della parola tiranno. Ma lui era lì proprio per quel motivo: era gente come il principe che gli dava da mangiare.

«Prenda la Somalia, per esempio. La guerra civile è scoppiata nel 1991 e ancora prosegue. Il Paese è nel caos, dominato dagli stranieri e dalla malavita». Edward sorseggiò un cocktail guarnito con una fetta di ananas e proseguì. «Sempre ammettendo di poter davvero scatenare una guerra civile, non si può mai essere certi di quanto durerà…».

In quel momento il principe si voltò verso il ponte di coperta. La guardia del corpo era immobile, le braccia conserte. Annuì e li lasciò soli.

«Si dice che i suoi amici, negli anni Novanta, abbiano fomentato la guerra civile nella ex Jugoslavia. Ha mai sentito parlare del fenomeno dello stupro di massa?», lo interrogò cupo il principe, accarezzandosi il pizzetto.

«Durante la guerra in Bosnia, le milizie serbe condussero una strategia pianificata di abusi sessuali verso migliaia di donne musulmane di origine bosniaca», spiegò l’occidentale, non capendo dove il giovane volesse arrivare. «Fu questa una delle ragioni che scatenò la guerra».

«Si dice che furono delle organizzazioni paramilitari, finanziate dalla NATO, a organizzare il tutto. Solo per garantirsi di avere una guerra da combattere».

«L’ho sentito anche io e non mi sento di escluderlo». L’australiano annuì. «Le due etnie, che fino a poco prima avevano convissuto abbastanza pacificamente si rivoltarono l’una contro l’altra».

«Anche nel mio Paese ci sono due etnie…».

«Mi sta suggerendo…?»

«Non le sto suggerendo nulla. Le ho detto cosa voglio: una guerra civile. Veloce. Mio zio morto e, quando mio padre andrà a fargli compagnia – molto presto, immagino – il mio sedere regale poggerà sul trono».

Edward non rispose e scrutò il mare scuro. La luna era bassa sull’orizzonte e disegnava lunghe ombre sulle assi di ciliegio del ponte.

«So che potete farlo. Dove c’è una guerra civile ci sono i suoi amici. Il prezzo è la cosa meno importante».

«Forse possiamo ipotizzare una Road Map», concluse Edward dopo un lungo silenzio. «Il suo Emirato è abbastanza piccolo. Dovremo elaborare un piano d’azione e dovremo essere bravi… bisognerà anche tenere presente l’incognita delle forze internazionali!».

Il principe sorrise e portò la flûte di champagne Krug alla bocca. «Sappiamo entrambi che nessuno interverrà. Sono i suoi amici che decidono quando vale la pena intervenire e quando non conviene. Prenda la Siria, lì non è intervenuto nessuno per anni, semplicemente perché non conveniva. E non converrà neanche a casa mia, se l’alternativa sono io, un giovane capo di Stato filooccidentale…».

Edward non era certo di poter gestire ciò che il principe voleva, ma tenne per sé quella riflessione. Sapeva che l’emiro Bashar era tutt’altro che uno sprovveduto e che conosceva le ambizioni del nipote. Ma lui era andato all’appuntamento anche, e soprattutto, per un’altra ragione. Era venuto il momento di introdurre l’argomento…

«Siamo d’accordo allora. Prima di brindare, se non sono troppo indiscreto, vorrei farle una domanda sulle ricerche di suo padre».

Il principe sorrise e incrociò le braccia. «Dica pure».

Poche ore dopo, quando dalla parte opposta del globo era da poco passato mezzogiorno, gli amici di Edward erano già operativi.