CAPITOLO IX
Le frecce caddero incessanti, facendo sprizzare piogge di scintille dalle mura di pietra, dai camminamenti e dalle strade lastricate sottostanti. Una scarica di ferro e legno che risultò fatale solo a pochissimi, abbastanza imprudenti da alzare lo sguardo e quindi abbastanza sfortunati da ricevere una freccia nell’occhio o nella gola. Per il resto della guarnigione sulle mura, le scariche iniziali furono poco più che una seccatura poiché, una volta solcato il cielo dell’alba in direzione della città, erano già fiacche e di pauroso avevano solo l’aspetto e il rumore. Se trafiggevano un braccio o una gamba scoperti, penzolavano flosce dall’arto e potevano essere estratte con il minimo dolore e poco sangue. Alla popolazione cittadina non causarono problemi, poiché pochissime caddero a più di dieci passi oltre le mura, tanta era la distanza.
Ma Babak non voleva che gli arcieri coscritti provocassero una strage; voleva preservare vite, quelle degli stessi coscritti, fino a che non avesse ritenuto opportuno sacrificarle. Mentre scoccavano le loro frecce, ciascuno con i propri tempi, i coscritti avanzavano, i pochi più coraggiosi spontaneamente, ma la maggioranza con la frusta e la punta di spada e lancia dei loro ufficiali, che con la forza li incalzavano all’azione.
E poi la cavalleria cominciò a schierarsi in lunghe linee di arcieri a cavallo e profondi blocchi di lancieri in formazione più serrata. Quando, al sicuro dietro al parapetto e ancora con Peligno tra le grinfie, sbirciò nello spazio tra i merli, Vespasiano capì cosa aveva fatto la cavalleria pesante dopo essere smontata: come Babak aveva detto, si erano vestiti per la battaglia. Erano spariti i calzoni vivaci, le tuniche ricamate, gli elaborati copricapi e le sgargianti bardature e al loro posto c’erano corazze di ferro brunito e bronzo, entrambe di placche laminate e cotta di maglia che coprivano interamente il cavaliere, così come la testa, il collo e il garrese dell’animale. Poiché potevano marciare solo per una breve distanza in tenuta completa da combattimento, se non volevano crollare sfiniti, la loro armatura veniva trasportata nei carri coperti. Vespasiano aveva sentito parlare dei cavalieri catafratti, così gravati da tutto quel metallo che potevano andare alla carica solo al trotto, fianco a fianco, senza bisogno di scudo e facendosi largo con i loro kontoi, le lance lunghe dodici piedi, ma non si era aspettato di vederli schierati lì. Ma, nel nome di Marte, cosa potevano mai ottenere su una collina davanti a una città cinta di mura?
La risposta a questa domanda, tuttavia, era vicina; Vespasiano vide la mandria di coscritti percorrere i duecento passi di terreno aperto tra le linee d’assedio e le mura. Le frecce continuavano ad arrivare a migliaia ma, malgrado l’inferiore gittata, l’accuratezza dei lanci non migliorava, anzi erano sempre più quelle che volavano alto o finivano contro le mura, puntate frettolosamente man mano che l’avanzata andava dal passo alla corsa leggera. Le urla di guerra aumentarono in proporzione alla velocità dei soldati, crescendo in tonalità e ansia quando il terrore per ciò che li aspettava cominciò a superare la paura causata dagli ufficiali che li incalzavano.
Vespasiano alzò la testa e arrischiò una rapida occhiata a est e ovest prima che una freccia gli passasse accanto sibilante mancandolo per un pelo. Niente si muoveva a entrambi i lati; solo il muro meridionale era sotto attacco e capì all’istante perché. «Mannio!», gridò al prefetto che si riparava qualche passo più in là. «Sono interessati solo a noi. Manda messaggeri alle altre tre sezioni di mura e di’ loro di non venire in nostro aiuto: è quello che starà sperando Babak. Devono restare dove sono in ogni caso. E di’ a Fregallano di portare su metà della sua coorte nella remota possibilità che ci serva un po’ di aiuto. Ormai dovrebbero avere pronti l’olio e la sabbia bollenti».
Mannio fece il saluto.
«Oh, e procuraci degli scudi, potrebbero esserci utili».
Ghignando a quell’eufemismo, il prefetto inviò le sue staffette prima di ordinare agli ufficiali di tenere pronti i loro uomini.
