CAPITOLO XX

Nerone si appoggiò al braccio di Otone, cercando di riprendere fiato. Gettò la testa all’indietro, agitando i capelli color tramonto, mentre si pizzicava le tempie tra pollice e anulare di una mano. Finalmente inspirò, ansante, e Vespasiano si chiese quanto ancora il Principe della Gioventù sarebbe stato in grado di sostenere quella scena di travolgente sorpresa.

Vespasiano si guardò attorno nell’atrio degli alloggi del prefetto pretoriano, nel campo della Guardia, all’esterno della porta del Viminale.

Agrippina, Pallante, Seneca e Burro aspettavano pazienti come se un pessimo sfoggio di drammatizzazione, che avrebbe fatto vergognare perfino l’attore più melodrammatico, fosse una normale reazione a qualcosa di totalmente inaspettato. Tuttavia, nessuno di essi incrociò lo sguardo di Vespasiano.

«Devo comporre il mio discorso». La voce di Nerone, roca nel migliore dei casi, era resa peggiore dall’emozione.

Seneca venne avanti e, dalle pieghe della toga, tirò fuori un rotolo. «Princeps, l’hai già fatto».

Nerone alzò entrambe le mani, toccando con i pollici la punta dei medi. La gioia era dipinta sul suo volto. «Ah! L’ho già fatto».

Seneca gli porse il documento. «Sono certo che si tratti di un capolavoro, Princeps».

«Lo è, lo è», affermò Nerone mentre gli dava una scorsa.

«La tua abilità con le parole è insuperata».

«A parte dal talento musicale. E se mettessi insieme le due cose…». Nerone alzò lo sguardo al soffitto con espressione malinconica e poi riportò l’attenzione sul rotolo.

Tutti rimasero in silenzio mentre Nerone finiva di leggere il discorso. «Risponderò alla chiamata del Senato e verrò immediatamente, Vespasiano».

«Tu ci onori, Princeps».

«Ma cosa indosserò? Cosa indosserò, madre?».

Agrippina sorrise al figlio e allungò una mano per accarezzargli la barba color zenzero. «Il tuo maggiordomo ha pronta nelle tue stanze una selezione di indumenti adatti da sottoporre al tuo giudizio».

«Madre, tu pensi a tutto». Nerone la baciò sulle labbra e poi afferrò di nuovo il braccio di Otone. «Vieni, Otone, mi aiuterai a decidere. Non devo fare aspettare il Senato».

Vespasiano guardò l’imperatore scelto uscire dalla stanza quasi saltellando e si chiese per quanto tempo le sue buffonate sarebbero state tollerate; ma poi pensò che l’innato servilismo delle classi senatoriale ed equestre avrebbe fatto sì che il suo comportamento si sarebbe deteriorato ai livelli di Caligola prima che i mormorii avessero inizio. Ebbe poi un assaggio di quanto sarebbe accaduto quando Agrippina si rivolse a Burro e, con un freddo sorriso sulle labbra e la perfidia negli occhi scuri, disse quasi come se facesse le fusa: «Manda una turma di cavalleria pretoriana a riportare Narciso a Roma». Quando Burro salutò e fece per andarsene, aggiunse: «E rimuovi Callisto dalla sua posizione di segretario dei Tribunali. In modo permanente».

Lo sterminio stava per avere inizio.

Quattro ore più tardi, dopo che Vespasiano ebbe mandato ripetuti messaggi al Senato per assicurare che Nerone sarebbe arrivato non appena avesse finito di cambiarsi d’abito, i senatori si alzarono in piedi e applaudirono il Principe Dorato dopo che egli ebbe, con grande verbosità e numerose dimostrazioni di riluttanza, accettato le loro richieste. Lacrime di gratitudine erano visibili in più di un paio d’occhi, a imitazione di quelle che rigavano le guance di Nerone, mentre girava lentamente su se stesso con le mani sul cuore, così che tutti comprendessero quanto intensa fosse la sua emozione. Risplendente nelle babbucce dorate, una tunica porpora intessuta di fili d’oro, una corona d’alloro realizzata con una sottile lamina dello stesso metallo e bracciali tempestati di ogni sorta di gemme, Nerone mostrò la propria modestia sfoggiando una semplice toga bianca da cittadino. Tutti poterono accertarsi della sua umiltà quando si avvicinò al console e, inginocchiatosi davanti a lui, implorò di potersi rivolgere nuovamente al Senato.

