CAPITOLO VII
«Hai l’autorizzazione dell’imperatore per questa oltraggiosa richiesta?». Giulio Peligno, procuratore della Cappadocia, si erse in tutta la sua altezza, che era limitata a cinque piedi per via di una grave curvatura della spina dorsale. «Perché, vorrei ricordarti, sono un ottimo amico personale di Claudio e non è bene farmi arrabbiare».
«Sono ben conscio del tuo rapporto con l’imperatore». Vespasiano abbassò lo sguardo sull’ometto deforme e cercò di non lasciar trapelare il disprezzo che provava per la boria del procuratore. «Non si tratta di una richiesta ma di una proposta. Ho un mandato imperiale per agire nel modo che più ritengo opportuno in relazione all’attuale crisi in Armenia e suggerisco che le tue coorti ausiliarie ne rendano sicuri i confini con la Partia».
«Tutte quante?»
«Tutte quante!». La voce di Vespasiano riecheggiò tra le colonne e le mura di marmo del palazzo del procuratore, nella città orientale di Melitene, nella montagnosa provincia ai confini dell’impero.
«Non posso privarmi di tutte le coorti».
«Stanno facendo qualcos’altro di importante al momento?»
«Sorvegliano il nostro confine con l’Armenia».
«Quel confine è protetto dal fiume Eufrate; il confine tra Armenia e Partia è una vaga linea poco a sud di Tigranocerta».
Peligno prese a farfugliare, guardando Vespasiano con occhi iniettati di sangue; le spesse labbra umide dominavano la parte inferiore del volto scarno. «Ma sono le mie truppe».
«E le comanderai tu, Peligno, com’è giusto che sia, e anche se sono stato io ad avanzare la proposta, questa sarà una tua idea».
Il naso sottile di Peligno fremette e lui se lo sfregò tra pollice e indice; aveva le unghie mangiucchiate fin quasi alle cuticole. «E sarà mio il merito per un’eventuale vittoria?»
«Procuratore, io non sono qui. Hai visto il mio mandato imperiale e questo dovrebbe bastarti. La mia presenza non dovrebbe essere menzionata in documenti o lettere ufficiali né riferita al tuo diretto superiore, Ummidio Quadrato, il governatore della Siria. Perciò l’ovvia conclusione è sì, non solo potrai rivendicare tutto il bottino ma anche prenderti tutto il merito di un’eventuale vittoria, degna impresa o brillante negoziazione ottenuta con la forza che tu riesca a ottenere nella tua operazione di messa in sicurezza del confine meridionale armeno, durante questo periodo di instabilità in quel regno cliente». Così come un eventuale fiasco, disonorevole ritirata o accordo in malafede, aggiunse tra sé Vespasiano mentre sorrideva ossequioso a quella tronfia barzelletta di procuratore, i cui occhi già sembravano scorgere ricchezze e onori facili. Aveva incontrato Peligno solo una volta in passato, l’ultimo giorno dei Giochi Secolari, tre anni prima, quando l’uomo era nel palco imperiale quasi implorando Claudio affinché gli desse il posto di procuratore della Cappadocia per rimettere in sesto le proprie finanze. La sua amicizia con l’imperatore prevedeva numerose partite a dadi e continue scommesse, così la passione di Claudio per il gioco d’azzardo lo aveva impoverito. Perché Claudio frequentasse un tale buffone proprio non riusciva a capirlo, ma poi si rese conto che, essendo gobbo, Peligno era esattamente il tipo di persona di cui Claudio aveva piacere a circondarsi: faceva sembrare lo sciocco bavoso meno bizzarro. Adesso che Peligno aveva ottenuto la sospirata posizione, Trifena aveva ritenuto che la sua avidità e venalità servissero ai propri scopi. Vespasiano non fu sorpreso quando il procuratore cedette.
«Molto bene, proconsole», affermò Peligno, facendo appello a tutta la dignità possibile per mostrarsi padrone della situazione. «Partirò tra dieci giorni».
