Capitolo 4
Città del Vaticano, vigilia di Natale. 12:12.
Tre ore dopo il suicidio di monsignor de Beaumont.
«Ha scavalcato da lassù e si è lasciato cadere». Il gendarme indicò in alto, verso la balaustra nera della scalinata dei Musei Vaticani. «Nessuna esitazione».
Nigel Sforza si tolse i Ray-Ban Aviator e strizzò gli occhi. Dalla cupola ottagonale penetrava una fievole luce e le lampade lungo la rampa a spirale erano tutte accese. Nel silenzio spettrale del museo completamente vuoto si udiva il ticchettio della pioggia sul vetro. «Quanto è alto?»
«Circa venti, venticinque metri. Ha fatto un bel salto».
«Ok», borbottò, le braccia conserte e il tono arrogante. «Biglietti d’addio, messaggi, magari qualche SMS dal cellulare? Avete controllato i tabulati telefonici?»
«Nessun biglietto e i tabulati sono in arrivo, li abbiamo appena richiesti», sibilò l’agente mentre osservava la zona del pavimento di marmo delimitata dal nastro giallo. Il corpo era già stato rimosso ma il lago di sangue coagulato ai piedi della colonna non era ancora stato pulito. Tutte le sale del museo erano state chiuse poco dopo le nove, per consentire i rilievi da parte della Gendarmeria vaticana.
Si trovavano ai piedi della monumentale scala progettata negli anni Trenta dall’architetto Giuseppe Momo. Oltre a lui, in quel momento, c’erano sei guardie silenziose, due addetti dei musei e un fotografo.
«Effetti personali?», indagò ancora Sforza. Nel frattempo aveva cominciato a camminare in circolo, lungo l’ampio vano scala. Indossava giubbotto di pelle, jeans sdruciti e scoloriti e maglietta nera aderente. Una collana d’oro con una vistosa croce gli cingeva il collo. Aveva un viso abbronzato, capelli biondi tagliati a spazzola, e un filo di barba incolta, bianca in più punti. Sembrava Arthur Fonzarelli invecchiato di dieci anni.
«Niente di particolare», chiarì l’agente, strofinandosi le mani sull’uniforme. «Solo una specie di iPod di alluminio… che deve essersi rotto con la caduta».
«Avrò bisogno di farlo esaminare», incalzò. «Lo faccia mandare a Lione il prima possibile!».
«È una fortuna che il miglior ispettore dell’Interpol fosse nei paraggi…». Diego Farinelli, comandante della Gendarmeria, era appena entrato dalla porta che dava su viale Vaticano; si avvicinò con incedere da cammello, tese la mano a Sforza e sorrise. «Ben arrivato. Come stai? E Claudette, come se la passa?»
«Con tutti i soldi che le pago di alimenti sono certo che se la passa molto bene!». Nigel Sforza strinse la mano al comandante e sorrise.
«Se ti conosceva bene come ti conosco io, non posso darle torto per aver chiesto il divorzio... Hai sempre l’amichetta a Roma?»
«Quando hai saputo che ero in città non ti sei certo lamentato…».
«So che in vacanza ti annoi e ho pensato che la mattina della vigilia di Natale non avresti avuto certamente nulla da fare!».
Sforza sorrise di nuovo. Conosceva il comandante della gendarmeria da vent’anni, fin da quando Farinelli era un semplice agente dei Carabinieri. E in effetti l’amico non aveva torto: era a Roma per le vacanze ma la sua compagna, una tra le cause del suo divorzio, l’aveva già stancato. «Scherzi a parte, perché mi hai chiamato? Questo ha tutta l’aria di essere un suicidio… Non mi sembra un caso da Interpol».
Farinelli si accosciò e sfiorò il pavimento con il dito lungo e affusolato. A differenza di Sforza, che nonostante l’età non aveva mai smesso di vestirsi come un adolescente, indossava un abito blu, con una pochette di seta che usciva dal taschino. Aveva i capelli appena striati d’argento e quindici anni più dell’agente dell’Interpol.
Sul marmo, oltre al sangue, c’erano i frammenti verdi dell’anfora romana di alabastro che de Beaumont aveva scheggiato cadendo. Il comandante strizzò gli occhi nella penombra e subito dopo si fece passare un paio di guanti e un sacchetto per le prove. Si avvicinò, abbassando gli occhiali bifocali, e poi raccolse un piccolo oggetto tra i pezzetti del vaso: era più sottile di una microsim da cellulare e sembrava un chip traslucido, quasi trasparente.
Sforza lo osservò in silenzio per qualche secondo.
«Perché credi che la Gendarmeria abbia aderito all’Interpol?», domandò Farinelli mentre passava a un gendarme il reperto appena rinvenuto. «Ovviamente volevamo solo farci aiutare a risolvere qualche seccatura!»
«E questa che tipo di seccatura è?»
«Una che ha a che fare con Walter Magnani, il direttore dei Musei Vaticani. Era molto amico della vittima… sostiene che il curatore sia stato drogato e spinto a suicidarsi».
«Lo conoscevi? Era il tipo secondo te?».
Farinelli scosse la testa, perplesso. «È quello che devi scoprire. Sembra che all’inizio del mese de Beaumont avesse cominciato a frequentare una donna, un’americana, e da allora non fosse più lo stesso. Magnani dice che è successo improvvisamente e che il monsignore si comportava in modo strano… Parole testuali: “come un alcolizzato in crisi d’astinenza…”».
«In crisi d’astinenza dal sesso forse… È normale, sai, quando uno sceglie la castità a vita e poi incontra una donna!». Sforza scosse la testa e sorrise. «Non per questo si chiama l’Interpol».
«La verità è che non voglio che si dica che abbiamo tralasciato qualcosa». Farinelli si alzò e lanciò all’amico un’occhiata cupa. «Abbiamo già inviato la richiesta ufficiale a Lione, chiedendo che sia tu a seguire il caso… come ti ho già detto, so che in vacanza ti annoi!».
«Signore!». Un gendarme stava scendendo dalla scala con un foglio dattiloscritto in mano.
Il comandante della gendarmeria alzò lo sguardo proprio mentre un flash del fotografo rischiarava la scena.
«Abbiamo i tabulati telefonici», annunciò il giovane, capelli castani e viso sorridente.
«Riferisci pure all’ispettore Sforza dell’Interpol: da oggi ci aiuterà nelle indagini. Anzi, fategli avere tutte le prove, compreso quel chip trasparente di poco fa».
Il gendarme, ancora con il sacchetto di plastica tra le dita, annuì. Il suo collega, che nel frattempo era sceso dall’ultimo gradino, fece lo stesso e porse con diffidenza il documento a Nigel Sforza.
L’ispettore lo lesse con attenzione. «È una lista molto breve», constatò infine. «Cinque telefonate a un unico numero fisso e diciassette telefonate allo stesso cellulare. E tutto solo ieri! Sappiamo a chi appartengono queste utenze?».
Il gendarme sorrise. Lo sapeva perché aveva notato anche lui che gli unici numeri dell’elenco erano stati composti molte volte, quasi ossessivamente, a giudicare dagli orari. Prima di scendere aveva estratto dal database gli intestatari delle due linee: «Il numero fisso è della Galleria degli Uffizi di Firenze e il cellulare è intestato ad Andrea Cavalli Gigli, il soprintendente degli Uffizi».