Lottando contro la confusione che continuava a guizzargli sul volto, Marcello diede la parola al nuovo imperatore. Nerone si erse in tutta la sua altezza, che era nella media, e fece scorrere i chiari occhi azzurri sul suo uditorio prima di assumere la classica posa da oratore, con il braccio sinistro di traverso sulla vita, a sostegno delle pieghe della toga, e il destro lungo il fianco, con la mano che stringeva un rotolo. Una volta soddisfatto della posizione, emise un paio di singhiozzi e poi si schiarì la voce dalla potente emozione, lanciandosi infine in un discorso che già dopo pochi paragrafi aveva sorpreso tutti per la sua imparzialità e il suo tradizionalismo. Tutti videro che non assomigliava affatto al suo personaggio, eppure nessuno voleva dubitare di quanto stava ascoltando.

Nerone affermava l’autorità del Senato, sperava nel consenso dell’esercito, dichiarava di non serbare rancori, non portava con sé torti da riparare né desiderio di vendetta, e prometteva che non sarebbe stato giudice di tutti i casi legali e, inoltre, che non ci sarebbe stata corruzione all’interno della sua famiglia. Mentre Nerone continuava a parlare fino al pomeriggio, la mente di Vespasiano pensò alla vendetta. Scrutò le file di senatori, ciascuno dando l’impressione che la debole, roca voce che si rivolgeva loro fosse il suono più bello del creato, e presto trovò l’oggetto del suo odio. Peligno quasi sobbalzò sullo scranno quando sentì gli occhi di Vespasiano su di sé e poi si girò prendendo in pieno il veleno del suo sguardo. Mentre Nerone si preparava a raggiungere le sue vette retoriche, Vespasiano si crogiolò nel pensiero dell’umiliazione di Peligno e poi della sua morte fino a quando, avendo Nerone concluso dicendo che dopo il funerale di Claudio il giorno seguente avrebbe incontrato la delegazione armena in città e, con una mossa sola, ridato stabilità all’oriente romano, il Senato si levò ad acclamare il Principe Aureo che adesso era il loro imperatore.

Il console giovane si alzò e chiese silenzio. «Princeps, siamo tutti commossi dalle tue parole, che hanno espresso così bene i principi del giusto governo. Proporrei di far incidere il tuo discorso su tavole d’argento perché venga letto in occasione dell’insediamento di ogni nuovo console come un esempio per tutti. Cosa dice il Senato?».

Esultando unanime, che accettava quell’ispirato modo di onorare una prova di retorica così elevata, il Senato acclamò il suo imperatore. Le lodi e gli applausi continuarono senza sosta mentre Nerone accettava graziosamente con una profusione di gesti ed espressioni di modestia fino a che, senza dubbio per il timore che la sua cena fosse rovinata, il console giovane vi mise fine. «Aspettiamo con ansia di pronunciare i nostri giuramenti domani mattina, dopo il funerale di tuo padre. Fino a quel momento, ti ringraziamo per il tuo tempo e rivolgeremo preghiere a tutti gli dèi di questa città perché veglino su di te».

Nerone era troppo sopraffatto per poter rispondere; si avviò con il labbro tremante alle porte aperte del Senato. Lì, sulla soglia, c’era sua madre, il cui sesso le vietava di entrare nell’edificio; Burro era dietro di lei insieme a un drappello di pretoriani. Nerone si gettò tra le braccia di Agrippina e i due si strinsero l’un l’altro come in preda a un’estatica gioia.

«Qual è la parola d’ordine del giorno, princeps?», domandò Burro quando la coppia si fu sciolta.

«L’unica parola d’ordine possibile, Burro», replicò Nerone guardando Agrippina. «Madre eccellente».

Burro salutò e fece segno alle guardie di farsi da parte mentre Nerone veniva avanti per accogliere la tonante ovazione del popolo di Roma, riunito a migliaia nel Foro. Il Senato uscì dietro di lui per partecipare all’acclamazione del Principe Aureo. Vespasiano li raggiunse con Gaio e osservò l’immeritata pioggia d’amore del popolo, chiedendosi quanto sarebbero durate le parole che Seneva aveva messo in bocca a Nerone.

«Non avresti dovuto farlo, zotico», disse una voce al suo orecchio.

Vespasiano non si voltò. «Ti credevo morto, Corvino».

«Penso che l’avermi visto vivo in Senato questa mattina annulli il mio giuramento».

Vespasiano continuò a rifiutarsi di guardare Corvino. «Poiché sei miracolosamente tornato dal regno dei morti, dimmi, Corvino, dove stai vivendo questa vita? Mi pare di ricordare che nell’ultima vivevi vicino a mio fratello; è così che ti sei guadagnato la sua fiducia e hai scoperto dove si trovava Clementina per poterla portare a Caligola. Vivi ancora lì?»

