CAPITOLO XXI

«Sono tornato a Roma poco prima delle idi di ottobre», disse Vespasiano senza preamboli quando Hormus fece entrare Lelio nel tablinum, «ed eccoci a due giorni prima delle idi di febbraio. Perché ti ci sono voluti quattro mesi per venire a porgermi i tuoi rispetti, Lelio?».

Lelio si fermò davanti alla scrivania con aria imbarazzata e leggermente sudato malgrado il gelo di un’alba di febbraio. Si sfregò una mano sulla testa ormai calva e si esibì in un sorriso servile. «Ho saputo solo ora del tuo ritorno, patrone, dal momento che sono stato via per affari». Allargò le mani e fece spallucce come se la cosa fosse inevitabile.

«Per quattro mesi durante l’inverno, Lelio? Stronzate! Sei stato in città e io lo so».

«Ma tu stavi facendo il giro delle tue tenute».

«Ah! Per saperlo devi essere stato qui. A ogni modo, sono tornato dal mio giro nell’anno nuovo. Ti dirò io il motivo per cui hai impiegato quattro mesi per farmi visita: per via del pessimo inverno che hanno avuto in Mesia, ci sono voluti quattro mesi perché la lettera arrivasse a mio fratello e ti giungesse la notizia che ha annullato il tuo contratto dei ceci e congedato tuo figlio con disonore. Ci sono andato vicino, Lelio?».

Lelio fece una smorfia e si torse le mani.

«E per tutto il tempo che sono stato via non mi hai pagato il dodici per cento che mi avevi promesso, anche se io ho mantenuto fede alla mia parte dell’accordo, facendo ripristinare il tuo stato di equestre e procurando a tuo figlio un posto da tribuno militare».

Lelio chinò il capo. «Mi dispiace, patrone. Credevo che tu fossi morto. Ti pagherò tutto ciò che ti devo e alzerò la tua percentuale al quindici, se puoi fare sì che tuo fratello ristabilisca il contratto con me».

Vespasiano si rivolse a Hormus. «Magno è ancora qui?»

«Sì, padrone».

«Chiedigli di raggiungerci».

Quando Hormus lasciò la stanza, Vespasiano rivolse a Lelio un sorriso più amichevole. «Non è del contratto né del denaro che mi devi che desidero discutere al momento».

«Cosa vuoi, patrone

«Quante persone chiami patronus, Lelio?»

«Non capisco».

«No?», chiese Vespasiano mentre Hormus tornava con Magno. «Magno, Lelio ha difficoltà a capirmi. Lo aiuteresti a concentrarsi?»

«È un piacere, signore». Magno afferrò Lelio per il braccio destro e glielo torse dietro la schiena.

«Adesso ho la tua completa attenzione, Lelio?».

Magno spinse il braccio un po’ più su e Lelio annuì vigorosamente, facendo una smorfia di dolore.

«Bene. Ora, l’ultima volta che ci siamo visti, ti ho concesso un favore, dico bene?».

Un altro vigoroso cenno del capo.

«Tuttavia, una volta ottenuto il favore, hai colto la prima opportunità per coltivare un altro patrono. Qual è il suo nome, Lelio?». Vespasiano rivolse uno sguardo eloquente a Magno, il quale applicò ancora più pressione.

«Corvino!».

«Corvino», ripeté Vespasiano in tono ragionevole. Si stava divertendo. «E da quanto tempo fai la corte a Corvino?»

«Non capisco, patrone!».

Gli occhi di Vespasiano si indurirono; indicò la spalla di Lelio. Magno la afferrò e torse il braccio dell’uomo ancora più in alto. Si sentì un sonoro suono di lacerazione e uno schiocco. Lelio urlò.

«Vuoi che Magno ti sloghi anche l’altra?», domandò Vespasiano. «E lo farà, se non mi dici da quanto tempo sei al soldo di Corvino».

«Cinque anni, patrone».

«Penso che possiamo smetterla con la finzione di questo appellativo, no? Ora, l’ultima volta che hai lasciato questa stanza, qualcuno è venuto a colloquio subito dopo di te. Te lo ricordi?».

Lelio gemette, tenendosi la spalla lesionata. «No, patrone».

«L’altra, Magno, subito!».

Magno reagì in un lampo e, nel giro di pochi istanti, Lelio cadde in ginocchio urlante, con entrambe le braccia inerti lungo i fianchi.

«Il prossimo è il gomito, Lelio. Ricordi chi è entrato dopo di te?»

«Sì, ma non ricordo il suo nome».

«Agarpeto. Era il liberto di Narciso, venuto per organizzare un incontro tra me e il suo patrono. E tu hai ascoltato dietro la tenda, dico bene?»

«Sì», singhiozzò Lelio.

