Capitolo 8
Parigi, Capodanno. 08:45.
Due settimane dopo, Meredith era seduta in un grande locale con le finestre coperte da fogli di giornale. Intorno a lei vedeva scrivanie vuote, cavi di computer e fogli abbandonati sul pavimento. Nella parte più ampia, dietro a una guardia dallo sguardo truce, c’era un bancone con una grande vetrata. Oltre, quella che sembrava una sala d’aspetto. Ipotizzò di trovarsi nella sede abbandonata di una banca o di una qualche società.
Nell’aria ristagnava un forte odore di muffa e la luce proveniente dalle finestre oscurate era giallognola.
Subito dopo l’incidente con la Lamborghini, due braccia possenti l’avevano estratta a forza dall’auto e l’avevano caricata sul sedile posteriore di una grossa berlina nera. Aveva perso conoscenza per alcuni minuti, le voci lontane di persone che non conosceva e luci indefinite che scorrevano fuori dall’auto.
Poi, dopo un lasso di tempo che non era riuscita a quantificare, aveva ripreso i sensi e l’auto aveva proseguito ad alta velocità. Era ancora buio ma i palazzi che sfrecciavano oltre il finestrino si erano fatti sempre più radi: si stavano allontanando dal centro.
Per un secondo le era parso di intravedere, oltre il finestrino oscurato, la sagoma bianca dell’arco de La Défense. Intanto, le mani di due sconosciuti, uno a destra e l’altro a sinistra, l’avevano tenuta distesa sul sedile posteriore. Non l’avevano incappucciata e non si erano preoccupati di nascondersi il viso.
Male. Molto male. Poteva significare solo una cosa: l’avrebbero uccisa in ogni caso.
E adesso era lì, nel grande open space, circondata da poltroncine impolverate e da una catasta di scrivanie. Del nastro isolante le bloccava i polsi ai braccioli della sedia.
«Ci perdonerà per il trattamento. Non abbiamo molto spesso a che fare con una regina». L’uomo le si avvicinò. Era di media statura e indossava un abito scuro, lo stesso con il quale l’aveva visto solo un paio d’ore prima, al Ritz. Aveva il suo solito ghigno dipinto sul viso, sicuro che questa volta Meredith fosse in trappola. E aveva ragione.
La donna lo osservò, terrorizzata.
Gli occhi ferini del carceriere, di due colori diversi, così innaturali, la fissavano. Eterocromia si chiamava quel difetto: due iridi di colore differente, una verde e una marrone. Era una caratteristica abbastanza comune negli animali, nei gatti e nei cani. Negli esseri umani era decisamente più rara: in alcune culture era considerata un cattivo auspicio e per Meredith lo era certamente…
Il giapponese diede un’occhiata ai suoi uomini, sistemati ai lati del locale, e si accarezzò il mento. Prese una sedia e, con un gesto teatrale, la posizionò di fronte alla sua prigioniera. Poi si mise a cavalcioni, in silenzio.
Si faceva chiamare Hide, diminutivo di Hidetoshi. Il suo cognome, almeno quello che figurava sui documenti, era Tanaka. Per lui quella non era una situazione nuova. Aveva già affrontato molte volte interrogatori simili. In effetti era la parte del suo lavoro che prediligeva, anche se in quel caso gli avevano intimato di non abusare della ragazza.
Aveva quarantacinque anni e si riteneva un uomo di cultura. Più che un mercenario – la sua attività principale – amava ancora considerarsi un tenore, anche se da anni non si esibiva più in pubblico. Da ragazzo era stato una promessa del Kokuritsu Gekijou, il Nuovo Teatro dell’Opera di Tokio, ma la sua passione per le armi l’aveva convinto ad abbandonare ben presto il mondo della musica.
Da dieci anni gestiva un business ben più redditizio alla guida della Qualcon Services, una società di servizi composta da paramilitari provenienti dai quattro angoli della terra. A volte si occupavano di missioni di salvataggio non ufficiali oppure, più spesso, di organizzare attentati contro qualche dittatore scomodo per gli equilibri geopolitici di specifiche aree. In passato era stato lui a gestire la prematura dipartita di due leader somali, di alcuni esponenti di Hezbollah e di più di un ribelle siriano. Sempre alla sua società era imputabile un tentativo di colpo di stato in Nicaragua, uno dei suoi pochi fallimenti.