«Sull’Aventino? Sì. Ma cosa…».

«Aventino orientale?»

«Sì».

Vespasiano girò su se stesso e fissò Corvino con un’espressione di puro odio. «Non ti sei affatto tenuto in disparte, vero, Corvino? Hai cercato di farmi uccidere e di farmi passare per la vittima di uno scontro tra confraternite. Dopo che ti ho fatto risparmiare la vita da Pallante, lo considero un comportamento estremamente irriconoscente».

«È un’umiliazione essere debitore di un uomo dai natali tanto umili».

«Come sapevi che sarei stato alla taverna di Magno a quell’ora, Corvino?».

Con una risata di scherno, Corvino girò sui tacchi e se ne andò.

«Cos’era quella storia, caro ragazzo?», chiese Gaio, quasi urlando nel crescente tumulto.

«Quella storia, zio, riguardava un bastardo che rifiuta di essere morto. Credo che gli servirà un piccolo aiuto la prossima volta».

Vespasiano ebbe l’impressione che Nerone avrebbe presto fatto versare a Roma costanti fiumi di lacrime mentre, il mattino seguente, osservava l’imperatore afflitto, seguito da Britannico e Claudia Ottavia, portare lo scrigno contenente le ceneri di Claudio al mausoleo di Augusto. Situato sulla riva del Tevere a nord del Campo Marzio, il circolare edificio di marmo era sormontato da un tetto conico che sorreggeva la statua del grande uomo che l’aveva commissionato; era l’ultima dimora di tutti gli imperatori di Roma e di molti membri delle loro famiglie. Mentre Nerone passava sotto il cerchio di cipressi, proseguendo poi oltre le porte sorvegliate da due obelischi di granito rosa, Vespasiano pensò che l’ennesimo membro della famiglia giulio-claudia non era riuscito ad arrivare al termine della sua vita naturale; perfino di Augusto si diceva che fosse stato avvelenato dalla moglie Livia, per fare in modo che suo figlio Tiberio ereditasse, ed ecco che la storia si ripeteva, anche se stavolta era stata una piuma e non un fico il tramite del veleno.

Il corteo funebre sparì nell’oscurità dell’interno e le persone diedero sfogo al proprio cordoglio, non per la dipartita di Claudio, ma per la perdita subita dal nuovo imperatore.

Non si curarono di Britannico e Claudia Ottavia; avevano occhi solo per l’abbagliante Principe Aureo, come ormai era rimasto impresso nella loro mente. Piansero con lui adesso come avevano pianto con lui per tutta la mattina mentre aveva tenuto l’elogio funebre per Claudio dal podio accanto alla pira.

Circondato da attori che indossavano le maschere funebri della famiglia imperiale, aveva lodato Claudio per la sua cultura, la sua estensione dell’impero, il talento legale, tutto nei termini più vaghi, attento a fare in modo che le parole usate non facessero sembrare impossibile superare in breve tempo ciascuno dei risultati di Claudio.

I vizi e i malanni di Claudio erano stati dimenticati, così come i suoi figli naturali, le precedenti mogli, la potente madre, Antonia, e la nonna, Livia. Niente era stato detto che potesse mettere in ombra o in cattiva luce Nerone e Agrippina. Lei sedeva a un lato del podio, su un palco, in testa alle donne della mondanità romana, prime tra tutte Flavia e Cenis.

E il popolo aveva amato Nerone; lo aveva amato perché li spingeva a farlo con la sua personalità apparentemente aperta e la sua capacità di esprimere le emozioni. Ma coloro che lo conoscevano e coloro che lo avevano visto da vicino, come Vespasiano, capivano che si trattava solo di una recita, una facciata.

E così, mentre il Senato e il popolo di Roma prestavano giuramento al nuovo imperatore, una volta che fu emerso dal mausoleo dopo aver adempiuto al dovere nei confronti del predecessore, coloro che conoscevano la verità ripeterono la formula di rito con preoccupazione, chiedendosi cosa nascondesse il falso esterno e sperando che, qualsiasi cosa fosse, non li danneggiasse.