L’espressione di Magno cambiò quando capì cosa significava. Nell’occhio buono si accese una luce omicida.

Vespasiano alzò una mano per fermare l’amico. «Cosa ne hai fatto di quell’informazione, Lelio?»

«L’ho detto a Corvino».

«L’hai detto a Corvino? Ora, perché avresti fatto una cosa del genere?».

Lelio alzò lo sguardo su Vespasiano, implorando con gli occhi per avere salva la vita. «Perché mi ha pagato per dirgli qualsiasi cosa interessante avessi udito mentre ero a casa tua».

«Sai cosa ha fatto con questa informazione?».

Lelio scosse la testa.

«Diglielo, Magno».

«Ha organizzato l’attacco della Confraternita dell’Aventino orientale ai danni della Confraternita del Quirinale meridionale».

«È proprio ciò che ha fatto», confermò Vespasiano. «Nel tentativo di farmi uccidere. Ma, invece, un bel po’ dei confratelli di Magno hanno perso la vita. Immagino che al Quirinale meridionale piacerebbe vedere che sia fatta un po’ di giustizia».

«Moltissimo. Ma non sarebbero ansiosi di vederla fatta così in fretta, se capisci cosa intendo».

«Oh, eccome se capisco, Magno, capisco». Adesso Vespasiano si stava divertendo ancora più di quanto aveva previsto quando aveva capito il collegamento tra il fatto che Corvino sapesse della sua presenza alla taverna e Lelio. Era stato più di un mese prima e da allora pregustava la prospettiva di Lelio che veniva a intercedere per il contratto dei ceci. «Ma tu non sei più membro di quella confraternita, perciò non è più affar tuo. Non vorremmo che si commettesse un omicidio senza ragione, giusto, Lelio?».

Un guizzo di speranza si affacciò negli occhi di Lelio. «No, patrone».

«Allora, quando sarà la prossima volta che incontrerai i tuoi ex confratelli, Magno?»

«Al Circo Massimo, tra un’ora circa, per guardare il tuo equipaggio gareggiare per i Verdi per la prima volta».

«Davvero opportuno. Lelio vive in via del Cavallo Rosso, poco lontano dall’Alta Semita».

«La conosco bene, signore, e anche Tigran e i ragazzi».

«E una volta che avrai detto a Tigran e ai ragazzi che Lelio è responsabile della morte di alcuni confratelli e del temporaneo sfratto dalla loro taverna, quanto tempo pensi impiegheranno a trovare la casa di Lelio?»

«Io dico che per il piacere di una simile vendetta rinuncerebbero alle corse e sarebbero lì nel giro di mezzora».

Vespasiano finse di fare qualche calcolo a mente. «Direi che hai esattamente un’ora e mezza per andare via da Roma. A mai più rivederci, Lelio».

Lelio guardò Vespasiano con gli occhi sgranati e poi si rese conto che lo stava lasciando andare. Si alzò, facendo smorfie per il dolore alle spalle, e corse via dalla stanza con le braccia che sbattevano inerti contro i fianchi.

«Seguilo, Hormus, e non permettere a nessuno di aprirgli la porta. Lascia che ci provi e se la cavi da sé».

«Hai davvero intenzione di dargli una possibilità, signore?».

Vespasiano fece spallucce. «Pensi che i ragazzi non lo troveranno?»

«Certo che lo troveranno, anche se corre da Corvino».

«Be’, allora, dopo quello che ha fatto merita di vivere le sue ultime ore, o giorni, nel terrore dell’inevitabile».

«Cosa vuoi fare con Corvino? Potrei mandare i ragazzi ad appiccare il fuoco a casa sua».

Vespasiano prese brevemente in considerazione l’offerta. «No, Magno, ma grazie lo stesso, è gentile da parte tua. È così ricco che quasi non sarebbe un disturbo per lui. Penserò a qualcosa di adatto a tempo debito».

Magno ghignò. «Ne sono certo. In tal caso, penso che sia ora di andare al circo, signore».

«Lo penso anch’io, Magno. E adesso che Seneca ha persuaso Nerone a concedere la cittadinanza a Malco, credo che gli dèi guarderanno con favore il mio equipaggio. Ho la sensazione che questo sia il nostro giorno fortunato».

«Credo che tu abbia ragione. Dopo tutto, è cominciato in modo così piacevole».

La vista di Carataco che veniva ammesso al palco imperiale ricordò a Vespasiano che voleva condividere a cena le loro reminiscenze dei quattro anni passati a combattersi a vicenda. Ma mentre il capotribù veniva accolto da Nerone, che stava descrivendo con entusiasmo il modello in scala del Circo Massimo, paragonandone i dettagli alla struttura reale che li circondava, Vespasiano tornò al suo dissidio interiore e abbassò lo sguardo sulla borsa che teneva in mano, lottando con se stesso e la sua incapacità di separarsi facilmente dal denaro.