«Sbagliato, Peligno. È essenziale essere veloci e l’imperatore ti loderà per questo. Partirai tra tre giorni. Tra dieci sarai a Tigranocerta. Nel frattempo, re Polemone del Ponto porterà un esercito dal Nord e metterà in sicurezza Artaxata». Lasciando il procuratore senza parole e a bocca aperta, Vespasiano girò i tacchi e uscì in tutta fretta dalla stanza. Non era in vena di ulteriori indugi; adesso che era vicino all’obiettivo, voleva raggiungere i dubbi scopi di Trifena per poi tornarsene in Italia e osservare i risultati dalla relativa sicurezza di una delle sue tenute. C’era già voluto più di mezzo mese per il viaggio di duecento miglia dal porto di Sinope, sede del re Polemone, il fratello di Trifena. Vespasiano non era rimasto sorpreso di essere atteso e trattato con estrema gentilezza dall’anziano sovrano; aveva ricevuto un’unità della personale guardia a cavallo di Polemone perché lo proteggesse durante il viaggio nell’entroterra. Erano armati di lance come la cavalleria di Alessandro Magno; privi di scudo ma con solide corazze di cuoio ed elmi di bronzo, sembravano soldati dei tempi che furono, ma Polemone gli aveva assicurato che non avevano eguali come cavalieri. La loro presenza era bastata a scoraggiare episodi di banditismo lungo il tragitto ed era stato con un certo rimpianto che, all’arrivo in Cappadocia, Vespasiano li aveva lasciati andare senza averli visti combattere.
Mentre andava in cerca di Magno, che si stava abituando alle scarse comodità della foresteria di quel palazzo piena di spifferi e poco usata, Vespasiano si concesse un sorriso soddisfatto; aveva la sensazione che gli eventi si fossero finalmente messi in moto. Aveva requisito il suo esercito: cinque coorti ausiliarie composte da ottocento soldati di fanteria ciascuna, tutti addestrati a combattere in ordine sparso, l’ideale per i terreni montagnosi. Ma combattere non sarebbe stato il loro compito principale ed era ansioso di vedere l’espressione sulla brutta faccia tirata di Peligno quando avrebbe scoperto cosa era davvero richiesto loro.
«Questa sarà una gloriosa marcia di conquista!», strillò Peligno alzando la voce per farsi sentire dal piccolo esercito di oltre quattromila fanti e cavalieri. «L’imperatore e il Senato ci chiedono di restaurare la legittima influenza di Roma sull’Armenia. Invaderemo da ovest e conquisteremo Tigranocerta, mentre i nostri alleati del Ponto caleranno da nord e prenderanno Artaxata. È giunta per noi l’ora di far inserire la Cappadocia negli annali come la provincia che salvò l’onore romano in Oriente».
Mentre Peligno continuava ad arringare le sue truppe con immagini di grandezza che eccedevano di gran lunga ciò che era in realtà richiesto loro, la fanteria stava sotto i suoi stendardi, rigida, lo sguardo dritto davanti a sé; la debole luce del sole luccicava sulle cotte di maglia, le punte dei giavellotti e gli elmi disadorni, e il rosso di tuniche e calzoni si abbinava agli scudi dipinti e decorati con fulmini di ferro brunito, dando l’impressione di file su file di sangue e argento. Accanto a loro, le salmerie erano schierate in file sorprendentemente ordinate, dall’aspetto meno uniforme dal momento che l’abbigliamento non era quello di ordinanza. Tuttavia avevano qualcosa in comune con i compagni della fanteria: un’aria di assoluta perplessità.
«Non capisco perché si prenda la briga di sprecare così il fiato», disse Magno, tirando le redini del suo ombroso cavallo. «Non credo che siano più di una dozzina quelli che parlano latino meglio di un bambino di cinque anni».
Vespasiano ridacchiò mentre anche lui era costretto a tenere a bada il cavallo, che era stato spaventato dal suo vicino. «Non credo che gli sia mai passato per la mente che avrebbe più possibilità di farsi capire in greco. Pensa solo a farsi vedere come un pari di Cesare, Lucullo, Pompeo e tutti gli altri generali che hanno fatto campagne in questa regione. Non c’è nessuno tanto cieco quanto un piccolo uomo privo di esperienza militare che pensa di aver avuto la possibilità di essere un eroe senza fare in realtà niente».
Vespasiano calmò il suo cavallo, portandolo più vicino al carro trainato da muli che trasportava la loro tenda e i loro effetti personali, e sorprese Hormus, alla sua guida, che guardava ammirato uno dei tanti giovani mulattieri della salmeria dell’esercito con cui avrebbe viaggiato. Il giovane sorrise con la promessa negli occhi scuri di una deliziosa ricompensa per tutte le monete ricevute.
