CAPITOLO V
La neve, spinta da un tagliente vento orientale, sferzava la faccia di Vespasiano. Si tirò più giù il cappuccio e curvò le spalle per difendersi dalle condizioni in peggioramento; il suo cavallo arrancava accanto a un carro che avanzava cigolante lungo la Via Egnatia, trainato da un paio di ispide bestie, la cui evidente riluttanza a procedere nel vento era punita da regolari assaggi della frusta di Magno. Hormus sedeva a cassetta con Magno, sfregandosi le mani con aria infelice e battendo i denti. Malgrado manopole e calze di lana, Vespasiano non sentiva quasi più le dita di mani e piedi e pensò con invidia alla relativa comodità di cui doveva godere Gaio nel retro coperto del veicolo. Prese in considerazione l’idea di raggiungerlo.
«Io lo farei se fossi in te», disse Magno, infliggendo ai cavalli un altro brusco promemoria del loro dovere.
«Cosa?»
«Metterti al riparo. Ti sei guardato alle spalle tre volte dall’ultima pietra miliare».
Vespasiano alzò gli occhi sugli undici littori – scorta di un uomo di rango proconsolare in missione ufficiale – che marciavano al passo davanti al carro con i loro fasci sulle spalle, e scosse la testa. «Se la stanno vedendo molto peggio di me; dal momento che sono l’unica protezione che abbiamo, li voglio ben disposti nei miei confronti nel caso chieda loro di rischiare la vita. E poi non potranno essere più di altre quattro o cinque miglia fino a Filippi».
«In tal caso dovremmo poter vedere un’immensa zona paludosa a sud», esclamò Gaio dall’interno.
«Al momento abbiamo problemi anche a vedere il culo dei cavalli, signore», lo informò Magno, esagerando un po’. Gaio spinse la testa oltre il lembo della copertura di cuoio del carro.
«Oh, capisco cosa vuoi dire». Malgrado la neve avesse solo da poco cominciato a cadere fitta e dovesse ancora ricoprire i campi arati a ciascun lato della strada dritta, la visibilità era molto limitata. «Be’, credimi, Vespasiano, tuo nonno paterno e il tuo bisnonno materno furono entrambi qui appena ottantaquattro anni fa».
Vespasiano rifletté per qualche momento e poi si ricordò della sua storia. «Ma certo, solo su lati opposti del campo».
«Certamente, caro ragazzo. Mio nonno serviva sotto Augusto e Marco Antonio nell’Ottava Legione».
«E mio nonno, Tito Flavio Petrone, se ricordo bene ciò che mi ha detto mia nonna, era un centurione della Trentaseiesima Legione sotto il comando di Marco Bruto. Diceva che era composta per lo più dai suoi vecchi compagni pompeiani che si erano arresi a Cesare dopo la battaglia di Farsalo».
«È un peccato che non sappiamo vedere così lontano; tra tutti e due gli eserciti, schieravano quasi un quarto di milione di uomini. Un vero spettacolo».
«In entrambe le occasioni», ricordò Vespasiano a Gaio, «Petrone superò la prima battaglia e poi la sua legione venne massacrata nella seconda, venti giorni dopo, quando Bruto fu sconfitto. Lui riuscì a fuggire e riuscì a tornare nella sua città, a Cosa, ma faceva parte di quei circa duemila equites che Augusto costrinse a suicidarsi».
«Mentre il mio fu ricompensato con la terra di uno di quegli uomini». Gaio ridacchiò. «E adesso eccoci qui, dopo tutti quegli anni, discendenti di entrambe le fazioni coinvolte nella disgregazione della repubblica, che arranchiamo sul luogo della più grande battaglia tra cittadini romani che si conosca, in viaggio per fare il lavoro sporco per due liberti greci, ultimi beneficiari di quella battaglia. Parrebbe che malgrado tutte le proteste di libertà avanzate da entrambe le fazioni, il risultato sia stato il dominio incontrastato di un paio di ex schiavi. Mi chiedo: Augusto, Marco Antonio, Bruto o Cassio avrebbero potuto prevederlo? E, in tal caso, avrebbero fatto le cose in modo diverso?». Si sfregò via dalla faccia rubizza i fiocchi di neve, lanciò una rapida occhiata attorno a sé con aria mesta e poi sparì di nuovo all’interno.
