Capitolo 10

Firenze, 26 dicembre

Sei giorni prima della morte di Meredith.

«È un pezzo straordinario», esordì Andrea Cavalli Gigli. Erano di fronte all’Alessandro morente, una scultura posizionata davanti a due grandi vetrate che si affacciavano su Ponte Vecchio.

Avevano raggiunto il piano rialzato della Galleria degli Uffizi pochi minuti prima. Stavano camminando lungo il Secondo corridoio, la splendida area di passaggio le cui finestre, tutte unite a formare un’intera parete in vetro, si affacciano sull’Arno. «Si ritiene sia un lavoro di arte ellenistica, probabilmente ispirato a un originale di Pergamo».

Meredith non sembrava molto interessata alle parole del soprintendente. Si voltò invece per ammirare il soffitto. «Le volte a grottesca sono del Seicento?», chiese, con il tipico accento americano, alzando lo sguardo verso il soffitto affrescato con soggetti religiosi.

«Sì. Furono realizzate tra il 1696 e il 1699. Sono opera di Giuseppe Nasini e Giuseppe Tonelli», spiegò Cavalli Gigli.

Proseguirono in silenzio per alcune decine di passi. Il soprintendente da una parte e Meredith accanto a lui. Dietro di loro oltre a Julia, la guardia del corpo della regina, c’era un’altra donna orientale con una ventiquattrore nera in mano.

La piccola delegazione svoltò a sinistra, nel lungo corridoio di levante, la parte più antica della galleria. Come in tutto il resto del museo, non c’era nessuno: il soprintendente, solo per quel giorno, aveva fatto posticipare l’apertura per consentire una visita privata alla moglie dello sceicco.

Cavalli Gigli era indeciso se affrontare subito il motivo principale della visita oppure continuare a fare da Cicerone, la parte del suo lavoro che più gli piaceva.

“Cicerone”. La sua passione era diventata anche il suo soprannome e benché non la esercitasse più molto spesso, i suoi colleghi al ministero per i Beni Culturali continuavano a chiamarlo così. Si era avvicinato al mondo dei musei proprio facendo la guida.

Era nato in una famiglia agiata e non sapendo quale fosse la sua reale vocazione aveva deciso di studiare storia dell’arte. Non perché fosse particolarmente portato ma perché era convinto che fosse la facoltà con il maggior numero di belle ragazze. Ma a differenza di quanto accade ai più, una scelta quasi casuale si era rivelata una strada perfetta per lui e per le sue attitudini.

Appena laureato era stato sistemato grazie a uno dei mille concorsoni pubblici dell’epoca. Aveva cominciato dal basso, diventando dipendente del Ministero. La prima mansione che gli fu affidata fu quella di educatore nei laboratori didattici degli Uffizi. Era giovane e quella era un’attività adatta a persone estroverse come lui: organizzare eventi ricreativi destinati ai bambini che visitavano il museo.

Nel frattempo si era sposato e aveva avuto due figlie e con il trascorrere del tempo aveva cominciato a fare carriera all’interno della Sovrintendenza. Grazie alle sue competenze nell’ambito dell’arte rinascimentale, che tutti riconoscevano essere fuori dal comune, era diventato prima impiegato, poi coordinatore e infine funzionario.

Anni dopo fu nominato segretario particolare del precedente soprintendente, la persona a capo di tutti i musei fiorentini. Si trasformò così nell’eminenza grigia del Polomuseale, un’organizzazione che gestiva una rete di musei, ville e chiostri di tutta la città.

«Non cade foglia senza che Cicerone non voglia», scherzavano i dipendenti, parafrasando il detto.

Otto anni dopo, quando il soprintendente dell’epoca andò in pensione, la rete di conoscenze acquisite in quel periodo gli fu nuovamente utile e lui sembrò la persona più adatta a sostituirlo. Conosceva i politici giusti e aveva tessuto una stretta rete di contatti con numerosi benefattori delle gallerie.

E quella fu la qualità che fece pendere la bilancia dalla sua parte: era diventato abilissimo a trovare miliardari eccentrici, facoltosi russi amanti dell’arte o ereditiere annoiate. Tutte persone disposte a contribuire alla cultura della sua città con una piccola fetta dei loro patrimoni.

«Ho verificato e la donazione è già arrivata», mormorò fra i denti, alla fine di una lunga riflessione. Aveva deciso, sarebbe andato dritto al punto. «Suo marito è stato molto generoso!».