«Ho puntato dieci denarii su di loro, caro ragazzo», lo informò Gaio, seduto alla sua destra, mostrando la tessera di legno appena ricevuta dallo schiavo allibratore con cui aveva piazzato la scommessa.

Vespasiano era sconvolto. «Quello è cinque volte il salario annuale di un legionario, zio. E se perdono?»

«Allora darò la colpa a te perché i cavalli sono tuoi. Ma se vinco, allora avrò otto volte la mia scommessa perché nessuno punta sul terzo cocchio dei Verdi con un equipaggio che non ha mai gareggiato prima».

Vespasiano guardò di nuovo la sua borsa e la soppesò nella mano. Malgrado avesse qualche volta lui stesso guidato il suo equipaggio nel Circo Flaminio e fosse consapevole del loro valore, continuava a trovare difficile fare la sua prima scommessa in assoluto.

Flavia, seduta alla sua sinistra, sbuffò deridendolo. «Hai tante possibilità di convincerlo a scommettere sui suoi cavalli, Gaio, quante ne avresti di fargli pagare il tuo mantenimento se avessi commesso l’errore di sposarlo senza dote. Per fortuna io non ho fatto quell’errore». Sorrise in modo provocatorio e brandì la propria tessera. «Quindici denarii del mio denaro sui tuoi cavalli, caro marito».

Vespasiano fu colpito da quanto la moglie stesse diventando come sua madre; tempo qualche anno, calcolò, e con tutta probabilità sarebbe stata altrettanto irascibile. Era sollevato per aver proibito a Vespasia Polla di riaccompagnare lui e Flavia a Roma, dopo che le avevano fatto visita a Aquae Cutillae per i Saturnalia, con il pretesto della sua fragilità e del freddo; in realtà era per via dei loro caratteri in continuo attrito. Avere a che fare quotidianamente con due donne del genere era stato intollerabile; mentre il mese trascorso con Cenis a Cosa era stato decisamente molto tollerabile.

Tito si protese oltre la madre e sfregò il braccio di Vespasiano, riportandolo al dilemma attuale. «Coraggio, padre, è solo per divertirsi. Io ho puntato cinque denarii».

«Cinque! E dove li hai presi?»

«Fanno parte della mia diaria». Tito inarcò un sopracciglio prima di aggiungere: «Una grossa parte, visto che sei tu che ne decidi l’ammontare».

Vespasiano non si offese per il commento del figlio; sapeva che, pur essendo un’esagerazione, c’era più che un granello di verità. Sospirò, tirò fuori una moneta dalla borsa e la porse allo schiavo allibratore. «Un sesterzio sul cocchio numero tre dei Verdi. Quanto avrò se vinco?»

«Due denarii più la posta originale, padrone», rispose lo schiavo, prendendo la moneta di bronzo. Con grande cerimonia, la mise nella sua borsa prima di annotare la scommessa sul registro e poi porse a Vespasiano la corrispondente tessera.

Mentre lo schiavo andava via per fare rapporto al suo padrone, insediato insieme agli altri allibratori dietro alla tribuna dei senatori, Tito gli consegnò un denarius d’argento. «Questo per essere riuscito a restare serio».

Vespasiano spinse il pugno in aria e lanciò urla incomprensibili mentre i tre cocchi in testa uscivano slittando, tra nuvole di polvere, dalla curva per cominciare l’ultimo dei sette giri, quasi appaiati. Solo i sostenitori dei Rossi rimasero seduti, dal momento che i loro tre veicoli giacevano in pezzi sparpagliati su tutta la pista. I Blu, i Bianchi e i Verdi, tuttavia, erano balzati in piedi per incitare le rispettive squadre per l’ultimo disperato sforzo. Ma quelli che urlavano di più erano le persone che avevano puntato sui nuovi arrivati: lo sconosciuto equipaggio dei Verdi. I cavalli avevano fatto scalpore in tutto il circo durante la parata prima della corsa; i sostenitori di tutte le fazioni avevano guardato meravigliati la qualità degli arabi. Perfino l’imperatore, che non era affatto un intenditore, era rimasto colpito e aveva smesso di vantarsi con Carataco, seduto accanto a lui, dei nuovi modellini di cocchi finemente intagliati nell’avorio; aveva convocato Eusebio, il capo fazione dei Verdi, nel palco imperiale. Vespasiano aveva sentito lo sguardo di Nerone posarsi su di sé un paio di volte mentre i due discutevano dell’equipaggio.