«E perciò, soldati di Roma», disse stridulo Peligno. Le sue guance, di solito pallide, adesso erano rose quasi quanto le tuniche dei soldati, «seguitemi in Armenia, seguitemi a Trigranocerta, seguitemi alla vittoria e alla gloria nel nome di Roma». Sollevò in aria la spada nella quasi totale assenza di reazioni e fu costretto a ripetere il gesto un altro paio di volte, prima che i soldati si rendessero conto che era giunta la fine di un discorso di incoraggiamento e cominciarono ad agire di conseguenza. Peligno si rivolse ai cinque prefetti ausiliari in piedi dietro di lui sul palco, prima di scendere i gradini di legno tra le discontinue urla di acclamazione delle truppe. Dopo il tempo minimo consentito a un esercito per acclamare il suo ufficiale in comando, i prefetti fecero segno ai rispettivi primipili; rauche urla di comando lacerarono senza fatica il rumore seguito dagli squilli di corno. All’unisono le centurie scattarono sull’attenti e si voltarono a sinistra, con il tonfo unificato di calzature chiodate, trasformandosi in colonne larghe otto uomini. Con un’altra serie di urla marziali e ripetute fanfare di buccine, l’intera formazione cominciò a muoversi, centuria dopo centuria, coorte dopo coorte, dalla piazza d’armi davanti alle porte della città per dirigersi, in una lunga e sinuosa colonna, a est verso l’Eufrate, oltre il quale si ergevano le innevate cime dell’Armenia.
Vespasiano rimase colpito dalla velocità con cui la colonna era in grado di viaggiare lungo la Via Reale di Persia, costruita da Dario per collegare il cuore del suo impero con il mare a ovest. Ampia e ben mantenuta, era l’equivalente di qualsiasi strada romana e la sua superficie regolare consentiva agli ausiliari di marciare spediti.
Anzi, la velocità con cui l’intera spedizione era stata messa insieme deponeva a favore della struttura di comando delle forze armate della provincia. Fu con qualcosa di simile al senso di colpa che più tardi, quel giorno, Vespasiano osservò gli ausiliari percorrere i settanta passi del ponte sull’Eufrate. Perché il piano di Trifena funzionasse, non era alla vittoria che dovevano arrivare.
Il ponte era più stretto della strada, creando un collo di bottiglia, e ci volle il resto della giornata e gran parte di quella successiva perché l’intera armata e le salmerie passassero dall’altro lato. Quando gli ultimi carri attraversarono rumorosi il ponte, furono scorte sulla cima di una collina in lontananza le prime minuscole sagome di uomini a cavallo.
«Non c’è voluto molto perché si venisse a sapere della nostra marcia», osservò Magno, issandosi in sella.
Anche Vespasiano montò a cavallo. «Sono sicuro che re Polemone abbia avvisato sia Radamisto che i parti per precauzione».
«È naturale», convenne Magno. «Non ci si può fidare di nessuno in Oriente; tradirebbero le loro madri per una capra se pensassero di poterne trarre più vantaggio. Ma tu non sembri troppo preoccupato. Pensavo che attacchi lampo come questo si basassero sull’elemento sorpresa».
«Sarebbe utile se questo fosse un attacco lampo».
Magno si schermò gli occhi quando diede un’altra occhiata ai ricognitori a sud-ovest. «Cosa vuoi dire?».
Vespasiano girò il cavallo. «Ti è passato per la mente che non abbiamo nessuno da attaccare? Radamisto dovrebbe essere leale a Roma e finora, per quanto ne sappiamo, i parti non hanno invaso».
«Ma pensavo avessi detto a Peligno che lo scopo della missione era prendere Tigranocerta mentre re Polemone invadeva da nord e occupava Artaxata, sulla base del fatto che chi controlla le due capitali reali controlla l’Armenia».
«È proprio quello che gli ho detto. Ma non è affatto la verità. Se gliel’avessi detta, probabilmente avrebbe cercato di farmi arrestare per tradimento». Vespasiano si godette la sorpresa e la confusione sul volto di Magno mentre spronava il cavallo e si metteva alla ricerca di Peligno.
«Probabilmente solo briganti del luogo», annunciò Peligno quando Vespasiano lo raggiunse. «Non è degno di Roma mandare ricognitori in giro per la regione a indagare su gentaglia».