Lungo le mura meridionali, centurioni e optiones urlarono ai rispettivi uomini curvi sotto gli scudi di prepararsi a lanciare il primo dei tre giavellotti; gli ausiliari sollevarono le armi da lancio, più leggere dei pila in dotazione ai legionari ma con gittate maggiori, e aspettarono, cupi alla prospettiva del combattimento. Pochi arcieri della milizia urbana pronti tra gli ausiliari sulle mura meridionali scoccarono tra i merli contro la massa in arrivo, ma erano così pochi che fecero meno danni degli uomini che aizzavano l’attacco da dietro con spade, lance e fruste.
Quando l’orda raggiunse una distanza di cento passi, la cavalleria catafratta cominciò ad attraversare le linee d’assedio e a schierarsi dietro i coscritti e davanti alla cavalleria leggera. Con un sussulto, Vespasiano capì per cosa venivano usati e perché. «Sono lì per impedire alla fanteria di ritirarsi».
Magno strizzò il suo unico occhio. «Cosa? Li spingeranno contro il muro sperando che lo abbattano?»
«No, vedo le scale. Tenteranno una scalata».
Peligno lanciò uno strillo e si liberò dalla stretta di Vespasiano, precipitandosi a scendere i gradini.
Magno fece per andare a riprenderlo ma ci ripensò. «Solo a questa parte delle mura?»
«Sì. Babak sta cercando di allontanare i soldati dalle altre sezioni».
«Deve pensare che tu sia uno stupido».
Vespasiano estrasse il gladio dal fodero, saggiandone il peso nella mano. «No, lui pensa che al comando ci sia Peligno».
Un giovane ausiliario arrivò di corsa con tre scudi. «Adesso ce ne servono solo due, ragazzo», disse Magno, prendendone uno per sé e consegnando l’altro a Vespasiano. «Il procuratore si è appena ricordato di alcuni documenti urgenti che richiedono la sua immediata attenzione».
Sotto lo sguardo di Vespasiano, la velocità dell’avanzata, a cinquanta passi, diventò una corsa e adesso le grida di guerra erano più urla isteriche che marziali; le scale ora si vedevano bene ma le scariche di frecce si erano attenuate. Vespasiano si irrigidì, preparandosi a quanto sapeva sarebbe seguito, e rivolse una preghiera a Marte perché vegliasse su di lui e gli facesse superare indenne quel primo combattimento da quando aveva lasciato la Britannia cinque anni prima. Quella mattina si era reso tristemente conto di quanto fosse stretta la corazza quando l’aveva indossata e sperò che il peso extra non rallentasse anche lui…
«Lanciate!». Il grido di Mannio riscosse Vespasiano dalle sue riflessioni. Mentre l’ordine veniva ripetuto da ogni parte lungo le mura da centurioni e optiones, gli ottocento ausiliari della i Bosporanorum si alzarono in piedi e, con un unico agile movimento, scagliarono i loro primi giavellotti verso la serrata massa di coscritti inermi, protetti solo da leggerissimi scudi di vimini. I veloci dardi dalla punta di ferro si abbatterono su un bersaglio certo, conficcandosi nei petti e nei volti scoperti di uomini che, solo un paio di mesi prima, erano stati costretti ad abbandonare fattorie e botteghe per combattere per una causa che non capivano, contro un popolo che non conoscevano. E caddero, le loro terrorizzate grida di guerra ben poco diverse dalle urla di dolore e sofferenza in cui si trasformarono quando il sangue esplose da orribili squarci che il ferro aprì in torsi, colli, arti e teste. Braccia volarono in alto su corpi trafitti e piegati all’indietro, come nella macabra recita di una caduta; il sangue sprizzava assecondando il movimento e i lineamenti si distorcevano per il dolore in rictus ghignanti, con i denti scoperti e gli occhi strabuzzati, mentre crollavano al suolo e sparivano, calpestati dai piedi di chi veniva dietro, i quali, per quanto lo desiderassero, non erano in grado di fermarsi per via dello slancio dell’orda spaventata e fatta avanzare a suon di frustate e colpi di lancia. I piedi restavano impigliati negli arti dei feriti che si dimenavano e fremevano o nelle aste delle armi che li trafiggevano, condannando così uomini fino ad allora illesi a condividere l’orribile morte dei compagni urlanti quando, un istante dopo, gli ausiliari della i Bosporanorum tirarono indietro il braccio destro per la seconda volta brandendo un nuovo giavellotto.
Ma non uccisero indisturbati; come dal nulla, apparvero aste impennate negli occhi e nella gola di più di una ventina di ausiliari mentre scagliavano nuovi proiettili. Altre aste colpirono gli scudi, vibrando per l’impatto, e altre ancora rimbalzarono sulle cotte di maglia, lasciando dolorose ammaccature sulla pelle intatta sottostante. Gli arcieri a cavallo erano entrati nella mischia e, capaci di gestire le loro bestie e le armi, avevano una buona mira. Tuttavia, più di settecento giavellotti piombarono su quel branco di uomini, adesso a meno di quindici passi dalle mura, così che il terrore nei loro occhi era ben visibile ai difensori. I soldati presero coraggio man mano che sempre più nemici cadevano sul terreno sul quale avrebbero lasciato la loro vita mentre lo trasformavano in fango con il sangue e l’urina. Con la gioia della battaglia che cresceva dentro di loro, gli uomini della i Bosporanorum presero il terzo e ultimo giavellotto.
