Capitolo 16

Parigi, Capodanno. 09:26.

Per quanto ci provasse, non riusciva a non pensare a quel flashback ricorrente: la pistola fumante era lì, stretta tra le sue dita. Poi alzava lo sguardo e vedeva Andrea Cavalli Gigli, la faccia bianca e il sangue che gli zampillava dalla ferita al collo.

Manuel Cassini, sudato fino alla base della schiena, era sprofondato sul sedile di pelle della limousine, gli occhi socchiusi. Mentre l’autista silenzioso guardava dritto davanti a sé, i palazzi di Rue de Rivoli scorrevano veloci oltre i vetri oscurati.

Non si sentiva affatto bene. Perché quei ricordi continuavano a rimbalzare nella sua testa?

Non potevano essere gli effetti dell’alcol. Era vero, non era abituato a bere, ma due o tre cocktail non potevano certo averlo ridotto in quello stato.

Ci aveva riflettuto: qualcuno doveva averlo drogato. Certamente la donna che aveva conosciuto al bar la sera precedente. Per quanto si sforzasse, non riusciva a ricordare il suo nome. L’unica cosa che era impressa nella sua mente erano gli occhi profondi, lucenti e color nocciola.

In ogni caso, la sua amnesia doveva di certo avere a che fare con l’assunzione di qualche tipo di sostanza psicotropa. Non c’era altra spiegazione.

Ma perché drogarlo? Certamente non per derubarlo, visto che prima di uscire aveva controllato le sue cose e non mancava nulla.

In qualche angolo del suo cervello, in ogni caso, la pistola era lì, tra le sue dita lunghe, affusolate. Non ricordava di averne mai presa in mano una… e tantomeno ricordava di aver sparato a Cavalli Gigli...

“Capodanno, alle 10 davanti alla Gioconda”. Così diceva il testo dell’email che il soprintendente gli aveva spedito. Era stata quella email a convincerlo ad andare a Parigi. Ma se davvero l’uomo che l’aveva invitato era morto, per quale motivo stava andando al Louvre?

Per un secondo gli balenò per la mente un pensiero assurdo: era possibile che tutti quegli strani flashback fossero solo delle premonizioni? Non si era mai interessato di soprannaturale né ci credeva. Quelle immagini sconnesse, però, gli ricordavano incredibilmente le visioni di Patricia Arquette, alias Allison Dubois della serie Medium. Con la sola differenza che adesso si parlava della sua vita!

Scosse la testa. Era impossibile, non si trattava di allucinazioni: quelli erano ricordi a tutti gli effetti. Erano offuscati, nascosti da qualche droga o da una strana amnesia, ma erano nella sua mente. Cosa era successo davvero?

La berlina, intanto, si era fermata a un semaforo che in quel momento divenne verde.

A quella vista, Cassini scattò sul sedile. Per un istante gli mancò il fiato, poi capì.

L’auto partì, ma non era la limousine, era una macchina con assetto sportivo e posizione di guida ribassata. E alla guida c’era lui. Si lasciava il semaforo alle spalle e ingranava la marcia successiva. Affrontava una curva e gli pneumatici slittavano. In lontananza si udiva il fischio di un treno.

L’immagine era vivida, chiara come se stesse avvenendo in quel momento.

L’auto continuava ad accelerare. Osservò il tachimetro: 180 chilometri orari. Il motore urlava. Era in una strada di campagna, stretta e costeggiata da cespugli secchi e alberi spogli. Da entrambe le parti, leggermente sopraelevata rispetto al piano stradale, correva una lunga staccionata di legno.

Quasi all’improvviso, il bolide rallentava e percorreva una curva a destra. Costeggiava per un breve tratto i binari di una ferrovia e poi li superava salendo su un cavalcavia. Da quel punto, gli alberi lasciavano il passo agli edifici bassi di una cittadina. Avevano tetti di ardesia, interrotti dagli abbaini in legno, e muri color sabbia. Da entrambi i lati della strada si vedevano auto parcheggiate ordinatamente.

Ora percorreva un lungo viale diritto e in lieve discesa, per circa un chilometro, il ruggito possente del motore alle sue spalle sembrava un leone in gabbia.

Il ricordo durò solo pochi altri istanti: a circa metà del rettilineo c’era un gruppo di case lunghe e strette, il piano terra dipinto con colori sgargianti e il primo piano ricoperto da mattonelle scure. Sul marciapiede si vedeva un piccolo parcheggio con tre Harley Davidson, una accanto all’altra.

Improvvisamente premeva il freno e inseriva la freccia. L’ultima cosa che notava, prima che il flash svanisse, era un grande albero di Natale, un muro rosso e una porta dello stesso colore. Sopra c’era una grande insegna dipinta in oro.

Le Carré aux Crêpes