Capitolo 3

Parigi, Capodanno. 09:00.

Il telefono squillò.

L’uomo aprì gli occhi lentamente e in un primo momento faticò a riconoscere la stanza in cui si trovava.

Il trillo, intanto, era sempre più insistente. Da lontano e sommesso era diventato forte e chiaro, come un punteruolo che si incuneava nel suo cervello.

«Pronto», balbettò con la bocca impastata che sapeva ancora di alcol.

«Signor Cassini, è la reception», rispose una voce educata in un italiano perfetto.

Lo specchio barocco contornato in oro, la tappezzeria rossa e beige, il soffitto alto sei metri: adesso tutto cominciava ad apparire più familiare. Era nella suite Imperiale dell’hotel Ritz. Stava sdraiato nello stesso letto a baldacchino che la sera precedente aveva diviso con... la ragazza dallo strano braccialetto... come aveva detto di chiamarsi?

«Professore, ci aveva dato disposizioni precise», continuò la voce dall’altro capo del telefono. «Ci aveva chiesto di svegliarla alle 9 in punto».

Manuel Cassini si mise seduto sul letto. Con i piedi nudi sfiorò appena il tappeto. «Grazie», sussurrò con un filo di voce. In quel momento, la testa gli girava come se si fosse scolato un’intera cassa di Dom Pérignon. Almeno era quello che pensava, visto che non aveva l’abitudine di bere molto e non ricordava di essersi mai sentito tanto spossato.

Si alzò in piedi a fatica. Barcollando, raggiunse lo scrittoio accanto a una delle quattro finestre, e giurò a se stesso che non avrebbe più ripetuto serate come quella che si era lasciato alle spalle. Scostò la tenda della finestra e un filo di luce grigia proveniente da Place Vendôme illuminò il marmo del pavimento.

Dopo il restauro del 2013, quella era tornata a essere una delle suite più costose d’Europa. Per una notte potevano essere necessari tra i ventimila e i trentamila euro. Ma Cassini non aveva pagato nemmeno un centesimo; cinque giorni prima gli era arrivata un’email da un dominio che lo aveva incuriosito: polomuseale.firenze.it. Era stata spedita dal soprintendente dei musei fiorentini, Andrea Cavalli Gigli. Lo conosceva da diversi anni ma era da molto che non si sentivano.

Nonostante la curiosità, in passato Cassini non avrebbe accettato l’invito. La cattedra all’Università Federico II di Napoli e la sua famiglia occupavano tutto il suo tempo e non poteva e voleva distrarsi. Di recente però, la sua quotidianità aveva avuto uno sviluppo del tutto imprevedibile: sua moglie, senza alcun preavviso, aveva deciso di lasciarlo. Era stata una decisione assolutamente inaspettata.

«Il mio cuore non batte più come una volta», aveva detto Clarissa solo tre mesi prima. Poi aveva raccolto le sue cose e se n’era andata a casa dei genitori. Cassini non aveva obiettato. All’inizio era semplicemente rimasto in silenzio, incredulo. Non avevano figli ed erano sposati soltanto da due anni, ma erano stati fidanzati a lungo e avevano convissuto per quasi un decennio. Conosceva Clarissa da più di metà della sua vita, ma quella frase proprio non riusciva a comprenderla. «Il mio cuore non batte più come una volta».

Non si era abbattuto, almeno all’apparenza, quella che i suoi colleghi, i suoi allievi e i suoi più cari amici vedevano. Aveva continuato con la sua vita, con il lavoro, con il calcetto il giovedì sera. Sembrava non avesse subìto il colpo, tuttavia qualcosa in lui si era incrinato. Le sue certezze avevano vacillato e il suo orgoglio era stato ferito. I suoi genitori gli avevano consigliato di distrarsi, di fare un viaggio, di conoscere persone nuove.

Poi, poco dopo Natale, era arrivata l’email di Andrea Cavalli Gigli. Aveva attratto la sua attenzione perché non era un semplice invito.