Ma adesso era perso nell’eccitazione della corsa mentre i tre cocchi di testa sfrecciavano lungo il rettilineo dall’altro lato della spina tra le urla entusiaste di un quarto di milione di persone. Gli hortatores, i singoli cavalieri che guidavano ciascun cocchio attraverso la polvere, i rottami e il caos della gara, raggiunsero il punto di svolta in fondo alla spina per l’ultima volta e, segnalando frenetici a un gruppo di schiavi addetti alla pista, che cercavano di soccorrere un cocchiere intrappolato nel suo veicolo sfasciato, di mettersi al riparo all’interno dell’intrico di legno e cavalli, affrontarono la curva e si misero da una parte per lasciare libero l’ultimo rettilineo ai tre restanti equipaggi.

I Bianchi, all’interno, affrontarono la curva più lenta ma più brusca, mentre i cocchieri Blu e Verdi frustavano gli equipaggi perché girassero attorno all’esterno alla massima velocità possibile, annullando il vantaggio dei Bianchi che avevano preso la strada più breve. Quando i tre cocchi furono quasi appaiati e senza più curve da affrontare, divenne tutta questione di forma fisica e ritmo. E mentre il boato dei tifosi dei Verdi, seduti per lo più a sinistra delle grandi porte d’ingresso, raggiungeva proporzioni colossali, apparve evidente quale equipaggio possedeva entrambe le qualità; qualità che Vespasiano conosceva molto bene dopo averle provate a livello amatoriale.

Ma adesso i cavalli erano nelle mani di un professionista.

Con apparente disinvoltura, i quattro arabi grigi allungarono il passo e quasi filarono via, mentre i conducenti dei Blu e dei Bianchi, dal torace rivestito di cuoio e ansanti per lo sforzo, sferzavano le fruste a quattro code sulle groppe dei rispettivi equipaggi senza effetti visibili. I sostenitori dei Verdi ulularono di gioia quando il settimo delfino cadde e il cocchiere alzò il braccio in un vittorioso saluto.

«Non erano neanche tirati al massimo verso la fine!», urlò Gaio all’orecchio di Vespasiano. «Potrebbe essere il miglior equipaggio di Roma al momento».

Vespasiano sorrise raggiante allo zio, concentrato su tutta la vincita in denaro che adesso era una possibilità concreta, quando una guardia pretoriana li raggiunse facendosi largo lungo la fila. Con un frettoloso saluto, consegnò il suo messaggio. «L’imperatore ordina a te e tuo figlio di unirsi a lui per cena dopo l’ultima corsa». Senza aspettare una risposta, l’uomo andò via.

«Oh cielo, caro ragazzo», disse Gaio, con la gioia della vittoria che abbandonava il suo volto. «Ho la brutta sensazione di non essere l’unico a pensarlo».

Vespasiano lanciò un’occhiata a Nerone ed ebbe il sospetto che lo zio avesse ragione.

«Devi capire, Vespasiano», disse Seneca, andando dritto al punto, quando incontrò Vespasiano e Tito nell’atrio del palazzo, «che per tenere l’imperatore…come dire? Tranquillo?Sì, tranquillo è il termine esatto. Per tenere l’imperatore tranquillo, dobbiamo dargli ciò che vuole». Mise un braccio bonario attorno alle spalle di Vespasiano. «Se ottiene ciò che vuole, allora lo troviamo molto più propenso ad agire con ragione e autocontrollo».

«Lo troviamo?», chiese in tono eloquente Vespasiano mentre Seneca lo conduceva in tutta fretta in quella che un tempo era la dignitosa sala destinata da Augusto a mettere in soggezione le delegazioni in visita con la maestosità di Roma invece che con lo sfoggio di ricchezza, come aveva evidentemente deciso di fare Nerone. Opere d’arte dal costo proibitivo erano adesso disseminate nella stanza; non vistose e pacchiane come al tempo di Caligola, ma squisite sia nella bellezza che nella fattura. C’era, tuttavia, un che di volgare in tanta opulenza.

«Sì, io e Burro».

«E Pallante?»

«Temo che il tuo amico abbia puntato troppo sul sostegno di Agrippina; anche se “sostegno” è il termine sbagliato, considerando per intero tutto ciò che lei gli da». Fece una risatina e i suoi occhi quasi scomparvero nella faccia piena. Vespasiano si trattenne dal chiedere quale sostegno Agrippina desse ancora a Nerone. «Ma immagino che lo sospettassi dal momento che è stato a me che ti sei rivolto per la cittadinanza di Malco».

«Senz’altro. E mi sono reso tuo debitore consapevolmente. Spero che tu abbia tratto vantaggio dalle informazioni che ti ho dato».

«Moltissimo e ti farà piacere sapere che Peligno è, ehm, “economicamente indebitato” è l’espressione che meglio riassume la sua posizione». Seneca emise un’altra risatina e guardò Tito. «Impara da tuo padre, giovanotto. Possiede una, come dire? Ah, sì, ecco un’eccellente parola: mente. Una mente politica è esattamente ciò che possiede». Assestò una manata sulla spalla di Vespasiano, per poi darle un’amichevole strizzata. «Ora, voglio essere sincero con te, Vespasiano».