Tuttavia, gli arcieri a cavallo erano veloci e più vicini adesso e numerosi ausiliari volarono all’indietro, come se qualcuno li avesse tirati, accasciandosi sul camminamento o ruzzolando sulla strada con l’arma ancora in pugno. Ma la maggior parte dei loro compagni estrasse la dritta spatha dal fodero dopo aver mietuto le ultime vittime a lunga distanza, pronti a cominciare il massacro corpo a corpo. E poi le scale, decine e decine, furono innalzate e sbattute contro le mura, per essere respinte dai difensori; ma per una che ne cadeva sembravano apparirne due, tanti erano i nemici. Gli arcieri a cavallo continuarono a puntare, quasi senza fallire, alle teste che spuntavano dalle mura mentre gli ausiliari tagliavano e spingevano le cime delle scale nel tentativo di farne cadere il più possibile, prima che il peso dei corpi su di esse rendesse l’impresa impossibile. Altri difensori caddero urlando, morti, moribondi o feriti dalle guizzanti aste impennate. Vespasiano e Magno si unirono all’affannoso tentativo di respingere la scalata, spingendo le scale che continuavano a innalzarsi dal basso; malgrado gli ausiliari avessero lanciato quasi duemila giavellotti contro il nemico, gran parte dei quali era andata a segno, quel branco continuava ad avanzare, raggruppandosi ai piedi delle mura, spinto da un nuovo terrore alle spalle: un solido muro armato a cavallo, intervallato da punte di lancia. Quelli più vicini ai catafratti si facevano largo a furia di spintoni e calci per sfuggire alle aste mortali e agli zoccoli implacabili, così che quelli più vicini alle difese erano costretti a scegliere tra una morte certa schiacciati contro le mura o una probabile morte trafitti dalle lame dei difensori, venti piedi più in alto.
E così quel gregge umano cominciò a salire sulle scale.
«Dove sono l’olio e la sabbia?», urlò Vespasiano a Mannio mentre cercava di spingere via una scala che si era abbattuta sul muro davanti a lui.
Il prefetto si rivolse a un centurione, che mandò un uomo di corsa giù per i gradini.
Vespasiano rinunciò a smuovere la scala, adesso tenuta saldamente al suo posto da tre sventurati coscritti che non avevano altra scelta se non salire o cadere; guardò nei loro occhi terrorizzati, digrignò i denti e, stringendo forte l’elsa della spada, la sollevò dietro lo scudo, pronto a usarla. Un paio di frecce piombarono sul legno coperto di cuoio, facendogli tremare il braccio per l’improvviso impatto. Vespasiano ruotò le spalle per sciogliere i muscoli. Magnò ringhiò accanto a lui, preparandosi alla foga della battaglia; il suo unico occhio guardava torvo il nemico con la stessa feroce intensità dell’inanimata copia di vetro. E il nemico venne avanti, costretto inesorabilmente in alto dalla calca sottostante; affannandosi a reggersi alla scala che sobbalzava e si muoveva al diverso ritmo dell’ascesa di ciascun uomo, i coscritti urlarono di terrore alla prossimità della morte che li aspettava sulle mura o dabbasso. Ma l’istinto ebbe il sopravvento: cadere nella calca sottostante significava morte certa, ma c’era una piccola probabilità di sopravvivenza sulle mura e loro vi si aggrapparono, riprendendo a salire con determinazione. Lungo tutte le difese, a entrambi i lati di Vespasiano e Magno, lo sciame nemico montava innumerevoli scale che si ergevano dalla formazione compatta come aculei sul dorso di un porcospino arrabbiato.
«Fermate quei bastardi, ragazzi!», ruggì Vespasiano al di sopra delle urla agli uomini attorno a sé, mentre un’altra freccia colpiva il suo scudo. Si puntellò sui piedi, con la gamba sinistra in avanti e, curvando le spalle, fissò lo sguardo sulla scala che spuntava tra i merli. Il suo mondo si rimpicciolì mentre era pienamente concentrato e vide il copricapo del primo uomo in cima alla scala. Con un ringhio crescente, si lanciò in avanti e conficcò la punta della spada tra i denti che si fracassarono e giù per la gola del barbuto coscritto nello stesso preciso momento in cui una punta di freccia insanguinata esplodeva dall’orbita destra dell’uomo in uno spruzzo di sangue e umori. Gli arcieri a cavallo non avevano cessato le loro scariche mentre i coscritti raggiungevano la cima delle scale.