Ancora spossato, Manuel Cassini girò su se stesso e tornò a sedersi sul letto, tra le lenzuola di lino e il copriletto orlato in oro. Sul comodino laccato, in stile Luigi XVI, accanto al telefono, c’era la copia dell’email, stampata sulla carta intestata dell’università:

O voi ch’avete li ’ntelletti sani,

mirate la dottrina che s’asconde

sotto ’l velame de li versi strani.

Lui, che era uno dei più grandi esperti di Dante Alighieri, conosceva bene quei versi del Canto IX dell’Inferno. Proprio partendo da quella terzina aveva elaborato una delle sue prime pubblicazioni. Ma quei versi, nell’email, erano accompagnati da alcuni allegati: un biglietto di prima classe Fiumicino-Charles de Gaulle e la copia di una prenotazione al nuovo hotel Ritz, da poco riaperto dopo il lungo restauro. In quell’ultimo foglio c’era anche un appunto scritto con una font differente: “Capodanno, alle 10 davanti alla Gioconda”.

Nell’email c’era poi un ultimo allegato: un’immagine raffigurante la Primavera del Botticelli. Era stata quella, oltre al testo, a convincerlo. Si trattava di una riproduzione perfettamente in scala, ma con i contorni dei personaggi evidenziati al computer. In quell’immagine c’erano anche una serie di appunti scritti digitalmente: sulla mano destra della figura maschile, che aveva l’indice alzato, c’era un “1”, mentre su quella sinistra, che mostrava quattro dita, un “4”. Sopra le tre grazie, le cui dita erano intrecciate le une alle altre, erano indicati quattro numeri: “1000”, “300”, “10” e “9”; Nella mano sinistra della figura centrale, infine, era stato disegnato un “3” in corrispondenza delle tre dita.

Anche quei riferimenti per Cassini non erano privi di significato: il suo libro, vecchio ormai di cinque anni, aveva provato a individuare un filo conduttore che spiegasse l’ossessione di Botticelli per la Divina Commedia. Nel suo studio aveva perfino ipotizzato che la figura maschile della Primavera fosse proprio Dante Alighieri in persona. Aveva provato a comprendere lo strano significato delle dita dei personaggi del quadro e aveva chiesto anche a esperti d’arte. Uno di loro era proprio Andrea Cavalli Gigli, che purtroppo, però, non era stato in grado di aiutarlo a risolvere il mistero.

E adesso, dopo cinque anni, Cavalli Gigli lo aveva invitato a Parigi. Aveva così voglia di svagarsi che dopo una conferma via email si era semplicemente preparato per partire.

Cassini si alzò nuovamente dal letto, diretto nell’altra stanza per sciacquarsi il viso. Il senso di spossatezza non lo aveva ancora abbandonato e anzi, se possibile, lo faceva sentire ancora più frastornato. A fatica raggiunse la stanza da bagno, un ex boudoir affacciato sul giardino Vendôme, e si sedette sul bordo della vasca idromassaggio.

Rimase fermo per alcuni secondi. Poi aprì la finestra e si rimise seduto. Ansimava. Nonostante l’aria fresca, era completamente sudato. Scosse la testa, l’alcol non lo aveva mai fatto sentire tanto male. Si costrinse ad alzarsi per raggiungere il lavabo, e finalmente aprire l’acqua gelida.

Quando alzò lo sguardo per guardarsi allo specchio, un flashback lo folgorò. Un’immagine nitida, reale, gli si parò davanti agli occhi: una pistola di piccolo calibro stretta nel suo pugno. Per un istante gli mancò il fiato.

Ebbe l’impressione che il cuore smettesse improvvisamente di battere. Si voltò, come per liberarsi di quel pensiero, ma il ricordo si materializzò ancora più chiaro: davanti a lui c’era un uomo, cardigan a quadri e giacca di velluto. Non lo osservò in viso perché il suo sguardo si fissò solo sulle mani strette attorno al collo, da cui sgorgava un fiotto di sangue.