«Vuoi che dia all’imperatore il mio equipaggio di cavalli».

«Non ho detto questo. No, no, no, lungi da me. Non ho affatto detto questo».

«Hai detto che dobbiamo dare a Nerone ciò che vuole».

«L’ho fatto; ma solo se lo chiede. Perciò, se lo chiede, dàgli il tuo equipaggio».

«E cosa avrò in cambio?»

«Bene, bene, questa è una domanda difficile. È…qual è la parola giusta? Ah, sì, imponderabile. Sì, esatto. Potrebbe essere qualsiasi cosa, da niente fino alla tua stessa vita. È così che funzionano le cose con Nerone; c’è molto poca…via di mezzo, in mancanza di un’espressione migliore. Ma, chissà, potrebbe essersi dimenticato dei tuoi cavalli se la cena è sontuosa, il suonatore di lira talentuoso e la conversazione è incentrata su di lui, cosa nella quale mi impegnerò al massimo perché accada».

Entrando nella dolce musica e nel pacato chiacchiericcio del triclinium, Vespasiano si rassegnò a perdere i cavalli senza ottenere niente. Altrimenti perché si trovava lì?

«Dovremo rimandare i nostri ricordi a un’occasione più privata, Vespasiano», disse Carataco. Si era allontanato da una conversazione con uno della dozzina di altri ospiti per andare a salutare Vespasiano che entrava nella stanza.

«Adesso che sono tornato, dovremmo prendere accordi». Vespasiano indicò Tito. «Questo è mio figlio nonché mio omonimo».

Carataco prese il braccio di Tito. «Faresti bene a seguire tuo padre».

«Intendo fare ancora meglio».

Carataco rovesciò la testa all’indietro e scoppiò a ridere. «Questa è la gioia dei figli. Hai fatto bene, Vespasiano, a inculcare una simile ambizione nel ragazzo. Ma quali vittorie potrebbe conseguire che siano più grandi delle tue?»

«Roma non smetterà mai di alimentare il bisogno di vittorie».

«Fino a che continua a espandersi, sì. Ma vieni, beviamo insieme e mi sforzerò di dimenticare che per fare meglio di me, i miei figli devono solo limitarsi a non perdere ciò che già hanno».

Vespasiano fu sorpreso di non sentire acredine nella voce del britanno. Prese un calice di vino dal vassoio di uno schiavo e vide Pallante in mezzo agli ospiti; il greco gli andò incontro e Carataco si fece educatamente in disparte.

«Pensavo…», esordì Vespasiano prima che Pallante lo interrompesse.

«So cosa pensavi». La faccia di Pallante era, come al solito, imperscrutabile. «Ecco perché coltivi Seneca. È una mossa saggia anche se, in un certo senso, ingrata; soprattutto dopo tutto quello che ho fatto per te. Ma non so se ti manterrà al sicuro da Agrippina o ti farà ottenere il governatorato di una provincia. Malgrado ciò che Seneca e Burro hanno fatto per avvelenare la mente di Nerone contro sua madre e anche contro di me, sono comunque riuscito a conservare il mio posto di capo segretario del Tesoro; ma per quanto tempo non lo so. Spero di non perdere la tua amicizia in nome dei vecchi tempi».

Un’improvvisa interruzione nella conversazione seguita da un applauso impedì a Vespasiano di rispondere. Nerone, attorniato da una variopinta cerchia, era entrato nella stanza seguito da Agrippina e due ancelle; tutti i presenti si unirono in un coro di potenti “Ave, Cesare!”.

Nerone fu sopraffatto dall’accoglienza e si appoggiò con una mano alla spalla di un liberto muscoloso ma dal viso effeminato, mentre agitava languidamente l’altra in segno di ringraziamento. Lacrime presero a rigargli di nuovo le guance e Vespasiano si chiese se fosse così emotivo di natura o avesse imparato a piangere a comando o, più probabilmente, fosse bravo nell’arte di applicare cipolla agli occhi.

«Amici miei, amici miei», disse Nerone, quasi cantando le parole con la voce rauca. «Basta, siamo tutti amici qui». Si rivolse alla sua cerchia. «Vieni, mio caro ragazzo».

Britannico, scortato da un uomo rozzo con l’uniforme del prefetto dei vigiles, venne fuori dalla folla, ardendo visibilmente di vergogna e rabbia; non c’era da sorprendersi: una parrucca bionda nella quale erano stati intrecciati dei boccioli gli era stata calcata sulla testa; gli occhi, le guance e le labbra erano pesantemente truccati e la tunica che indossava era del lino più pregiato ma fin troppo corta.