«Quei fotti-cavalli continuano a scoccare!», inveì Magno indignato quando un’asta gli passò sibilante accanto al braccio armato, che affondava senza sosta in avanti. «Stanno uccidendo i loro stessi uomini».
«E i nostri», gridò Vespasiano. Guardò a sinistra mentre tirava via la spada dalla bocca del partico ucciso, che ricadde a peso morto sui suoi ex compagni. Per respingere la scalata, gli ausiliari si esponevano all’attacco continuo degli arcieri a cavallo e non erano pochi quelli caduti. «Possono permettersi di ucciderne dieci dei loro per ciascuno dei nostri».
Ed era su questo che Babak contava: costringere i difensori a esporsi mentre impedivano ai coscritti di guadagnare le mura e lasciare che la pioggia di ferro appuntito continuasse a cadere su di loro. Decimare quel gregge umano era un danno collaterale in vista del più grande obiettivo di assottigliare la resistenza sulle difese meridionali e di richiamare rinforzi dalle mura ancora non assaltate.
I coscritti continuavano a salire, costretti dall’impossibile pressione in basso e la scarica di frecce continuava ad abbattersi sia sui parti che sugli ausiliari romani. Lo scudo di Vespasiano risuonava sotto i colpi, tonfi vuoti e irregolari, che gli rimbombavano nelle orecchie, mentre lo teneva ben saldo davanti sé e menava fendenti con la spada insanguinata a quei parti tanto fortunati da guadagnare le mura senza essere stati trafitti. Venti passi alla destra di Vespasiano, lungo le difese, dove le scale erano più numerose, un gruppetto di coscritti era riuscito a guadagnare un appiglio, respingendo gli ausiliari, perché erano numerosi e non perché in possesso di particolari doti militari. Quel gregge umano urlava la sua paura e colpiva i veri soldati che li circondavano con spade di pessima qualità, che cedevano o si spezzavano quando si scontravano con la spatha ausiliaria regolamentare. I difensori li incalzarono con gli scudi, radunandoli in un gruppo compatto che divenne sempre più serrato quando altri coscritti completarono l’ascesa e furono costretti dalla pressione proveniente dal basso a saltare urlanti nella mischia. Spade guizzarono tra gli scudi degli ausiliari, aprendo ventri e arterie mentre quelli intrappolati si affannavano inutilmente a difendersi in circostanze così proibitive.
Tuttavia continuavano a sciamare su per le scale, aumentando la pressione e infoltendo il gruppo, malgrado il massacro a cui venivano sottoposti. Adesso morivano a un ritmo più lento e venivano sostituiti più in fretta e così il punto di appoggio crebbe e i morti presto divennero i salvatori dei vivi: infatti restavano dritti in piedi, schiacciati contro gli scudi degli ausiliari, le cui spade non riuscivano più a raggiungere l’obiettivo. Per qualche miracolo, i coscritti stavano facendo progressi e i difensori che li avevano davanti furono costretti a saltare giù dal camminamento, storcendosi una caviglia o rompendosi una gamba nell’atterrare sul lastricato in basso. Lasciarono così solo pochi compagni, una formazione larga quattro uomini e profonda due, curva e tesa dietro gli scudi, a respingere la crescente invasione.
«Fermi lì», ordinò Vespasiano agli ausiliari alla sua sinistra, accertatosi che fossero in grado di difendere la posizione. «Magno, con me!». Si lanciarono sul camminamento, oltre una dozzina di scontri isolati nei quali i difensori stavano respingendo i coscritti attraverso gli spazi tra i merli – o per lo meno impedivano loro di avanzare – e giunsero al margine esterno della crescente mischia, confinante con il parapetto attraverso e oltre il quale il nemico si riversava in città. In alto sibilavano le frecce degli arcieri a cavallo, i cui comandanti, resisi conto che l’avanzata, che non doveva essere impedita massacrando quei disperati che la portavano avanti, si svolgeva su quel settore delle mura, avevano pertanto ordinato ai loro uomini di mirare dentro alla città.
«Indietro!», urlò Vespasiano agli ausiliari tirando un paio di spalle. «Fatevi indietro di quattro passi e date loro spazio».