Tuttavia, alcuni, compreso Vespasiano, ricordavano bene ciò che il padre naturale di Nerone, Gneo Domizio Enobarbo, aveva detto nel ricevere le congratulazioni per la nascita del figlio: ovvero che un figlio suo e di Agrippina avrebbe avuto un carattere detestabile e sarebbe stato un pericolo pubblico. Fu con questa consapevolezza e la salda convinzione che l’impero non poteva tollerare un altro giulio-claudio corrispondente a quella descrizione che, una volta finita la cerimonia e salutato Nerone, Vespasiano si avviò alle stalle dei Verdi per incontrare Magno e Lucio, sorridendo tra sé e pensando a come tenersi al sicuro durante quello che sarebbe stato, come minimo, un regno imprevedibile.

«Be’, mi sembra che sia andata molto bene», disse Magno, mentre insieme a Vespasiano e Lucio attraversava il cortile rettangolare destinato all’esercizio dei cavalli, bordato di stalle e botteghe, nel cuore del complesso delle stalle dei Verdi. Guardò con ammirazione i cavalli che venivano addestrati, sia singolarmente che in equipaggi di due, tre o quattro. «Eusebio sembra un uomo molto ragionevole».

Vespasiano aveva difficoltà a convenire del tutto con quell’affermazione. «È un prezzo abbastanza giusto», disse a malincuore.

«Abbastanza giusto? I Verdi pagano il mantenimento e l’addestramento di cinque cavalli e tu finisci per tenerti il sessanta per cento delle vincite. Direi che è ben più che giusto, altroché».

«Io volevo il settantacinque».

«Tu volevi il novanta quando sei arrivato qui e, se io e Lucio non ti avessimo spiegato che una cifra del genere ti avrebbero fatto fare la figura dello stupido, saresti stato gettato fuori a calci in culo per la perdita di tempo. Nel modo più carino in cui si possa cacciare a calci in culo un senatore, ovviamente».

«Ovviamente. Ma adesso che l’affare è fatto, penso che me lo godrò».

«Allora sarà meglio che mantieni la promessa fatta a Malco», gli rammentò Magno, «altrimenti non ci sarà altro che sfortuna per il tuo equipaggio. In genere ci vogliono dai tre ai quattro mesi perché un equipaggio si adatti, perciò dovresti farlo entro febbraio. Non gareggeranno prima di allora». Serrò il pollice destro tra le dita della mano e sputò per precauzione contro un eventuale malocchio sui cavalli che sperava gli avrebbero fruttato una fortuna alla loro prima uscita.

«Lo farò nei prossimi giorni, fintanto che Pallante è soddisfatto di me e Nerone è di umore generoso. Ma prima devo andare al Foro a guardare il nostro nuovo imperatore cimentarsi con la diplomazia orientale». Varcate le porte delle stalle, lasciò a Lucio un piccolo pegno della sua gratitudine e, insieme a Magno, si avviò per il Campo Marzio, oltre il Circo Flaminio fino alla Porta Fontinale, all’ombra del Campidoglio, dove la Via Flaminia entrava in città.

«Come osi bloccarmi il passaggio!».

Vespasiano riconobbe all’istante la voce nella folla che ostruiva la Porta Fontinale.

«Sono stato convocato da Agrippina per porgere i miei omaggi al nuovo imperatore».

Vespasiano non vedeva Narciso ma la sua voce imperiosa, così avvezza al comando, era inconfondibile.

«Ho l’ordine di trattenerti qui, Narciso, fino all’arrivo del prefetto pretoriano».

Vespasiano, facendosi largo tra la folla per vedere cosa stava succedendo, pensò che quella fosse la voce di un centurione della coorte urbana al comando della sorveglianza della porta.

«Dovresti riferirti a me con il titolo di segretario imperiale, centurione». Il tono della voce di Narciso era calato; segno, Vespasiano lo sapeva bene, di minaccia mortale.

Ma il centurione non si fece intimidire. «I miei ordini sono di trattenerti qui mentre mando un messaggio al prefetto Burro e, nello specifico, di non usare il tuo ex titolo».

La faccia di Narciso tradì un’ombra di paura nel momento in cui Vespasiano riusciva a spingersi tra la folla per raggiungere il liberto, seduto in una lettiga a un solo posto. La sua espressione si illuminò nel vedere Vespasiano. «Devi aiutarmi a superare la porta, Vespasiano». Indicò le quattro guardie pretoriane che accompagnavano la sua lettiga, le quali oziavano al sole contro una delle tombe ai bordi della via Flaminia e non facevano alcuno sforzo per proseguire oltre. «La mia scorta si rifiuta di scavalcare questo…questo…». Si affannò a trovare un termine per descrivere il centurione. «Sottoposto».