Tito reagì come per effetto di un pugno e fece per andare da lui, ma fu trattenuto all’istante da Vespasiano e Pallante.

«Fermo, sciocco», sibilò Pallante.

«Oggi è la vigilia del quattordicesimo compleanno del mio amato fratello, perciò questa sera è l’ultima volta che sarà trattato da bambino. È un momento da celebrare, un momento in cui godere delle gioie della fanciullezza per un’ultima volta prima di assumere le responsabilità di un uomo, prima di sentire il terribile peso della responsabilità che deriva dalla toga virile». Nerone mise un braccio attorno alle spalle di Britannico. Vespasiano ebbe la sensazione che gli avessero sferrato un pugno allo stomaco prima che avesse il tempo di contrarre i muscoli: aveva dimenticato l’importanza della data. Quella sera non aveva niente a che fare con i suoi cavalli. Lanciò uno sguardo a Seneca, i cui occhi lo avvertirono della propria impossibilità a intervenire.

«Sei fortunato, amato fratello, dal momento che non devi ancora prendere le gravose decisioni che derivano dalla maturità». Nerone rivolse su Pallante gli occhi del colore dell’acqua, nei quali Vespasiano vide la durezza e la crudeltà che si nascondevano dietro la facciata dell’emotività. «Quell’uomo si scopa mia madre, lo sapevi questo, dolce ragazzo?».

Pallante lanciò un’involontaria occhiata alla sua amante.

Agrippina si irrigidì; era sconvolta.

Tutti nella stanza trattennero il fiato.

«Se la scopa perfino dopo che l’ho scopata io e qualche volta, l’ho notato, l’ha scopata prima di me. Anche tu ti scopi mia madre, Britannico?».

Britannico non replicò ma si limitò a guardare davanti a sé, tremante di rabbia.

«Ho intenzione di punire Pallante perché si scopa mia madre».

«Tu non farai niente del genere!», strillò Agrippina, riscuotendosi dal trauma. «Razza di mostro, come osi rivoltarti contro di me e come osi prendertela con Pallante adesso che ti abbiamo portato dove sei?». Fece per avventarsi sul figlio ma Burro la trattenne. «Lasciami andare, bruto incivile!».

Nerone la schiaffeggiò con il palmo aperto e poi con il dorso della mano. «Zitta, madre, stai disturbando il mio divertimento».

«Divertimento!». Agrippina cercò di divincolarsi dalla presa di Burro, che però la tenne ben stretta. «Pensavo che mi saresti stato riconoscente e invece no, non sei migliore di tuo padre».

«Né peggiore di mia madre. Ma almeno so cosa sono e ho la bontà di nasconderlo per la maggior parte del tempo».

Agrippina soffiava e sputava come un gatto rabbioso, quasi perdendo il respiro per la collera. «Andrò al castro pretorio e confesserò di aver ucciso Claudio». Indicò Britannico. «Metteranno il suo ranocchio sul trono e tu sarai finito».

«E tu sarai morta, madre, se lo fai. E poi», fece scorrere una mano nella parrucca bionda, «il piccolo Britannico è ancora un bambino e dovrebbe essere trattato come tale. Tigellino! Sul divano con lui».

Il prefetto dei vigiles accostò alla gola il coltello con cui aveva tenuto a bada Britannico e costrinse il ragazzo a inginocchiarsi sul divano. La tunica risalì sulle natiche e tutti videro che sotto non portava nulla.

Nerone ammirò la vista svelata per qualche momento e poi si leccò le labbra. «Che bambino delizioso. Doriforo, occupati di me e poi preparalo».

Il muscoloso liberto effeminato si calò sulle ginocchia e con esperta perizia provocò al suo padrone un’erezione. Nerone la osservò con amore. «Oh, se non fosse mio ma appartenesse a qualcun altro, così potrei possedere tale bellezza».

Tito si dimenò ma Vespasiano tenne fermo il figlio mentre Doriforo leccava l’ano di Britannico inumidendolo, prima che Nerone, lo penetrasse con sorprendente tenerezza. Britannico non fece un suono.

Tutti i presenti non coinvolti rimasero a guardare l’atto, pietrificati, i volti inorriditi mentre Nerone stuprava il fratellastro con crescente ritmo e diletto. Il legittimo erede al trono della stirpe di Augusto si dava da fare in pubblico come se non fosse altro che una prostituta del molo che si guadagnava un sesterzio. Tigellino sbavava mentre teneva fermo il ragazzo, guardandolo in faccia e, di tanto in tanto, alzando gli occhi su Nerone, con un ghigno folle di piacere sadico.

Con appena un grugnito e un lieve sussulto, Nerone raggiunse l’apice e poi emise un profondo sospiro appagato. Tirandosi fuori da Britannico e, al tempo stesso, schiaffeggiandogli una natica, si guardò attorno raggiante. «Ecco come si tratta un bambino. Mangiamo».