Gli ausiliari obbedirono al comando, anche se andava contro l’istinto marziale di incalzare il nemico, e si fecero indietro. L’improvviso allentarsi della pressione liberò i corpi ciondolanti, schiacciati contro il muro di scudi, e questi scivolarono a terra lasciando scie di sangue sui fregi di lune e stelle. I coscritti esultarono alla ritirata del nemico e poi vennero spinti in avanti, inciampando sui corpi dei compagni massacrati; caddero ai piedi degli ausiliari, preda immediata delle affilate punte delle spade che lacerarono colli e schiene, affondando tra vertebre e muscoli in zampilli e fiotti di sangue e urla strazianti.
«Adesso avanti!», gridò Vespasiano, lanciandosi in prima fila, gli occhi ridotti a due fessure e le labbra ritratte in un ringhio sanguinario. «Magno, seguici con tutti gli uomini che puoi e chiudi i varchi!».
Vespasiano e il suo piccolo gruppo calpestarono i morti e, senza ostacoli tra le spade e la carne viva dei nemici intrappolati come le bestie a cui somigliavano, ripresero la carneficina, stavolta attenti a non avanzare con troppa foga e formare così una barricata di cadaveri rimasti in piedi. Vespasiano provò ancora una volta la gioia di brandire la spada; mieteva vittime a ogni combinazione di affondo, rotazione ed estrazione dell’arma, puntava saldo il piede in avanti e spingeva con l’umbone dello scudo mentre liquidi e materia umana gli schizzavano su gambe e piedi, caldi e collosi tra le dita, emanando un terribile fetore e creando una superficie pericolosamente viscida. Continuavano a pressare, costringendo numerosi parti a saltare dal camminamento e a tentare la sorte, con un arto fratturato, nella strada sottostante piuttosto che affrontare le quattro lame che spuntavano, all’altezza di inguine, petto o ventre, dal solido e basso muro di scudi, insanguinate e letali. Magno e gli ausiliari che seguivano si occupavano dello spazio tra i merli, gettando giù uomini con le gole squarciate e le orbite vuote che lanciavano il loro ultimo grido, mentre si abbattevano sul crescente mucchio di corpi mortalmente feriti e privi di vita.
Dalla direzione opposta, gli altri ausiliari presero coraggio dall’avanzata dei compagni e tennero gli scudi saldi, con cadaveri sventrati premuti contro di essi, creando una solida barriera che non dava scampo agli sventurati coscritti che imploravano a divinità cieche mentre la vita veniva strappata dai loro corpi squarciati.
Il respiro di Vespasiano divenne affannoso per la fatica, ma si costrinse a continuare, restio a rinunciare alla gioia del massacro che non provava da tanto, impegnato com’era a districarsi dalle spire della politica imperiale, gestita da uomini che non avrebbero mai vissuto intensamente quanto lui in quel momento. Sangue dal sentore ferroso, urina, feci, sudore e paura gli intasavano il naso e il clangore delle armi, le grida di feriti e moribondi, tra vincitori e sconfitti, gli risuonavano striduli nelle orecchie. Ma poi un nuovo odore si affacciò alla sua mente concentrata, accompagnato da un nuovo suono: fumi acri e impatti distruttivi. Vespasiano indietreggiò per lasciare che un soldato dalla seconda linea prendesse il suo posto e, guardando in alto, vide un vaso di terracotta che lasciava una scia di fuoco e fumo nero. Ne seguì la traiettoria e lo guardò abbattersi sull’angolo di un tetto nel secondo livello della città, esplodendo in un inferno di fiamme che risucchiò tegole e muri come se anch’essi stessero bruciando. Si girò e vide un ausiliario fissare pietrificato per un istante l’orrore nel cielo, prima che la testa dell’uomo si disintegrasse in uno sbuffo di sangue, carne, cervello e ossa frantumate, lasciando il corpo in piedi, rigido, per un paio di sanguinosi istanti, per poi crollare al suolo continuando a disfarsi.
L’artiglieria partica era entrata nella mischia e stava scagliando fuoco e pietre.
«Che cazzo è quella?», sbuffò Magno quando un’altra scia ardente sibilò in alto.
«Nafta», gli urlò di rimando Vespasiano, sbattendo la punta della spada in faccia a uno degli ultimi coscritti feriti rimasti vivi sul camminamento. In ogni direzione lungo le mura, la lotta per tenerli lontani continuava in una maniera brutale, che a Vespasiano adesso parve ordinaria, dopo una scena di tale violenza. «Trifena mi aveva avvertito; ha detto che sono le uova di un dio orientale delle acque».
«Stronzate, le uova non bruciano, vengono deposte nell’acqua». Magno si abbassò involontariamente quando sentì lo spostamento d’aria di un colpo sopra la testa.