«Se lo dici tu, Peligno», replicò Vespasiano , scrutando la cima della collina. «Chiunque fossero, ormai se ne sono andati».
«Questa sarà l’ultima volta che li vedremo».
«Cosa te lo fa credere?»
«Gli armeni non oserebbero mai attaccare una colonna romana».
«Forse sì, forse no. Ma i parti lo farebbero».
«I parti? Cosa ci farebbero qui?»
«Quello che ci facciamo noi, procuratore: rivendicano il possesso di quest’area in un periodo di cambiamenti. E, se sono qui, credo che siano giunti da sud-ovest». Indicò la collina sulla quale i cavalieri erano comparsi. «E, a giudicare dal sole, quello è il sud-ovest».
La colonna procedette verso est per tre giorni, fino a che la strada cambiò direzione snodandosi verso sud, sul grigiastro e polveroso terreno ruvido degli altopiani che precedevano la vette del Masio. Gli uomini a cavallo non si erano più visti. Quando gli ausiliari giunsero in prossimità di Amida, sulle rive del giovane fiume Tigri, dove la strada tornava in direzione est, verso Tigranocerta, dall’altro lato del corridoio lungo cento miglia tra i dolci pendii settentrionali dei monti del Masio, dei cavalieri non si ricordava più nessuno. Peligno guidava la marcia a passo spedito e, imitando i generali romani di un tempo, disdegnava di mandare ricognitori con il pretesto che andare a cercare imboscate organizzate da barbari non fosse degno di Roma.
Ma ciò che non era indegno di Roma era l’avidità e fu subito dopo mezzogiorno del quinto giorno che la colonna si fermò allo squillo delle buccine, davanti alla placida cittadina di Amida, a cavallo della strada. Gli acuti richiami delle buccine, usati per i segnali all’interno del campo e durante la marcia, presto cedettero il posto ai profondi rimbombi dei corni a forma di G, preferiti per le segnalazioni sul campo di battaglia, e la colonna cominciò a schierarsi in linea.
«Cosa sta facendo?», domandò Magno mentre gli ausiliari sfilavano a destra e a sinistra e i contadini, intenti ad arare i campi su cui si era da poco sciolta la neve, abbandonavano gli aratri e correvano alla relativa sicurezza delle mura cittadine.
«Esattamente ciò che aveva previsto Trifena: strupri e saccheggio. Non ha mai avuto questa possibilità; essendo uno storpio, nessuno l’ha mai preso nella propria legione come tribuno militare e non ha mai partecipato a una campagna né ha mai sentito il potere della spada».
Magno era confuso. «Ma questa è una città armena; come pensa di fare i nostri interessi se distrugge ogni cosa in cui ci imbattiamo?»
«Lui non pensa o, per lo meno, pensa solo al suo tornaconto personale ed è questo il suo problema. Ed è per questo che è così adatto».
«Vogliamo che lui ci alieni le simpatie degli armeni?»
«Siamo proprio sul confine tra Armenia e l’impero partico. Tigranocerta è una città di frontiera, a guardia del valico di Sapphe Bezabde tra le montagne che portano in Partia; quale modo migliore per provocare i parti che non dare alle fiamme Amida vicino al confine e poi occupare e ricostruire una città fortificata che si affaccia sulle loro terre?».
Magno si girò verso sud. «Vuoi dire che oltre quelle montagne c’è la Partia?».
Vespasiano scrutò le cime che incombevano su di loro. «Sì. Se salissi in cima, quella che vedresti a perdita d’occhio è tutta Partia. Trifena mi ha mostrato una cartina e dopo queste montagne non c’era quasi niente, solo il Tigri e l’Eufrate che scorrono fino al mare, da cui si può salpare per l’India. Quasi tutte le città sono su uno di questi due fiumi, ma in mezzo c’è il deserto». Indicò a sud-ovest. «A cento miglia in quella direzione c’è Carre, dove abbiamo perso sette aquile in una sola battaglia; poi cinquanta miglia a ovest da lì c’è la frontiera della provincia della Siria. Dietro quelle montagne finisce l’influenza di Roma; se il Grande Re ci vede sul suo confine, manderà un esercito per cercare di allontanarci e riprendersi l’Armenia».
«E Peligno sarà responsabile di aver dato inizio a una guerra e tu potresti dover rispondere a domande poco piacevoli».