Vespasiano percepì il panico crescente nell’onnipotente liberto di un tempo e, malgrado tutto quello che Narciso aveva fatto a lui e alla sua famiglia per tutto il tempo in cui era stato segretario imperiale, provò compassione per la sua difficile situazione. Tuttavia, sapeva che non poteva fare niente per salvare l’uomo senza mettere a repentaglio la propria sicurezza. «Ricordi, Narciso, dopo l’assassinio di Caligola, quando stavamo negoziando per la vita di mio fratello?».

Narciso aggrottò la fronte, sorpreso dal cambio di argomento. «Ebbene?»

«Mi hai chiesto quanto valesse una vita e io ho risposto che dipendeva da chi erano l’acquirente e il venditore».

«Sì, e io ho detto che le forze di mercato sono sempre attive. Cosa stai cercando di dirmi?»

«Pensavo fosse ovvio: le forze di mercato sono cessate nel tuo caso; non hai valuta con cui comprare. Adesso la tua vita non vale niente, Narciso».

«A meno che io non usi informazioni per cercare di comprarla. I miei registri; li ha Cenis, come sono certo che tu ormai sappia. Potresti cercare di negoziare con Pallante e Agrippina per conto mio, dopo aver eliminato tutto ciò che riguarda te e la tua famiglia, naturalmente». Gli occhi di Narciso brillavano di speranza. «Ci sono abbastanza informazioni per far giustiziare quasi tutto il Senato e un sacco della classe equestre».

La compassione di Vespasiano evaporò quando il greco prese in considerazione di comprare la propria vita con quella di centinaia di altri. «Pensavo che li avessi affidati a Cenis per nasconderli a Pallante e Agrippina».

«È così, in modo che potessi usarli in un momento come questo. Perciò vedi, Vespasiano, le forze di mercato sono ancora attive. Mi aiuterai?».

Vespasiano rifletté per qualche momento. «Cos’hai su Peligno e Corvino?».

Narciso lo guardò con aria complice. «Ah, capisco. Un giusto prezzo. Non molto su Corvino ma abbastanza su Peligno per vederlo morto. Quando l’anno scorso suo padre è morto, ha lasciato metà della sua tenuta a Claudio; saggia precauzione, come ben sai. Tuttavia Peligno ha falsificato il valore della tenuta in modo che Claudio ricevesse meno di un quarto del dovuto. È nei miei archivi».

«Bene. Preleverò quel documento prima che Cenis e io diamo alle fiamme il resto».

Narciso sbiancò per il terrore. «Darli alle fiamme? E io?»

«Narciso, pensavi davvero che avrei messo Agrippina nella posizione di avere potere di vita e di morte su più della metà degli uomini importanti di questa città? Nei prossimi anni sarà già abbastanza dura. Non voglio contribuire a uno sterminio. E, a proposito, ti sbagliavi sul suo conto. C’era Trifena dietro alla delegazione, ecco perché Pallante non ne sapeva niente».

«Come sai che Pallante non ne era a conoscenza?»

«Perché era curioso quanto te riguardo a cosa ho scoperto in Oriente».

«Hai continuato a lavorare per lui?»

«Ho assunto l’incarico da entrambi ma stavo lavorando solo per me stesso; si dà il caso che al mio ritorno fosse più vantaggioso condividere le mie scoperte con lui che con te».

«Razza di infido bastardo!».

«Ho imparato dal migliore, Narciso».

Una voce forte interruppe il loro scambio. «Tiberio Claudio Narciso!».

Vespasiano si voltò in direzione del grido e vide Burro varcare a grandi passi la porta, accompagnato da un centurione che reggeva un sacco. Narciso rinculò come se l’avessero preso a pugni.

Burro si fermò davanti alla lettiga. «Fuori!».

«Sono un cittadino romano e ho il diritto di appellarmi a Cesare».

«Lui lo sa e mi ha detto di riferirti che sei libero di esercitare tale diritto e lui sarà molto felice di commutare la condanna dalla decapitazione alle bestie feroci. La scelta sta a te». Burro sguainò la spada. «Centurione!».

Il centurione pretoriano infilò la mano nel sacco e ne tirò fuori per l’orecchio una testa mozzata.

«Il tuo ex collega ha deciso di non esercitare il suo diritto ad appellarsi», Burro informò Narciso, il quale fissava inorridito la faccia esangue di Callisto. «Se può consolarti, Nerone ha espresso rammarico per essere in grado di scrivere mentre firmava la tua condanna a morte».

Narciso si irrigidì; era come se avesse trovato nuova forza nella propria impotenza. «Dunque il massimo che posso sperare è una morte pulita». Uscì dalla lettiga, accettando con calma il suo destino.