Vespasiano vide finalmente ciò che aspettava e si girò verso l’amico; un ghigno si apriva sulla faccia schizzata di sangue. «È un dio del fuoco che vive in acque che non spengono le sue fiamme, perciò è naturale che le sue uova non brucino».
«Oh, il fuoco del dio del fiume», disse Magno, osservando sfrecciare un altro missile fumante. «Lo conosco. È roba utile».
La sorpresa di Vespasiano nel sentire quelle parole di Magno fu mitigata da un gradito spettacolo. «Ma adesso combatteremo il loro fuoco con il nostro calore».
In quel momento, squadre di ausiliari della coorte di Fregallano, guidate da un centurione, arrivarono di corsa dalla strada con calderoni di ferro issati su solide barelle di legno isolate da cuoio bagnato. Fecero i gradini due alla volta e il centurione salutò.
Vespasiano non attese il suo rapporto. «Tutto qui?», chiese, contando una dozzina di vasi.
«No, signore, questo è solo il primo carico. Sono in arrivo almeno altri sei come questo».
«Molto bene, centurione. Cominceremo da questo settore». Indicò un merlo sotto il quale erano accovacciati due ausiliari che facevano a turno per respingere un interminabile fiume di coscritti; lungo tutte le mura erano in atto scene simili, con i difensori che si tenevano bassi per paura di perdere la testa a causa di colpi di artiglieria ben mirati. «Prendi quel merlo, poi uno ogni cinque. Questo dovrebbe farli fermare a riflettere».
Con un frettoloso saluto, il centurione condusse i suoi uomini che avanzarono accovacciati mentre scie di fiamme e fumo nero passavano in alto, per esplodere in palle di fuoco all’interno della città; pesanti pietre si abbatterono sul parapetto e si infilarono negli spazi tra i merli con un’esplosione di carne umana, sia di difensori che di aggressori, che schizzò su tutto il camminamento.
Desideroso di dare l’esempio, Vespasiano rimase dritto, vulnerabile all’artiglieria, e osservò la prima squadra posare a terra la propria barella; con guanti di cuoio inumidito e servendosi di una catena attaccata a ciascun lato del calderone, due di essi lo issarono sul merlo mentre gli ausiliari si ritraevano dopo un turbinio di fendenti. Spinsero il calderone di ferro attraverso la pietra, col vapore che si levava dai loro guanti, fino a raggiungere il bordo; a quel punto, altri due uomini staccarono un palo di legno dalla barella, lo posarono sull’orlo del calderone e spinsero, rovesciandolo in avanti mentre i loro compagni tenevano ben ferme le catene. L’olio bollente che vi era contenuto cominciò a gocciolare e a colare lentamente man mano che il calderone si piegava in avanti fino a che non cadde su un lato. L’olio si riversò a fiotti sulla pelle e sugli occhi di quelli tanto sfortunati da trovarsi sulla scala sottostante.
Le urla degli uomini appena accecati lacerarono la furia della battaglia come i richiami delle sirene penetravano nella collera di una tempesta. Il calderone fu tirato indietro e un ausiliario si sporse dalla merlatura per spingere via la scala ormai vuota. Sotto, il nemico era troppo preso dal grattarsi via il viscoso liquido ardente dalla pelle ustionata per accorgersene. Poi fu gettata giù una torcia per dare fuoco all’olio, che divampò in un istante, infuriando con un’intensità quasi simile alle deflagrazioni di nafta che imperversavano nella città. Ma l’effetto mortale era ben peggiore data la calca sotto le mura, con gli uomini che già straziati dal dolore prendevano fuoco. Altre urla lancinanti si levarono al di sopra del frastuono e poi sempre più, man mano che i calderoni venivano vuotati dell’olio o della sabbia incandescente, i cui granelli roventi si infilavano in abiti e orifizi con effetti terrificanti. Un calderone, colpito da un sasso grande quanto un pugno che lo mandò in frantumi, esplose all’indietro, schizzando gli ausiliari tutt’intorno, così che anch’essi subirono la stessa sorte inflitta a tanti coscritti che minacciavano le mura meridionali.
E poi arrivò il secondo carico di calderoni fumanti, seguito da un terzo e poi da un quarto. Man mano che la rovente agonia veniva inflitta, la pressione sul settore di mura di Vespasiano si allentò poiché le scale venivano tirate su senza essere sostituite, così che i difensori potevano concentrarsi su sempre meno punti di scalata con più brutale efficienza.
Con la sesta e penultima distribuzione di morte incandescente, la volontà dei parti si spezzò e il terrore della scalata superò quello per i catafratti alle loro spalle. Fecero dietrofront e fuggirono, come di comune accordo, lasciando morti e moribondi ammucchiati e fumanti alla base delle mura e disseminati sul campo mentre cercavano di fare irruzione nella formazione dei catafratti, profonda quattro uomini, fianco a fianco, che li incalzava.