«No, io non sono qui in veste ufficiale. Se mai mi venisse chiesto, re Polemone è pronto a garantire che sono stato nel Ponto per tutta l’estate, usandolo come base per i negoziati con Radamisto».
«Ma lui sta invadendo l’Armenia da nord».
«No, non è così. Lui sta dov’è su consiglio della sorella. Ho detto così a Peligno per farlo sentire al sicuro, per garantirmi la partecipazione delle sue truppe. Peligno si prenderà la colpa per aver innescato questa guerra ma, essendo un vecchio amico di Claudio, probabilmente sopravviverà».
Con il lungo e cupo brontolio dei corni, due delle coorti ausiliarie presero ad avanzare mentre, a ciascun lato, le quaranta carrobaliste dell’esercito cominciavano a bersagliare di dardi le mura scarsamente difese. Dalla città si levò l’immenso lamento di migliaia di persone che disperavano per la propria vita. Gli abitanti più coraggiosi e saldi scoccarono frecce e puntarono fionde contro i soldati che sopraggiungevano senza sortire grandi effetti: molti di essi caddero all’indietro, senza testa, tra spruzzi di sangue, decapitati dall’artiglieria.
Con i loro scudi ovali sollevati, i soldati ausiliari di Roma marciavano imperterriti e silenziosi mentre la città praticamente priva di difese era inerme davanti a loro.
Dalla sua espressione, Vespasiano vedeva che Magno non capiva quale ragionamento sostenesse quell’inutile massacro. «Dobbiamo combattere la Partia prima o poi, lo facciamo sempre, circa ogni trent’anni. Ma invece di farlo sulla difensiva, cercando di impedire loro di prendere la Siria e guadagnare l’accesso al Mare Nostrum, sarebbe meglio condurre la guerra su terreno neutrale. Avremmo meno da perdere e più da guadagnare», spiegò.
«Ma potrebbero volerci due anni perché la Partia raduni il suo esercito».
Vespasiano vide che le prime scale d’assedio venivano appoggiate alle mura e le truppe cominciavano a sciamarvi sopra. «No, saranno qui tra un paio di mesi; anzi, abbiamo visto i loro ricognitori su quella collina solo tre giorni fa. Trifena deve aver fatto mandare a Polemone un messaggio a Ctesifonte per informare il Grande Re delle nostre intenzioni».
Mentre i primi ausiliari salivano in cima alle mura, le porte si aprirono in un inutile tentativo di resa. Ma non era la pace il destino della città, bensì la morte e a dimostrarglielo era un ometto deforme con una spada mai macchiata di sangue.
Peligno stava avendo il suo primo assaggio di gloria.
Vespasiano e Magno spronarono i loro cavalli, varcarono le porte e si ritrovarono in una città ammantata di fumo e in preda a desolazione e morte. Nelle strade strette imperversavano gli ausiliari a caccia di bottino, sia vivo che inanimato. Ovunque erano disseminati corpi, martoriati, trafitti, lordi di sangue e quasi tutti maschili. Le donne urlavano e imploravano pietà quando venivano trovate e sottoposte al brutale destino che attendeva sempre il sesso femminile in una città catturata. Quelle considerate troppo vecchie per suscitare passione carnale nei soldati venivano uccise in modo sommario; i bambini e i neonati erano considerati troppo giovani e subivano la stessa sorte.
Gruppi di soldati si formavano attorno alle vittime urlanti, strappando loro i vestiti, trattenendole a terra ed esortando i compagni mentre brutalizzavano il bottino di guerra. Ciascun uomo attendeva famelico il suo turno per umiliare le ragazze che si dibattevano, maledicevano e sputavano addosso ai violentatori, i quali le prendevano a schiaffi nel vano tentativo di domare la loro rabbia.
Quegli ausiliari la cui libidine era ormai appagata tracannavano vino e scorrazzavano per la città con spade sguainate e torce ardenti, appiccando il fuoco con incurante temerarietà e massacrando vecchi e giovani come se nulla fosse.
«Ci vorrà parecchio per calmare i ragazzi dopo tutto questo», borbottò Magno mentre passavano davanti a un gruppo di soldati ubriachi che urinavano nella bocca di un’adolescente appena cosciente, il cui terribile supplizio si poteva indovinare dalle contusioni e dai segni sul volto e sul corpo nudo, così come dalla pozza di sangue che si era allargata tra le sue gambe.
