Capitolo 2

Parigi, Capodanno. 05:34.

I polmoni le bruciavano. Si scostò dalla colonna, ansimante, e sbirciò in direzione della scala.

Non c’era nessuno. Forse ce l’aveva fatta.

Si era rifugiata nella piscina coperta dell’Hotel Ritz dopo una lunga fuga tra i corridoi del primo piano e le scale di servizio. Si era infilata in uno dei locali riservati alla servitù ed era scesa lungo un’angusta scala a chiocciola, accanto a un montacarichi. Da lì era arrivata nella piscina più antica di Parigi, uno dei luoghi preferiti da Marcel Proust. Il locale liberty, dal soffitto basso e intarsiato, a quell’ora era deserto. C’era odore di cloro e l’acqua azzurra, piatta e lucente come una lastra di marmo, rifletteva le pareti affrescate.

Meredith Al Husayn, quinta moglie dello sceicco Mohamed bin Saif Al Husayn, inspirò e chiuse gli occhi per una frazione di secondo. Per un istante, soltanto uno, rivide la sua mano che chiudeva silenziosamente la porta bianca della suite Imperiale, pochi minuti prima. Subito dopo si era ricomposta, aveva sistemato la minigonna e si era diretta, barcollando sui tacchi, all’ascensore. E lì lo aveva visto: immobile nell’androne, insieme a tre guardie del corpo in abito scuro, c’era l’uomo di Firenze… lo stesso visto quattro giorni prima. Per un secondo rivide la piccola pistola semiautomatica e poi ancora la sua faccia, dominata da quegli occhi inconfondibili. Ne era certa, era lui.

Appena l’avevano individuata, i quattro erano scattati in piedi. E lei non aveva avuto scelta. Aveva potuto solo cominciare a correre.

E adesso si trovava lì, nascosta dietro una colonna nella piscina del Ritz, in abito da sera e con tacchi che non le avrebbero consentito di fare nemmeno un altro metro. Scrutò nella semioscurità, in cerca di una via d’uscita. Poi, da oltre il ballatoio, udì un rumore di passi. Dopo un secondo li vide comparire: quattro uomini armati, lineamenti orientali, che scendevano i gradini da entrambe le rampe. L’avevano trovata. Di nuovo.

Non aspettò oltre. Si liberò delle scarpe, superò l’arco della piscina, scattò in direzione della porta di ingresso del personale e imboccò il corridoio di servizio dal quale era arrivata.

Ma loro erano lì. Li sentiva dietro di sé, sempre più vicini.

Raggiunse una porta tagliafuoco e la aprì con foga, appoggiandosi con entrambe le mani ai maniglioni antipanico. Si trovò nella cucina del ristorante, a ridosso del bar Hemingway, nel quale due sere prima aveva conosciuto la sua “preda”. Si richiuse la porta alle spalle e immediatamente, con tutta la forza che aveva in corpo, spostò un ingombrante scaffale di metallo davanti al vano.

Un secondo dopo i suoi inseguitori provarono ad aprire, ma senza riuscirci. Con il suo piccolo stratagemma li aveva bloccati, ma per quanto?

«Si fermi e non le faremo niente!», la voce proveniva da oltre la porta. Poi un altro colpo allo stipite. Ancora nessun risultato, anche se lo scaffale si mosse. «Non abbiamo intenzione di farle del male. Ci dia ciò che ci appartiene e nessuno si farà male», continuò la voce.

Se la situazione non fosse stata grottesca, Meredith Evans Al Husayn, ex miss Nevada, mora, pelle olivastra e fisico statuario, avrebbe anche potuto trovarla divertente. Ciò che ci appartiene... Si sbagliavano, lei non aveva nulla che appartenesse loro.

“Chiedete a Julia”, pensò. “A quest’ora l’avrà già messo sotto chiave”. Ed era certa che fosse così: le aveva dato precise disposizioni e lei eseguiva sempre gli ordini.