Gli ausiliari, troppo esausti se non per una rapida esultanza, tornarono ad accovacciarsi dietro al parapetto, mentre l’artiglieria continuava a scagliare pietre contro le mura e a lanciare fuoco nella città.
Ma anche questo cessò presto quando, da nord, apparve una nuova minaccia; trombe risuonarono tra i ranghi parti e i corni ripeterono le quattro note che segnalavano truppe in avvicinamento.
Entrambe le fazioni si fermarono mentre cercavano di capire in aiuto di chi fosse giunta la nuova armata.
«Sono i parti che hanno seguito l’affluente a nord», ipotizzò Magno, scrutando la lunga colonna di cavalleria che seguiva la sponda orientale del Kentrites circa un miglio a nord della confluenza con il Tigri. La polvere li oscurava in parte rendendo impossibile calcolarne il numero, ma tra le nuvole sollevate da centinaia di zoccoli, si potevano intravedere gli stendardi e l’avanguardia.
«Babak deve averli richiamati dopo aver assistito alla forza delle nostre difese», dedusse Mannio, nella cui voce si intuiva l’orgoglio per la prova dei suoi uomini.
Vespasiano scosse la testa e si sporse attraverso la merlatura, alla giunzione tra le mura meridionali e quelle orientali, come se quel paio di piedi in più potesse fare la differenza per identificare i nuovi arrivati. Se la regina Trifena aveva mantenuto la promessa, allora sapeva di chi si trattava; ma aveva bisogno di esserne sicuro. Mentre i suoi occhi scrutavano nella polvere, si concesse un piccolo sorriso. Quella cavalleria aveva qualcosa di diverso. «No, non possono essere loro. Guardate il colore degli abiti che indossa la cavalleria leggera: i parti avevano tutti tuniche sgargianti, calzoni ed eleganti copricapi. Questi invece sono smorti a paragone, vestiti di lana e lino non tinti, roba povera».
Magno strizzò l’unico occhio buono e si sfregò il collo. «Immagino che tu abbia ragione. Ma allora chiunque sia deve aver superato i parti». Si girò perplesso a guardare Vespasiano e Mannio. Tutti e tre erano incrostati di sangue secco, come se avessero passato la giornata a fare sacrifici a ogni divinità immaginabile che esigesse sangue, ma nessuno di loro mostrò di farci caso. «Non c’è abbastanza spazio in quella valle perché due armate si passino accanto senza neanche dirsi buongiorno».
Mannio indicò un gruppo di cavalieri che attraversava il ponte sulla sponda nord del Tigri. «C’è movimento laggiù».
Vespasiano osservò la dozzina di cavalieri parti; superato il secondo ponte sulla riva orientale del Kentrites, raggiunsero la colonna sotto un ramo di tregua. «Questo dovrebbe confermare chi credo che siano».
«Confermare?», ripeté Mannio.
«Sì, prefetto. Spero che siano quelli che stavo aspettando». Guardò la fanteria di coscritti che circondava la città e poi si concentrò sui tre o quattromila che presidiavano le linee d’assedio a nord, di fronte all’unico altro ingresso. Il Tigri era a un centinaio di passi dalla parte posteriore, con il ponte che lo attraversava prima che curvasse a sud.
Vespasiano tornò a interessarsi alla cavalleria in avvicinamento. Si erano fermati alla confluenza del Tigri con il suo tributario, con gli emissari parti poco più avanti a loro; cosa fosse oggetto di trattativa e come questa stesse procedendo era impossibile capirlo da una simile distanza. Osservò la discussione per un pò, con battiti del cuore sempre più veloci, fino a che i parti girarono i cavalli e si precipitarono a tornare da dove erano venuti, senza essere accompagnati da un messaggero dei nuovi arrivati. «Bene, sono loro».
Magno sembrava confuso. «Loro chi?»
«Loro, Magno, sono il resto del nostro esercito e tutto quello che li separa da noi sono tre o quattromila coscritti, perciò dobbiamo aprire l’ingresso settentrionale e radunare un po’ di bestiame nel fiume». Si rivolse al primipilo di Magno, in attesa a rispettosa distanza dai superiori. «Manda messaggi a tutti gli altri prefetti e assicurati che si preparino a lasciare la città dall’ingresso settentrionale. La coorte di Cotta sarà in testa e faremo irruzione tra le linee d’assedio. Le coorti di Fregallano e di Mannio seguiranno e si schiereranno rispettivamente a ovest e a est, per proteggere il resto dell’armata e le salmerie mentre attraversano il Tigri».