Meredith sorrise. Era bellissima, indossava una tunica azzurra e gli occhi castani risaltavano sulla carnagione olivastra. «Ha detto bene. Mio marito sa essere molto generoso. Ovviamente però si aspetta riconoscenza…».

Nessun giro di parole.

Ma era proprio quello il problema... ciò che chiedeva in cambio!

I due proseguirono sul pavimento a scacchi bianchi e neri. Dalle ampie vetrate adesso si vedeva l’ala opposta del museo e anche lì erano collocate sculture che i Medici avevano raccolto negli anni d’oro della Signoria.

«Era proprio di questo che volevo parlarle».

La donna si fermò di colpo e lo fulminò con lo sguardo. «Ci sono problemi?».

Cavalli Gigli deglutì, indeciso se dire ciò che pensava o se invece assecondare la donna. «Conosceva Monsignor Claude de Beaumont?».

Lei non rispose.

«Si è suicidato l’altro ieri», aggiunse il soprintendente. «So che avevate stipulato un contratto anche con il monsignore… Lo so perché è stato lui a dirmelo!».

Meredith fece cadere lo sguardo su uno dei busti di marmo accanto alla porta di una sala. «Sono a conoscenza del fatto che vi siete parlati», chiarì lei dopo un lungo silenzio.

«Più volte, a dire il vero. E abbiamo parlato anche del nostro contratto», ammise il soprintendente. «Non mi sembrava fosse in salute, per così dire».

«No. In effetti non lo era. Ma non a causa nostra, stia tranquillo».

«Be’, vorrei qualche rassicurazione in più».

«C’è un contratto firmato, soprintendente. Non è possibile tornare indietro, tanto più che mio marito ha già adempiuto ai suoi obblighi…».

Cavalli Gigli si strofinò le mani sudate sulla giacca di tweed. «Certo. Ne sono consapevole. Non intendevo…».

«Non si preoccupi», lo interruppe Meredith. «Lei faccia ciò che le abbiamo chiesto e i suoi musei avranno i fondi per andare avanti un altro decennio. So che lo Stato italiano continua a tagliare le vostre spese. Tra pochi anni non avrete più nemmeno i soldi per pagare i custodi».

Cavalli Gigli annuì. Aveva già sentito quella frase e comunque sapeva di essere in una posizione scomoda. Se avesse cambiato idea e avesse deciso di rifiutarsi, avrebbe dovuto restituire i soldi già incassati, aggiungendoci interessi che non poteva permettersi. D’altra parte doveva sapere. «Non si offenda, ma sono un po’ preoccupato… non…».

Meredith lo interruppe nuovamente. «De Beaumont era instabile. Non ha saputo controllarsi. Come in ogni cosa, l’importante è non abusarne. Lei faccia quello di cui abbiamo discusso e non ci saranno rischi. Tutti hanno qualcosa da guadagnarci».

Il soprintendente non era per nulla convinto ma sapeva di non avere scelta. «Sarà una cosa lunga?»

«È un esperimento di pochi minuti».

«E la fase successiva?»

«Banale anche quella. Va fatta entro due ore, meglio se una soltanto. Se si aspetta di più, comincia una sorta di…». La donna cercò la parola adatta a un neofita e per un secondo rimase in silenzio. «Una sorta di compressione dei dati. In gergo è chiamata lossy. Ipotizziamo che serva a guadagnare spazio. La conseguenza certa è che le ridondanze comportano una perdita d’informazioni».

L’uomo annuì.

«C’è solo bisogno di un posto più tranquillo. Nella sua villa sulle colline andrà benissimo. Come le ho detto, l’importante è non abusarne».

«Non ne ho alcuna intenzione! Eccoci. Siamo arrivati».

Si infilarono nella sala di Leonardo e girarono subito a sinistra. Davanti a loro si aprì una stanza dalle dimensioni ragguardevoli, con due penisole di panche al centro e quadri del Rinascimento su tutti i muri.

«Eccola qua. Questa è la Primavera di Botticelli».

Il dipinto, lungo tre metri e alto due, era affisso al centro della parete. Era il più grande di tutti, posizionato dietro una balaustra metallica che non consentiva di avvicinarsi.

Meredith non la degnò di uno sguardo. Scambiò un cenno d’intesa con Julia e con la giapponese e tornò a guardare Cavalli Gigli.

L’orientale appoggiò la valigetta su una panca in pelle e si sedette. Fece scattare la serratura e ne estrasse una scatola contenente due piccoli microchip trasparenti che sembravano come in sospensione.

Il soprintendente non riuscì a vedere cos’altro conteneva la ventiquattrore. Si voltò dalla parte opposta e deglutì.