«Li bruceremo tutti quanti, Narciso», gli assicurò Vespasiano.

«Hai ragione, è meglio così. Se fossi uno scommettitore, punterei il mio denaro sulla tua sopravvivenza, Vespasiano. E chissà dove potrebbe portare una vita lunga».

Venne avanti e si inginocchiò davanti a Burro, allungando il collo. «Non c’è altro da dire, la mia vita è al termine».

Fu rapido e pulito. La spada rifletté il sole quando fu sollevata e mandò un lampo quando Burro la calò. Con un respiro collettivo da parte della folla e un breve grugnito di Narciso, affondò nella pelle, nella carne e nell’osso, in un fiotto di sangue; la lama era così affilata che il braccio di Burro quasi non ebbe sussulti quando recise la testa dalle spalle, facendola rotolare ai piedi dei quattro pretoriani appoggiati alla tomba. Il corpo rimase inginocchiato, rigido, per qualche momento, sgorgando il suo contenuto in grossi zampilli mentre il cuore continuava a battere, indebolendosi a ciascuna contrazione. I muscoli delle cosce presto cedettero e il guscio di quello che era stato un tempo l’uomo più potente dell’impero si afflosciò in avanti, morto all’ingresso della città che aveva dato a lui, ex schiavo, libertà, ricchezza, influenze e, adesso, una sanguinosa esecuzione.

«Portatelo via!», ordinò Burro ai quattro pretoriani.

Vespasiano guardò la faccia di Narciso quando la sua testa fu raccolta da terra: gli occhi erano ancora aperti. Ricordò che il greco aveva costretto Sabino a giustiziare Clemente, suo cognato, come parte dell’accordo che gli avrebbe risparmiato la vita; sorrise per l’adeguatezza del castigo e poi, mentre la testa veniva portata via, i suoi occhi si posarono sulla tomba fino a quel momento nascosta dai pretoriani. La osservò per qualche istante e poi scoppiò a ridere.

«Cosa cazzo c’è di così divertente?», domandò Magno.

Vespasiano indicò la tomba e lesse l’iscrizione. «Valerio Messalla».

«E allora?»

«Anche dalla tomba quell’arpia è riuscita a vendicarsi di Narciso per aver ordinato la sua esecuzione. Agrippina non ha permesso che venisse sepolta nel mausoleo di Augusto, così l’hanno messa nella tomba di famiglia. Narciso è stato giustiziato accanto all’ultima dimora di Messalina».

Magno soffiò tra i denti. «A volte bisogna dare atto agli dèi per il loro senso dell’umorismo».

«Suppongo che questo sia il modo di Pallante di fare per Nerone quello che lui e Narciso fecero per Claudio con l’invasione della Britannia, caro ragazzo», osservò Gaio mentre guardavano la delegazione armena avvicinarsi al tribunale rialzato nel Foro romano, dove l’imperatore, seduto sulla sedia curule, aspettava di dare il primo giudizio pubblico del suo regno. Pallante, Seneca e Burro stavano accanto al tribunale, tutti pronti a offrire consigli al loro protetto. «Un’invasione in piena regola dell’Armenia, piuttosto che quelle svogliate che abbiamo avuto finora».

«È ciò che aveva in mente Trifena», convenne Vespasiano. «Solo che dubito che suo nipote Radamisto sia riuscito a tenersi stretto il potere se Vologase ha fatto quello che intendeva fare».

Quando la delegazione di dieci armeni barbuti si avvicinò a Nerone portando ricchi doni, ci fu fermento nella folla. Dall’altro lato del Foro, circondata da vergini vestali, giungeva Agrippina. Tutti quelli che la videro emisero un verso di sorpresa. Aveva i capelli acconciati in alto sul capo, scintillanti di gioielli; la stola porpora le ricadeva fino alle caviglie e brillava come fatta di seta. Ma non furono questi dettagli a provocare tanto subbuglio: la sua palla era di un bianco puro, color gesso, e recava una larga striscia porpora, a imitazione di una toga senatoriale, e nella mano destra stringeva un rotolo come se fosse in procinto di tenere un discorso. Dietro di lei veniva uno schiavo con una sedia curule.

«Andrà a sedersi accanto all’imperatore e riceverà la delegazione come se fosse un uomo», disse Vespasiano quando la portata dell’ambizione di Agrippina divenne evidente.

«Oh cielo, caro ragazzo, oh cielo». Le mascelle e i menti di Gaio tremolarono di sdegno al pensiero di una donna tanto sfacciata. «Sarebbe la fine: donne che prendono decisioni in pubblico, inconcepibile».