Nerone si leccò le dita e poi guardò Pallante, aggrottando la fronte come se cercasse di riacciuffare un ricordo sfocato. «Ma certo! Ero in procinto di punirti perché ti scopi mia madre». Prese un’altra quaglia dal piatto davanti a sé e ne staccò una coscia. Si rivolse a Seneca, disteso sul divano alla sua destra. «Tu affermi di avere occhio per la giustizia adeguata, quale pensi debba essere la sua punizione?».

Seneca si schiarì la voce e si pulì le labbra per guadagnare qualche momento di riflessione. «Princeps, nelle nostre lunghe ore di studio insieme nel corso degli anni, ho cercato di indirizzarti sul sentiero della giustizia invece che del, ehm…vogliamo dire caos? Sì, caos è perfetto. Non possiamo avere il caos e il caos deriva dal’ingiustizia. Pallante ha servito bene sia te che tuo padre e per questo merita una ricompensa. Tuttavia, si è anche, come posso dire? Compromesso, sì, compromesso con tua madre, e per questo merita un castigo. Perciò, in che modo troviamo la giustizia in base a questi due esiti contrastanti?».

Mentre Seneca si dilungava sull’argomento, Vespasiano si meravigliò che Nerone sembrasse ascoltare rapito invece di affannarsi a restare concentrato come il resto dell’uditorio di Seneca. Solo Pallante, accanto a lui, era attento al discorso, dal momento che si decidevano la sua vita e la sua sorte. La sua faccia rimase esteriormente placida ma un impercettibile sfregare dell’indice sulla coppa tradiva una profonda agitazione in uno in genere così calmo.

Carataco, all’altro lato di Vespasiano, sorseggiava il suo vino, incurante del discorso, mentre Tito e Britannico mangiavano entrambi meccanicamente e senza alcun piacere, come solo per passare il tempo fino a che il supplizio non fosse terminato. Agrippina covava rabbia alla sinistra di Nerone, scoccando occhiate velenose all’oratore.

«E pertanto, tenendo a mente tutti questi fattori», proseguì Seneca, giungendo a una conclusione, «compreso il fatto che è stato lo stesso Pallante a raccomandare la morte di Narciso in circostanze simili, ti suggerisco, princeps, di mostrare un certo grado di misericordia. Mandalo in esilio, mettilo…».

«Decido io la condanna», scattò Nerone, alzando un dito per ammonire Seneca. «Se sono d’accordo con il ragionamento». A quel punto tornò alla posa che sembrava aver dimenticato quando aveva dato libero sfogo alla propria innata violenza. Dopo aver imitato a lungo un uomo immerso nei pensieri, riemerse. «Sarò misericordioso, Pallante».

Vespasiano sentì che il greco si rilassava; il dito indice smise di muoversi.

«Sei bandito da Roma ma potrai vivere in una delle tue tenute vicine alla città. Puoi tenere la tua ricchezza come ricompensa per il buon servizio reso a mio padre ma, se dovessi avere bisogno di denaro, me lo presterai sempre, senza interessi. Tuttavia, come punizione per i tuoi crimini con mia madre, la ospiterai per la metà di ogni mese. In altre parole, per metà dell’anno lei non sarà con me, a darmi fastidio, ma con te».

Vespasiano soffocò una fragorosa risata per la folle logica della condanna mentre Pallante si alzava in piedi.

«Princeps, sei giusto e misericordioso e io mi sottometto alla tua volontà». Con un inchino a Nerone e ignorando del tutto Agrippina, che continuava a guardare il figlio inorridita, Pallante lasciò la stanza. La sua carriera a Roma era finita.

Nerone si illuminò quando i passi del greco si allontanarono. «Adesso, dov’eravamo? Ah, sì, stavamo festeggiando la maggiore età di mio fratello. Facciamo un brindisi; riempite le vostre coppe!».

Le schiave che avevano atteso nell’ombra uscirono nella sala per assicurarsi che ciascuno degli ospiti avesse a sufficienza e tornarono al loro posto.

«Al compleanno di mio fratello domani!», gridò Nerone prima di vuotare la coppa.

Tutti gli ospiti seguirono il suo esempio con gradi diversi di entusiasmo. Britannico, gli occhi vitrei per il ricordo della sodomizzazione pubblica, bevve poco più di un sorso. Ma fu sufficiente a fare sorridere Nerone mentre il ragazzo deglutiva. «Che lui non vedrà mai», aggiunse, osservando attentamente Britannico.