Vespasiano si costrinse a guardare gli ultimi istanti di vita della ragazza mentre uno degli ausiliari scrollava le gocce dal pene, si sistemava gli indumenti e poi, presa la spada, gliela conficcava nella bocca; il sangue sprizzò, diluito dall’urina, e, ridendo, i soldati se ne andarono in cerca di altro divertimento. «Solo fino a quando qualche sopravvissuto testimonierà cosa è capace di fare questo piccolo esercito romano», mormorò, spronando il cavallo lungo la strada principale che tagliava in due la città, dall’ingresso occidentale a quello orientale. «Adesso devo trovare Peligno e convincerlo che bisogna continuare in fretta questa gloriosa campagna di liberazione che ha intrapreso».
Magno diede un ultimo sguardo alla ragazza morta e poi lo seguì. «Adesso che ne ha avuto un assaggio, immagino che sarà difficile trattenerlo».
«Farò riposare i miei soldati per due giorni», annunciò Peligno da dietro una scrivania immensa ai prefetti delle sue coorti e ai loro centurioni anziani mentre Vespasiano e Magno venivano fatti entrare nella grandiosa sala. Il generale gobbo aveva requisito per sé la casa più imponente della città. «Dopo una vittoria tanto estenuante, meritano riposo e ristoro. Non ci saranno riviste né esercitazioni, tutti i lavori di fatica sono sospesi e le sanzioni disciplinari cancellate, doppia razione di cibo e vino per entrambi i giorni e sentinelle e pattuglie ridotte al minimo». Se Peligno si era aspettato che gli alti ufficiali applaudissero alla sua sensibilità nei confronti delle truppe devastatrici, si sbagliava di grosso: la sua dichiarazione venne accolta con malcelato disgusto sia per i suoi ordini che per il suo aspetto. Peligno, tuttavia, parve non accorgersi della derisione del suo stato maggiore; si alzò dalla sedia, mise i pugni sulla scrivania e avvicinò la faccia verso i subordinati. «Domande?»
«Sì, signore», abbaiò uno stempiato prefetto di fanteria ausiliaria, facendosi avanti e mettendosi sull’attenti.
Peligno sospirò irritato. «Cosa c’è stavolta, Mammio?»
«Come possono i miei centurioni e optiones mantenere la disciplina se annulli tutti i servizi di fatica e le sanzioni solo perché abbiamo preso una città?»
«Questa è stata una vittoria importante, prefetto».
Mammio non riuscì a trattenersi. «No, procuratore, non lo è stata. Mia nonna e ottanta vecchiacce della stessa età sarebbero riuscite a prendere questo posto armate solo delle loro conocchie. Dov’era la guarnigione di difesa? Dove sono i loro corpi adesso che abbiamo scalato le mura e assaltato le porte? Non dovremmo vedere uomini morti con qualche uniforme, corazza ed elmo?»
«Siamo stati colpiti da frecce; ci hanno lanciato giavellotti!».
«Milizia urbana!», urlò Mammio. «Un’accozzaglia incapace di fare altro che lanciare qualche bastone e poi fuggire coraggiosamente, solo per venire catturata e massacrata nei vicoli. Ci hanno perfino aperto le porte ma tu non hai richiamato le truppe. E adesso vuoi mettere a rischio la coesione delle nostre coorti ricompensandole per stupri e massacri quando il peggior pericolo che hanno corso è stato finire con una lancia su per il culo sfuggita di mano a un compagno ubriaco. Ho riportato un solo decesso nella mia coorte, uno stupido stronzo che si è fatto prendere a morsi l’uccello ed è morto dissanguato».
La bocca di Peligno si aprì e si chiuse per qualche momento, con attonito sdegno per la forza delle accuse del prefetto. «Come osi alzare la voce con me, prefetto! Io sono un amico dell’imperatore».
«No, Peligno, tu sei lo zimbello dell’imperatore proprio come lo sei per noi».
«Io penso, Peligno», intervenne Vespasiano in tono conciliante mentre avanzava nella stanza, «che dovremmo metterci seduti e considerare la situazione con calma e logica».
Lo sdegno di Peligno non si placò. «E cosa dà a te il diritto di entrare qui senza essere stato invitato e di dirmi cosa devo fare?»