Nonostante la base operativa fosse a Londra, lavorava senza troppe difficoltà tra il Corno d’Africa, il Medioriente e il Sudamerica. Ovunque occorressero azioni che ufficialmente non potevano essere autorizzate dai governi, la Qualcon Services era a disposizione. Interveniva, faceva pulizia e poi rilasciava regolare fattura.
Spesso i suoi datori di lavoro erano i governi occidentali, ma talvolta chiedevano i suoi servizi anche multinazionali. Quando operava per le corporation, nella maggior parte dei casi coreane o giapponesi, si trovava spesso a dover agire in Europa o in America.
Come quel giorno.
«Non abbiamo intenzione di farle del male», mentì Tanaka. «Sappiamo che ha un oggetto che ci appartiene e lo rivorremmo».
Meredith non rispose e fece cadere lo sguardo su una fila di neon spenti, accanto alle finestre. Forse avrebbe potuto urlare, ma se non l’avevano imbavagliata era probabile che nessuno avrebbe potuto sentirla.
«Se non collabora, questo colloquio potrebbe diventare meno piacevole».
La ragazza fissò il giapponese. Quelle iridi diverse le mettevano i brividi, più della situazione in cui si era cacciata per amore del marito. «Chi è lei?», domandò.
Hidetoshi Tanaka sorrise. Fece un cenno a uno dei suoi uomini e si alzò in piedi. «Una persona gentile. Se lei avrà la cortesia di consegnarci ciò che vogliamo, sarò lieto di dirle il mio nome».
«Non ho nulla che vi appartiene!», ringhiò lei, un gesto di stizza disegnato sul suo viso olivastro.
«So già che non ce l’ha addosso perché i miei amici hanno avuto il piacere di perquisirla mentre era svenuta. Però so anche che l’ha portato a Parigi. Me lo consegni e tra un’ora sarà di nuovo al Ritz».
Una delle guardie si affiancò a Tanaka: si faceva chiamare Rafael ed era un nero con la pelle color ebano. Era altro due metri e pesava almeno cento chili. Gli sussurrò qualcosa all’orecchio e si avvicinò a Meredith.
Hidetoshi Tanaka indietreggiò e si infilò gli occhiali da sole. «Vor meinem Nicken neigt sich die Welt, vor meinem Zorne zittert sie hin!», canticchiò. Era il punto in cui, alla fine del primo atto del Sigfrido, uno dei personaggi si rende conto che sarà ucciso. «Al mio cenno, s’inchinerà il mondo, davanti al mio furore cadrà in tremore!».
Rafael si avvicinò a lei e le accarezzò la guancia. Poi le sorrise, un’esposizione di denti bianchissimi che risaltavano sulle labbra scurissime. E improvvisamente un dolore lancinante. Dopo un istante, un fiotto di sangue caldo cominciò a scorrere sulla guancia.
La ragazza avverti inizialmente solo un forte bruciore ma non capì cosa le avesse fatto fino a quando, sul pavimento di linoleum, non vide un lembo di pelle con un orecchino di perle penzolante. Nell’altra mano, il nero aveva un coltello a serramanico insanguinato. Con un gesto veloce le aveva mozzato l’orecchio, che adesso giaceva a terra.
Cominciò a tremare, atterrita. A quel punto, un dolore sordo cominciò a pulsarle fino alla tempia. Avrebbe voluto urlare per l’orrore, ma dalla gola non riemergeva alcun suono.
«Non si preoccupi, se terrà i capelli lunghi si noterà appena», ghignò Tanaka, un sorriso ebete dipinto sul viso. «E poi ne ha due…».
Meredith non sapeva dove guardare. Ovunque vedeva uomini armati che la fissavano in cagnesco.
Il giapponese si avvicinò nuovamente alla ragazza. Annusò l’odore acre del sangue e per un secondo parve in trance, come se avesse fumato marijuana. «Adesso che ci conosciamo un po’ meglio sono sicuro che collab…». Non riuscì a finire la frase. Una delle finestre sul fondo del locale andò in mille pezzi. I militari si voltarono e fecero appena in tempo a vedere un barattolo nero rotolare sul pavimento. Era un dispositivo flashbang.
Un secondo dopo, un lampo bianco seguito da un boato assordante scosse l’intero piano.