Capitolo 11
Parigi, Capodanno. 09:15.
Nello stesso istante in cui Meredith esalava l’ultimo respiro, Manuel Cassini fissava la propria immagine riflessa nello specchio del bagno.
Aveva trentotto anni, un fisico tutt’altro che atletico e in quel momento il suo aspetto ricordava uno spettro: occhiaie, pelle pallida e occhi gonfi. I pochi capelli castani, che si diradavano sulle tempie, erano schiacciati da un lato e arruffati dall’altro. Le labbra erano secche e screpolate in più punti.
Decise di farsi la barba e si sciacquò nuovamente il viso.
«E volse i passi suoi per via non vera». Tra sé e sé ripeté le parole del canto XXX del Purgatorio. «Imagini di ben seguendo false, che nulla promession rendono intera». Senza sapere esattamente come, il rimprovero che Beatrice muove al sommo poeta – di essere andato dalla parte sbagliata e aver seguito false immagini mondane, che non mantengono mai le loro promesse – cominciò a rimbalzargli nella mente.
Aveva fatto bene ad accettare l’invito di Cavalli Gigli?
Improvvisamente gli parve di sentirsi meglio. L’aria gelida proveniente da Place Vendôme, unita al fresco della schiuma da barba sulla pelle, dovevano averlo scosso.
In pochi minuti terminò di radersi e tornò nella stanza da letto della suite.
Il grande lampadario che pendeva dal soffitto alto sei metri era ancora acceso. Spense le luci e aprì completamente le tende. Dalla finestra si udiva il rumore del traffico, lontano.
Raggiunse la valigia, che aveva sistemato su una commode in stile Luigi XVI, e ne estrasse un paio di pantaloni chiari in Principe di Galles e una giacca grigia. Abbinò una camicia bianca e una cravatta nera, decisamente troppo sottile per i suoi gusti. Non gli piaceva quel tipo di cravatte, dritte e strette come un ferro da calza. Lui preferiva quelle anni Novanta, grosse, da annodare con un christensen vistoso e che faceva risaltare i colori. Però Clarissa aveva sempre seguito la moda.
Finalmente si sentiva in forze. I capogiri erano passati e i postumi dei cocktail bevuti con quella ragazza sembravano essere scomparsi. Osservò il letto a baldacchino sfatto. Se n’era andata senza neanche salutarlo.
Decise di non pensarci, aveva davanti a sé una giornata decisamente interessante: l’appuntamento al Louvre lo incuriosiva.
No, Beatrice aveva torto: non aveva affatto sbagliato ad accettare l’invito.
In quel momento il telefono squillò. Cassini si avvicinò all’apparecchio e prima di rispondere osservò l’orologio: erano le nove e ventidue minuti. «Pronto», esclamò con tono squillante.
«Professore, è la reception. Volevo avvisarla che il suo autista è arrivato». La voce era la stessa che l’aveva svegliato poco prima, cordiale e in un italiano perfetto.
Cassini sorrise e ringraziò. Improvvisamente però la sua immagine riflessa nello specchio barocco tra le finestre lo fece sussultare. Si doveva essere tagliato facendosi la barba, perché un piccolo rivolo di sangue scendeva dal mento fino sul collo.
A quella vista, la stessa scena di pochi minuti prima si materializzò di nuovo davanti ai suoi occhi: due mani strette attorno a un collo, da cui un fiotto di sangue scorreva copioso. Questa volta però i dettagli erano maggiori: dalla parte opposta della stanza c’era un uomo che prima non aveva notato. Aveva lineamenti orientali e due occhi di colore diverso. Era certo di non averlo mai visto prima.
Non fu però quel dettaglio a scuoterlo maggiormente. Trasalì quando improvvisamente ricordò il viso della vittima. Non lo vedeva da anni, ma non faticò a riconoscerlo: era quello di Andrea Cavalli Gigli.