«L’esperienza militare, Peligno; qualcosa che a te chiaramente manca, come Mammio stava solo cercando di farti capire con tatto ed educazione. Adesso rimettiti a sedere». Guardò torvo Peligno fino a che l’uomo non tornò a sedersi con tutta la dignità di cui era capace. «Bene, adesso ascoltami. Mammio ha ragione. È inconcepibile che la farsa di oggi possa essere definita una gloriosa vittoria, Peligno. Perciò le truppe non meritano due giorni di riposo né tutte le altre idiozie che stavi proponendo, con grande divertimento di tutti i presenti, senza dubbio. Ti propongo di mettere immediatamente un freno ai tuoi uomini, farli uscire dalla città, costruire un accampamento e dare loro la nottata per tornare sobri prima di riprendere la marcia verso Tigranocerta domani mattina. Nel frattempo, Peligno, perché non spogli questa casa di tutto ciò che c’è di valore e lo fai caricare sulle salmerie, così da poter cominciare a ripagare i debiti che ti ha addossato il tuo amico imperatore mentre cercavi di ingraziartelo giocando a dadi?».
La faccia spigolosa di Peligno si spianò in un’espressione maligna. «Questo è già stato fatto, Vespasiano, qui come in tutte le altre case di valore. Ecco perché ho bisogno di due giorni».
«Tu non hai due giorni. Ti suggerisco di partire domani».
«Sono io che do gli ordini qui!».
«No, Peligno. Tu ti prendi solo il merito e il bottino». Si rivolse allo stato maggiore riunito, allibito nel vedere che un uomo della cui presenza si erano accorti a malapena durante la spedizione potesse esercitare un tale controllo sul loro comandante. «Credo che anche voi, signori, riteniate saggio partire domattina presto per non rischiare che gli uomini perdano la disciplina nei prossimi due giorni».
«Sì, signore», rispose Mammio. I suoi colleghi annuirono senza parlare.
Vespasiano andò a una porta aperta e uscì su una terrazza che guardava a nord, verso il cuore dell’Armenia. «Fate distribuire pattuglie lungo il confine, che si terranno parallele a noi mentre ci muoviamo verso est. Dovranno usare la testa e non sconfinare nel territorio dei parti».
«Sì, signore», replicò Mammio, aggrottando la fronte. «Ma con quale autorità prendi il comando?»
«Io non sto prendendo il comando, prefetto. Anzi, ufficialmente non sono neanche qui. Sto solo dando suggerimenti che Peligno vorrà senza dubbio seguire. Dico bene, Peligno?».
Il procuratore non smentì.
«Bene. Assicuratevi che le pattuglie escano e riportate all’ordine gli uomini; fanne giustiziare qualcuno tanto per far tornare sobri gli altri. E avremo bisogno che siano sobri, signori, perché quando la notizia di quanto è successo qui oggi raggiungerà l’esercito partico, che già sta marciando verso di noi, accelereranno il passo. Dobbiamo essere al sicuro dietro le mura di Tigranocerta al loro arrivo, altrimenti saremo in inferiorità numerica su un campo di battaglia e, subito dopo, probabilmente morti». Vespasiano sorrise nel vedere le espressioni confuse che accolsero quella notizia. «Sì, signori, lo so. Le mura di Tigranocerta non sono state ricostruite dall’ultima guerra con i parti come indicato nel trattato di pace. Ma il trattato di pace specificava anche che Roma non avrebbe portato soldati in Armenia; cosa che Peligno ha trascurato di considerare nella sua fretta di ottenere il favore dell’imperatore e restaurare l’influenza romana in questo posto».
«Mi hai detto tu di farlo!», strillò Peligno, puntando contro Vespasiano un tremante dito dalle unghie mangiucchiate.
«No, Peligno, io ho solo suggerito che, mentre c’era un periodo di instabilità nel nostro regno cliente d’Armenia, poteva essere prudente tenere d’occhio il suo confine meridionale con la Partia. Non sono io il procuratore della Cappadocia, non avevo l’autorità di ordinare un’invasione, perché è di questo che si tratta, giusto? Tu l’hai comandata, tu hai messo insieme le truppe e tu le hai condotte. Adesso, avendo infranto il trattato con la Partia, ti suggerisco di presidiare Tigranocerta per evitare che cada nelle mani del nostro vecchio nemico. O si fa così o si torna in Cappadocia dopo aver aizzato la bestia partica, dandole un’ottima ragione per entrare in un’Armenia indifesa. Neanche il tuo stretto legame con l’imperatore ti tirerebbe fuori da un simile pasticcio». Vespasiano fece per andarsene. «Ti suggerisco di darti da fare, Peligno».