Seneca e Burro evidentemente condividevano la sua opinione; si rivolsero a Nerone mentre Agrippina si avvicinava sempre di più. Pallante si unì ai due consiglieri, dando quella che parve un’opinione contraria e, dopo un breve ma acceso dibattito, fu rimproverato dall’imperatore, che si alzò dal suo posto e inclinò il capo rivolto a Seneca e Burro.

Quando Agrippina giunse in prossimità del tribunale, Nerone scese i pochi gradini e la raggiunse in fondo. «Madre! Come sei buona a venire a sostenermi». La abbracciò e la baciò, facendo grande sfoggio di affetto filiale per scaldare i cuori della folla. «Laggiù sarebbe per te il posto migliore da cui assistere». Le tenne il gomito in una salda presa e la allontanò dai gradini mentre Seneva faceva segno allo schiavo con la sedia di metterla giù, accanto al tribunale. Agrippina, con un sorriso fisso sul volto, lasciò che Burro la facesse sedere con grande cortesia mentre Pallante indietreggiava, dissociandosi da quella lotta per la precedenza. Gli occhi di Agrippina guardarono torvi prima suo figlio, che risaliva i gradini del tribunale, e poi Seneca e Burro.

«Penso che Agrippina abbia appena dichiarato guerra al figlio e ai suoi due consiglieri», osservò Vespasiano rivolto allo zio.

«Ho visto anch’io l’occhiata, caro ragazzo, e quella è una lotta che una donna non può vincere; neanche quella donna lì. Penso che i giorni di Pallante siano contati».

Vespasiano annuì adagio. «Sì, ormai è giunto il tempo di Seneca».

«Sono felice che abbiamo finalmente la possibilità di incontrarci», disse una voce mentre Vespasiano pensava al modo migliore per approcciare Seneca.

Si voltò e vide un omone che si era fermato accanto a lui. «Carataco!».

«Non ho ritenuto di invitarti a cena, Tito Flavio Vespasiano, essendo io un semplice pretore e tu di rango consolare».

Vespasiano prese il braccio che gli offriva il vecchio avversario e lo strinse con decisione. Fu come stringere un ramo di quercia. «Devo chiederti scusa, Tiberio Claudio Carataco, per aver omesso di porgere i miei omaggi, ma sono certo che tu sappia…».

«Sei tornato solo da pochi giorni, e sono stati movimentati. È un periodo triste per tutti noi».

Vespasiano rimase sorpreso da quell’affermazione. Non capiva se Carataco si riferisse alla morte di Claudio o all’ascensione di Nerone e decise di astenersi da qualsiasi replica. «Sono sicuro che abbiamo molto di cui parlare riguardo la conquista della Britannia».

«Una conquista che è ben lontana dall’essere conclusa».

«Lo credo anch’io; sarebbe un’interessante conversazione». Nerone si alzò in piedi per accogliere ufficialmente gli armeni e Vespasiano abbassò la voce. «Presto farò un giro delle mie tenute e in quelle di mio fratello. Dovrei essere di ritorno dopo i Saturnalia, alla fine di dicembre. Ceneremo insieme allora».

Carataco inclinò il capo. «Sarà un piacere, Vespasiano», disse prima di scomparire di nuovo nella folla.

I discorsi erano stati lunghi e formali e l’interesse della gente era ormai svanito quando il sole era tramontato e la folla si era diradata in modo evidente. Con un occhio alla possibilità di perdere del tutto il suo pubblico, Nerone interruppe l’ultimo dei delegati armeni nel bel mezzo di un appassionato discorso sull’amore del proprio regno per Roma e per il nuovo imperatore di Roma e sull’odio per tutto ciò che era partico; cosa che, considerato il suo abbigliamento orientale, fece inarcare più di un sopracciglio.

Non appena fu chiaro che Nerone stava per parlare, il chiacchierio di sottofondo contro cui erano stati costretti a combattere i delegati armeni, si spense all’istante. L’Imperatore Aureo si alzò in piedi e con grazia indicò agli armeni di alzarsi dalla posizione prona che avevano spontaneamente assunto. Per un po’ Nerone finse di aver preso in considerazione tutto ciò che aveva ascoltato, grattandosi la morbida barba, sfregandosi la nuca con espressione afflitta e poi guardando al di sopra delle teste del suo pubblico adorante, cercando ispirazione da lontano.