Le viscere di Vespasiano ebbero un sussulto e guardò Britannico, sul cui volto si allargò un freddo sorriso di accettazione mentre buttava giù un altro sorso. Aveva gli occhi fissi su Nerone, colmi di sfida e odio. Dietro di lui, una schiava lo guardava con la stessa intensità con cui aveva guardato morire Claudio; la donna fu ricompensata da uno spasmo improvviso. Tito afferrò la tazza di Britannico quando lo spasmo si ripeté, confuso da quanto stava accadendo al suo amico, che adesso si affannava a respirare, senza riuscirci. Un rantolo uscì dalla gola strozzata. Tito rimase a bocca aperta, la faccia contratta dall’orrore, quando cominciò a capire. Per cinque, dieci, quindici istanti la spaventosa agonia continuò, mentre gli occhi di Britannico uscivano dalle orbite e la sua lingua diventava blu, fremendo nel tentativo di articolare una parola; la sua mano afferrò il polso di Tito e spinse alla bocca la tazza avvelenata. Le sue labbra si spiegarono in un ultimo sorriso sbilenco.

Ancora una volta, il cocchio del tempo rallentò per Vespasiano, che sentì se stesso alzarsi mentre guardava Britannico accasciarsi lentamente all’indietro, allentando la presa sulla tazza. Il cuore gli batteva lento e cupo nelle orecchie mentre Tito fissava il contenuto della tazza, comprendendo cos’era. Il ragazzo abbassò lo sguardo sugli occhi senza vita dell’amico, fissi su di lui, prima di scoccare a Nerone una torva occhiata di palese odio.

Vespasiano urlò mentre cercava di lanciarsi dall’altro lato della stanza, guardando la mano di Tito alzarsi e la tazza accostarsi lentamente alle sue labbra. La vide inclinarsi e il vino all’interno toccare il bordo mentre la bocca di Tito si apriva. La tazza si posò sul labbro inferiore e il veleno cominciò a scorrergli sulla lingua. Vespasiano ebbe la certezza di vedere la gola del figlio contrarsi nella deglutizione quando la sua mano destra fece volare via la tazza dalla bocca di Tito e il tempo tornò alla sua implacabile velocità, quasi nella parodia di quanto restava a Tito da vivere.

«Un antidoto!», gridò Vespasiano alla schiava, appena consapevole della risata dietro di sé. «Qual è l’antidoto, donna?». Afferrò Tito, che guardava gli occhi dolenti e morti di Britannico.

La donna rimase immobile, con lo sguardo rivolto verso Nerone.

«Due al prezzo di uno, Locusta», riuscì a dire Nerone in preda all’ilarità. «Molto bene».

Vespasiano gridò ancora per avere l’antidoto mentre Carataco afferrava Locusta per la gola e la sollevava di peso, urlante. La brocca che reggeva cadde a terra in mille pezzi. «Obbedisci a me, donna, e a nessun altro, poiché la tua miserabile vita è nelle mie mani. L’antidoto».

Locusta tirò fuori una boccetta da un sacchetto che portava alla vita. Carataco prese la boccetta e spinse via la donna, mandandola a finire sul duro pavimento di mosaico in uno schianto di ossa.

Tito ebbe uno spasmo quando Vespasiano afferrò l’antidoto, strappandone via il tappo con i denti. Sbatté la testa del figlio sul petto immobile di Britannico e gli rovesciò il contenuto della boccetta nella gola aperta. Una volta vuota, la gettò via, strinse con due dita il naso di Tito e gli tenne la bocca chiusa. Ci fu un altro spasmo ma poi il ragazzo deglutì. Vespasiano guardò Tito negli occhi, imponendogli di vivere, mentre la risata di Nerone continuava a riecheggiargli nelle orecchie; nessun altro fece un suono, a parte Locusta che gemeva per il braccio rotto. Tito sgranò gli occhi per il dolore, le pupille così dilatate che non vi era più colore, solo bianco e nero. Ci fu un altro spasmo ma più debole stavolta e la sua faccia si rilassò.

Carataco tirò su in piedi Vespasiano. «Sollevalo, dobbiamo portarlo fuori da qui».

Vespasiano fece come gli diceva, sapendo inconsapevolmente che era la cosa giusta da fare.

«Padre?», mormorò Tito.

«Ti riprenderai; ti ho tolto la tazza prima che ne bevessi troppo e hai preso tutto l’antidoto».

«Chi ha detto che potete andarvene?», urlò Nerone, la cui risata si era spenta.

«Con il tuo permesso, li prendo sotto la mia custodia, princeps», disse Carataco, aiutando a sollevare Tito. «Come tu hai mostrato misericordia a me, così ti imploro di mostrare misericordia a questo figlio di Roma. Roma ha già perso un figlio oggi; non fargliene perdere un altro».

Senza aspettare risposta, Vespasiano issò Tito in piedi e, con l’aiuto di quello che un tempo era il suo nemico mortale, trascinò via il figlio dalla stanza, via dall’Imperatore Aureo.