«Hai intenzione di spiegarmi cosa stai cercando di ottenere?», sibilò Magno nel seguire Vespasiano fuori dalla stanza.
«Sì», rispose Vespasiano senza fornire altre informazioni.
«Quando?».
Camminarono in silenzio lungo il corridoio, superando squadre di schiavi che stavano spogliando l’edificio degli oggetti di valore sotto la supervisione dei quartiermastri ausiliari. Vespasiano rimase contrariato dalla facilità con cui Peligno si stava arricchendo, ma sapeva che era quello il prezzo da pagare per la stoltezza del procuratore che avrebbe realizzato le ambizioni di Trifena in Armenia. Inoltre, non avrebbe mantenuto a lungo la sua nuova ricchezza. La cosa importante era che l’avidità e la vanità avessero spinto Peligno a saccheggiare una pacifica città di un regno alleato di Roma, contravvenendo a tutti i trattati sia con l’Armenia che con la Partia. La notizia dell’oltraggio si sarebbe diffusa e la condanna sarebbe stata unanime. Con un’azione avventata, il procuratore aveva fornito alla Partia una giusta causa per la guerra e dato a Radamisto motivo di protestare presso l’imperatore per il gratuito attacco di Roma.
«L’obiettivo di Trifena è assicurare il nipote Radamisto sul trono dell’Armenia», spiegò Vespasiano a Magno.
«Allora ha uno strano modo di fare le cose, visto che ti ha fatto convincere il procuratore di una provincia romana a invadere una città, anche se con un piccolo esercito di poveracci».
«Io non ho convinto Peligno a fare niente. Ho solo dato dei suggerimenti. A ogni modo, quell’esercito di poveracci, come lo definisci tu, ha fatto più per la causa di Trifena di quanto sarebbe riuscita a fare lei stessa con dieci delle sue legioni. Quando la Partia invade e occupa Tigranocerta, per poi muoversi a nord e prendere Artaxata, Roma sarà obbligata a mandare le legioni, senza dubbio sotto il comando di Corbulone».
«Grandioso. E allora?»
«Allora chi guiderà la resistenza armena, alleandosi con le nostre legioni?».
Magno cominciò a comprendere. «Radamisto», disse adagio. «E poi, quando tra tre o quattro anni sarà tutto finito e la Partia si sarà ritirata, Radamisto resta sul trono perché è stato nostro alleato e il fatto che abbia ucciso Mitridate verrà convenientemente dimenticato».
«Proprio così».
«E Nerone, l’altro suo parente, sarà ormai imperatore e si attribuirà la gloria di una sconfitta dei parti».
«E senza dubbio il Senato voterà per dargli il nome “Partico”, me compreso, dopo aver celebrato il suo trionfo».
«E nel frattempo un sacco di altre persone soffriranno come quella ragazzina che abbiamo visto prima».
Vespasiano fece spallucce mentre scendevano rumorosamente lungo una scalinata di antica quercia. «Non piace neanche a me, ma cosa posso fare? Sono in trappola. Dovrei lavorare per Pallante, per aiutarlo a proteggersi da Agrippina, e poi dovrei lavorare anche per Narciso, per aiutarlo a far cadere Agrippina. Ma alla fine finisco per lavorare per Trifena, che sta cercando di consolidare Agrippina nel ruolo di madre del prossimo imperatore, perché mi ha convinto che qualsiasi cosa Agrippina possa pensare di me, Nerone è la mia occasione migliore per fare carriera».
«Nerone?»
«Sì. E avendo ascoltato le sue ragioni, sono d’accordo con lei, ma non completamente, anche se alcune erano alquanto convincenti».
«In che modo il fatto che Nerone diventi imperatore può esserti d’aiuto?».
Vespasiano aprì la porta principale che dava sull’agorà della cittadina; il fumo gli bruciò gli occhi e lo fece tossire. La carneficina andava avanti, anche se con meno vigore di prima, dal momento che la popolazione era ormai fuggita o morta. «È difficile spiegarlo in termini di logica, perché è solo un presentimento. Ma un presentimento molto forte basato sugli auspici di un sacrificio che ho fatto. Te lo spiego con parole tue: a giudicare dal modo di cui dispone liberamente della propria madre, penso che Nerone abbia più possibilità di Britannico di mandare tutto a puttane».