Il centurione gli rivolse un brusco saluto e andò a trasmettere gli ordini a una serie di staffette. Vespasiano ghignò a Mannio. «È tempo di far scendere i tuoi ragazzi dalle mura, prefetto».
Vespasiano e Magno si aggirarono per le strette strade che circondavano la grande collina della città, superando i tanti roghi della nafta che venivano domati dai cittadini, vecchi e giovani, troppo occupati per accorgersi delle truppe romane che si ritiravano dagli spalti e delle salmerie che si raggruppavano nell’agora vicino alle porte settentrionali.
«Tu viaggerai con Hormus», ordinò Vespasiano a Magno mentre si facevano largo nel caos di carri e muli radunati con breve preavviso. Hormus era davanti a occuparsi dei finimenti del suo gruppo; Vespasiano non rimase sorpreso di vedere dietro di lui il giovane mulattiere che aveva sorriso in modo così allettante al suo schiavo. Era certo che non si trattasse di una coincidenza. «E scopri il nome di quel ragazzo e da dove viene. A quanto pare ha un debole per lui. Dobbiamo accertarci che i suoi motivi siano puramente economici».
«Ovvero assicurarci che non si faccia il tuo schiavo per carpire informazioni, se capisci cosa voglio dire».
«Altroché», replicò Vespasiano con un sorriso mentre proseguiva per la coorte di Cotta, impegnata a disporsi in una colonna alle porte settentrionali. Adesso non doveva fare altro che sgomberare il campo così che i nuovi arrivati potessero raggiungere i romani; poi insieme avrebbero abbandonato Tigranocerta e inscenato una ritirata combattuta, conducendo i parti sempre più all’interno del regno cliente dell’Armenia e creando di conseguenza un casus belli tra i due imperi. Quella era la guerra che Trifena aveva pianificato. Una guerra che avrebbe assicurato al nipote la corona armena, una guerra che poteva essere usata per destabilizzare lo sciocco beone bavoso che governava Roma e fare in modo che Nerone, figlio della sua congiunta Agrippina, prendesse la porpora prima che il figlio naturale di Claudio, Britannico, diventasse maggiorenne. E questo era ciò che Vespasiano considerava il meglio per sé e la sua famiglia: aveva visto Nerone e aveva visto Britannico; dei due era evidente, perfino a uno sciocco bavoso, che Britannico fosse la scelta migliore. Ma non era la scelta migliore per gli scopi di Vespasiano, se voleva che si avverasse il destino che sospettava fosse stato predisposto per lui. Scegliere il migliore avrebbe stabilizzato la dinastia Giulio-Claudia e magari assicurato la loro discendenza per decenni a venire. No, Vespasiano aveva bisogno che il successore di Claudio fosse il candidato più debole, più vanesio, più arrogante: Nerone, la cui idoneità a regnare era solo apparente. L’abbagliante principe della gioventù sembrava un giovane dio, ma sotto quell’aspetto attraente si nascondeva, a parere di Vespasiano, una pazzia che al confronto avrebbe ridotto a pura eccentricità il comportamento di Tiberio nei suoi ultimi anni. L’aveva riconosciuta nel momento in cui aveva visto Nerone posare la testa sul seno di Agrippina e poi Narciso gliene aveva dato la conferma: una relazione incestuosa con sua madre. Dare il potere assoluto a un uomo che non trovava abominevole portarsi a letto la propria madre era, nell’ottica di Vespasiano, un modo sicuro per scatenare in lui la follia della sfrenata decadenza morale. Una follia che avrebbe surclassato quella di Caligola e fatto ricordare le sue pubbliche esibizioni sessuali con la sorella Drusilla come semplici debolezze. Una follia che, insieme alla dominante presenza di sua madre nonché amante, Agrippina, la quale pretendeva un riconoscimento mai concesso a nessuna donna, sarebbe stata capace di far cadere la dinastia Giulio-Claudia perché né il Senato, né il popolo o perfino la guardia pretoriana avrebbero potuto tollerare un altro imperatore di quella famiglia che si era deteriorata così miseramente. E se la dinastia Giulio-Claudia avesse fatto il suo tempo, chi poteva sapere cosa sarebbe successo? Forse sarebbe giunto il tempo degli uomini nuovi. Forse.
Ma era una cosa ancora lontanissima e prima doveva contribuire a mettere in atto il piano di Trifena; la fase iniziale era stata compiuta: aveva un esercito partico su suolo armeno. Adesso la seconda fase si stava realizzando perché, come Trifena aveva promesso, l’usurpatore era venuto a combattere al fianco di Roma.
Radamisto aveva portato il suo esercito a Tigranocerta.