«Ho preso la mia decisione», annunciò infine. «Questa età aurea avrà la pace e presto potrò chiudere le porte del tempio di Giano. Ma prima che questo accada, avremo la guerra!». Stava con una mano in aria e l’altra sul fianco, il ritratto marziale di un generale che arringava le truppe, e la folla espresse con un boato la sua approvazione. La ridusse al silenzio con un gesto della mano alzata. «Perseguirò questa guerra in modo deciso e fattivo e non alla maniera confusionaria e svogliata di mio padre, che, malgrado le tante qualità, non si poteva definire marziale». Quando la folla acclamò il proprio consenso, Nerone fece segno a Burro di consegnargli la spada. Nerone la sollevò in aria. «Darò a Gneo Domizio Corbulone, il generale più competente che abbiamo in Oriente, pieni poteri di risolvere la questione armena e ricacciare i parti nella loro patria. Farà rapporto solo a me e avrà il beneficio dei miei consigli.

«E in questo modo mi occuperò dei nostri problemi esterni, salvaguardando la santità dei confini di Roma; ma, nel frattempo, volgerò i miei sforzi anche a un’infestazione interna: mi è stato riferito che stamattina qualcuno si è rifiutato di prestare il suo giuramento a me, il vostro imperatore. Queste persone, mi informa Lucio Anneo Seneca, non riconoscono me come la suprema autorità dell’impero ma un criminale crocifisso chiamato Cresto. Trovateli per me, popolo di Roma; stanateli e conduceteli al mio giudizio e condanna. Insieme, mio popolo, insieme combatteremo i nostri nemici interni ed esterni e insieme saremo vittoriosi».

Vespasiano guardò Gaio mentre il popolo urlava il suo amore per l’Imperatore Aureo; sorrise. «Adesso li ha uniti contro nemici comuni sia interni che esterni, zio. Consoliderà la sua posizione e a quel punto vedremo come gestisce il potere assoluto».

«Ne sono certo, caro ragazzo. Preghiamo gli dèi delle nostre case di non vederlo troppo da vicino».

«L’ho trovato!», esclamò Cenis, porgendo a Vespasiano un rotolo chiuso. «È tutto qui dentro: la clausola, l’ammontare del lascito e poi la valutazione originale della tenuta del padre di Peligno, così com’è registrata nel testamento depositato presso le vestali. Ne specifica le vere dimensioni in termini di terreno, beni, schiavi e denaro. Narciso deve averlo fatto rubare».

«O ha pagato le vestali per averlo». Vespasiano lesse il rotolo, mentre il fumo del rogo gli finiva di tanto in tanto negli occhi. «Ma questo non ci dice quanto è stato pagato all’erario imperiale».

«Non ce n’è bisogno. Tutti i lasciti sono registrati e archiviati presso l’erario; devi solo chiedere a Pallante di fare un controllo incrociato tra quanto ha ricevuto Peligno e quanto è scritto negli archivi».

Vespasiano guardò le stime, fece qualche calcolo e fischiò. «Ho calcolato un valore totale di venti milioni di denarii, il che significa che Claudio avrebbe dovuto riceverne dieci. In realtà ne ha avuto solo un quarto. Peligno ha truffato l’imperatore di sette milioni e mezzo. Sarà perfetto». Sbatté il rotolo sul tavolo in giardino.

Cenis indicò il resto dei documenti di Narciso che non avevano ancora letto. «Vuoi continuare a cercare?».

Vespasiano vi diede un’occhiata e poi guardò il fuoco che consumava gli altri rotoli. «Bruciali, amore mio. Ho trovato quello che mi serve su Peligno e abbiamo qualche altra cosa utile da sbrigare. Se ne teniamo troppi, qualcuno potrebbe capire cosa ne ha fatto Narciso dei suoi archivi».

Cenis fece segno al suo maggiordomo di continuare ad alimentare il fuoco. «Come hai intenzione di spiegare a Pallante il fatto che sei in possesso di una stima originale che era stata depositata presso le vestali?»

«Non lo farò e neanche la darò a Pallante, dal momento che ho l’impressione che il suo tempo stia per finire. La userò per ottenere il favore di Seneca. Così sarà più che felice di convincere Nerone a concedere la cittadinanza a Malco e poi, immagino, troverà un accordo con Peligno, affinché questi paghi la differenza di quanto gli deve in cambio del suo silenzio sulla faccenda».

«Pensavo che lo volessi morto».

«È così, ma potrebbe essere divertente mandarlo prima in rovina; vediamo quanto gli piacciono due anni senza niente, come è stato per me». Si alzò in piedi, sorridendo a quell’idea.

«Fa’ preparare i bagagli, amore mio. Domani partiamo per la mia tenuta di Cosa, dopo che avrò visto Seneca».