Capitolo 7
Dubai, 15 dicembre.
Nove giorni prima del suicidio di Monsignor de Beaumont.
Meredith era in piedi accanto al marito, le braccia conserte e lo sguardo fisso su un monitor.
Lo sceicco Mohamed bin Saif Al Husayn sgranò gli occhi e sbatté le palpebre più volte. Aveva un viso spigoloso, la mandibola squadrata, gli occhi scavati, il naso a punta. Dimostrava tutti i suoi anni e anche qualcuno di più. Non era sembrato giovane neppure quando lo era stato: aveva semplicemente superato il traguardo della mezza età mantenendo lo stesso volto.
Paralizzato dal collo in giù, ora trascorreva la sua vita su una gigantesca poltrona, con due grandi bracci di carbonio che gli passavano sopra la testa e sostenevano davanti ai suoi occhi tre display curvi a tecnologia OLED.
«Com’è il tracciato?», chiese al medico una delle scienziate, alzando lo sguardo dal suo tablet.
Si trovavano nel grande laboratorio che lo sceicco aveva fatto costruire nell’ala nord-ovest del suo appartamento, al centosettesimo piano del Burj Khalifa, il grattacielo più alto del mondo. La reggia, così l’aveva definita una giornalista sportiva che aveva recentemente intervistato lo sceicco, era «un palazzo rinascimentale sospeso tra le nuvole». Occupava gli ultimi due piani residenziali dell’edificio e, dalle sue vetrate, le auto sugli anelli della circonvallazione sembravano moscerini.
Al Husayn era stato esiliato a Dubai molti anni prima dal fratello Bashar, reggente di uno degli emirati più ricchi del Golfo Persico. La famiglia paterna gli aveva comunque garantito una rendita faraonica, che gli consentiva un tenore di vita altissimo: lo sceicco aveva cinque mogli, diciannove figli, possedeva una reggia che occupava due interi piani del Burj Khalifa e una squadra di calcio della serie A italiana. La cosa a cui teneva maggiormente, però, erano i suoi quadri: una collezione di opere rinascimentali da far impallidire la Galleria degli Uffizi.
La passione per l’arte era l’unica cosa che gli era rimasta della sua giovinezza, un vezzo che si era formato molto prima delle lotte di potere che l’avevano costretto all’esilio.
Come molti eredi delle dinastie arabe, aveva studiato in Europa. Aveva trascorso la maggior parte della sua giovinezza in Italia, in un palazzo romano che la sua famiglia aveva acquistato appositamente per farlo studiare.
Quando ancora sul trono sedeva suo padre, si era mescolato all’alta società della capitale. Nessuno conosceva le sue vere origini, anche perché le lotte di potere nel Golfo e i continui attentati alla famiglia reale avevano convinto i consiglieri di corte a fornirgli un’identità falsa. Nonostante la copertura fosse stata studiata nei minimi dettagli, il giovane erede era stato catapultato in una realtà che non conosceva e della quale non condivideva neppure certi aspetti. Non era mai stato un musulmano praticante, tuttavia non gli risultò affatto facile integrarsi in una nazione profondamente cattolica.
Uno dei modi che scelse – non l’unico – per esorcizzare le sue paure e le sue diffidenze per la realtà che lo circondava, fu quello di avvicinarsi a un gruppo del quale facevano parte alcuni dei suoi docenti universitari. Grazie alle conoscenze che il suo rango gli aveva permesso di acquisire, riuscì a unirsi ai Cavalieri di Malta, un ordine cavalleresco con una tradizione centenaria che faceva della religione il suo vessillo. Anche se l’appartenenza era ormai vissuta dai membri come simbolo elitario, più che come vera vocazione, il loro scopo formale era, ironia della sorte, quello di difendere il mondo cristiano da gente come lui. Nonostante ciò, Mohamed si era convinto che farne parte avrebbe potuto aiutarlo a integrarsi meglio.
Come tutti i nuovi Cavalieri Guardiani di Pace era stato così insignito del titolo a San Giovanni Battista in Bragora, una chiesa templare che si trovava alle spalle della basilica di San Marco, a Venezia. Davanti a un prete cattolico, uno greco-ortodosso e uno ortodosso, con indosso un mantello nero e rosso e le insegne che portavano i simboli dell’Ordine, aveva persino promesso solennemente di difendere la cristianità dagli infedeli.
A differenza di quanto aveva immaginato, l’appartenenza all’Ordine non gli aveva permesso di superare la sua diffidenza per il cattolicesimo, tuttavia la sua copertura era certamente divenuta più solida e credibile. Il risvolto più inaspettato e piacevole era stato però un altro: a Venezia aveva conosciuto il Guardiano di Pace Joonas Eklöf, un giovane archeologo finlandese alle prese con il Sex dierum iter, un antico documento rinvenuto pochi anni prima nell’archivio dell’Ordine.
«Beta lento a 13,5 e rapido a 18,5», mormorò uno dei medici in camice bianco, inchiodato davanti a una postazione informatica.
La donna si voltò verso la sedia a rotelle di Al Husayn. «Come si sente?»
«Male», rispose attraverso il sintetizzatore vocale lo sceicco, dall’alto della sua poltrona.
«Quanto è la frequenza base?», si informò ancora la scienziata, appena lo sceicco abbassò le palpebre. Si chiamava Yukiko Nakamichi, un grande paio di occhiali neri nascondeva gli occhi a mandorla.
«Siamo al limite: 44,6 microVolt. In salita». L’uomo indicò l’immagine sul computer: si vedeva una linea verde tratteggiata che scorreva sul monitor.
«Non ci siamo», sentenziò all’improvviso Al Husayn. «Non è un problema di campo magnetico. Abbiamo bisogno di interessare la LTM… e così non possiamo farlo! Dobbiamo cambiare supporto!».
«I test non sono completi... e poi c’è il problema del lossy», si giustificò il giovane dai capelli rossi, che come Meredith aveva compreso cosa intendesse fare lo sceicco. «In effetti, la mole di dati è superiore a quanto eravamo abituati… E a quanto ci aspettassimo… però potrebbe anche dipendere dal soggetto A!».
«Ragione in più per tentare l’altra strada… Ci serve qualcosa di meglio. Non è come fare una semplice passeggiata nel deserto!», spiegò attraverso il sintetizzatore lo sceicco. Il tono era colloquiale, suadente, aveva poco a che fare con una voce meccanica. In quelle parole monotone, non trasparivano però le emozioni che invece erano perfettamente comunicate con lo sguardo. Non era affatto contento. «A quando risale il file?».
Fu Meredith a rispondere: «È stato impresso a Milano il 5 dicembre».
Ci fu un lungo silenzio. Poi la voce sintetizzata concluse: «Ricominciamo. A Monsignor De Beaumont manca ancora un esperimento. Poi puntiamo sul soggetto B». Gli occhi dello sceicco guizzarono da una parte all’altra, prima sulla giapponese, poi sulla moglie. Era triste? Arrabbiato? Speranzoso? «Questa volta utilizziamo il biosupporto. L’abbiamo già testato. Funzionerà».