Meredith si guardò intorno: la cucina sembrava a forma di “elle”, grande come un appartamento di medie dimensioni. C’erano due file di tavoli d’acciaio che luccicavano sotto i neon e una zona fuochi con grandi cappe appese al soffitto. Si spostò, scalza, verso quella che sembrava l’uscita. Raggiunse due porte laccate di bianco e sbirciò da uno degli oblò. Dall’altra parte riconobbe la sala rivestita di specchi del ristorante Espadon: i tavoli erano apparecchiati ma nemmeno lì c’era nessuno.

Mentre spingeva la porta un nuovo rumore echeggiò nella cucina: lo scaffale doveva essersi ribaltato.

La donna non si voltò, attraversò di corsa la sala principale del ristorante e poi un corridoio di specchi. Si ritrovò nella hall dell’hotel, circondata dagli ultimi rumorosi ospiti del cenone, accampati sui divanetti con bottiglie in mano. Due portieri erano seduti al loro posto e accanto all’ingresso a vetri c’era una schiera di paggi. Julia non c’era. Probabilmente si trovava nell’ala opposta dell’hotel, affacciata su Rue Cambon. O forse era già uscita. In ogni caso non avrebbe potuto raggiungerla.

Ma i suoi inseguitori erano sempre più vicini. Quando la videro nascosero le armi semiautomatiche sotto la giacca e aumentarono il passo. Erano a venti metri da lei, forse meno.

Meredith raggiunse velocemente il centro della hall e si posizionò sui tappeti rossi della scala che saliva ai piani superiori. Da lì riusciva a vedere un parcheggiatore immobile sul marciapiede di Place Vendôme, davanti all’ingresso dell’hotel.

Si guardò alle spalle, timorosa. Il giapponese le sorrise beffardo, certo che da lì non avrebbe avuto via di scampo.

Ma si sbagliava.

Un rombo potente attirò l’attenzione della donna: una Lamborghini Aventador gialla si era appena fermata davanti al parcheggiatore, il motore ancora acceso. Ne uscì un indiano chiaramente alticcio, grasso e di bassa statura. Consegnò una banconota al parcheggiatore in uniforme e poi sorrise sguaiatamente. Subito dopo, dallo sportello ad ala di gabbiano del passeggero si materializzò una bionda di due metri.

Meredith decise in una frazione di secondo. Si catapultò fuori dall’ingresso e scavalcò il cofano dell’auto sportiva. Si piazzò davanti al parcheggiatore e gli diede uno spintone. L’uomo barcollò ma rimase in piedi. Il proprietario dell’auto, intanto, rideva di gusto. La sua giovane consorte invece aveva cominciato a urlare, forse alla vista dei quattro giapponesi che nello stesso momento erano sbucati dall’ingresso, questa volta con le armi in pugno.

L’ex miss Nevada non perse tempo a presentarsi. Si infilò nell’auto e premette sull’acceleratore. Il bolide partì sgommando sul selciato illuminato di Place Vendôme, lo sportello del passeggero ancora aperto.

Julia, tuta in pelle e braccia conserte, era appoggiata al sedile di una Honda Hornet, ferma all’angolo con Rue de la Paix. Era una donna dal fisico atletico, carnagione chiara come il latte e i capelli biondi nascosti sotto il casco. Aveva gli occhi verdi fissi sulla scena: la Lamborghini partì a tutta velocità sotto lo sguardo dell’indiano e della sua avvenente accompagnatrice. Si udirono delle urla, forse all’indirizzo del parcheggiatore.

Passarono pochi secondi e una berlina nera si avvicinò ai quattro orientali immobili, con le pistole in pugno, accanto all’ingresso dell’hotel. Salirono velocemente e l’auto si lanciò all’inseguimento del bolide giallo ormai giunto su Rue de Castiglione.

La donna valutò le alternative: non ne aveva molte. Tolse il cavalletto e accese il motore.