«Certo, non fa alcuna differenza per la maggior parte di noi, dico bene?», affermò Magno con convinzione. «Se tu fossi stato un comune legionario, essere dal lato dei vincitori o da quello degli sconfitti in quella battaglia non avrebbe fatto un briciolo di differenza. Se fossi sopravvissuto, cioè. Solo poche legioni furono smobilitate; il resto tornò alle solite attività. Quali che furono i cambiamenti politici a Roma, la maggior parte delle legioni tornarono al rispettivo campo sulle frontiere a sorvegliare l’impero. L’unico mutamento che notarono fu che il giuramento era formulato in modo diverso, ma tutto il resto era uguale: i loro centurioni, il cibo, la disciplina, tutto era esattamente com’era prima. Perciò tutto quel sacrificio era andato ad esclusivo vantaggio di pochi uomini vanesi il cui senso dell’onore esigeva che si mostrassero impegnati a dire la loro nel modo in cui l’impero veniva gestito. Se solo si fossero resi conto che alla gran parte della gente non fregava un cazzo. Avrebbero potuto fare a meno degli eserciti e azzuffarsi tra di loro; un paio di centinaia di morti e tutta la faccenda sarebbe stata risolta, per la felicità di tutti».
Vespasiano rise, malgrado le labbra congelate. «Molto più facile. Ma non è andata così e il risultato di quella lotta e di tutti quei morti è stato dirottato da due egocentrici liberti».
«Ah! Ma per lo meno loro non hanno costretto un quarto di milione di uomini a combattere l’uno contro l’altro per impadronirsi del potere. In un certo senso, Pallante e Narciso hanno meno sangue sulle mani che non Augusto. Voi senatori siete quasi risentiti che abbiano raggiunto il potere senza una bella guerra civile in cui far morire migliaia di comuni cittadini. Questo li legittimerebbe ai vostri occhi. Il loro più grande crimine è essersi fatti strada in modo subdolo anziché randellando a destra e manca, come facevano quelle virtuose famiglie ai tempi della repubblica».
Vespasiano si scoprì incapace di controbattere a quell’affermazione, soffermandosi piuttosto a riflettere su quanto fosse vera. Seguendo quella linea di pensiero, Augusto era l’unico sovrano legittimo degli ultimi ottanta anni poiché si era fatto strada fino al potere con la forza.
Aveva creduto che il proprio risentimento nei confronti di Narciso e Pallante si basasse per lo più sul modo in cui avevano raggiunto il potere e come lo conservavano; ma il loro modo era meno legittimo di quello di Caligola? Anche lui era salito al potere con l’inganno e il sotterfugio, stando a quanto si diceva. Ma, d’altro canto, nessuno dei bisnonni dei liberti aveva ucciso i soldati del proprio avversario, a differenza di quanto avevano fatto i suoi antenati su quella pianura così lontana da Roma.
Pertanto doveva avere a che fare con chi i liberti erano, non con il modo in cui erano arrivati al potere: era quella la reale causa del risentimento crescente. Il risentimento che aveva provato quando Narciso, come aveva previsto Pallante, gli aveva ordinato di recarsi in una stanza privata dopo aver lasciato gli appartamenti di Pallante, era stato amaro. Il risentimento era cresciuto quando il liberto aveva affermato che la nomina di Vespasiano come ambasciatore in Armenia era una comoda copertura per fare una sosta in Macedonia e parlare con suo fratello. In quel modo avrebbe potuto fornire a Narciso le informazioni di cui aveva bisogno per sconfiggere Pallante. Quando pensava a Pallante, se lo ricordava come maggiordomo di Antonia. All’epoca, sapeva qual era il suo posto; adesso era artefice della politica imperiale. Era un uomo che era andato ben al di là della sua posizione e Vespasiano si rese conto per la prima volta che la reale causa del risentimento per quei due era l’invidia. Invidia per il fatto che persone di natali tanto umili potessero essersi elevate così tanto. Gli ex schiavi non avevano diritto a un tale potere. Lui proveniva da una famiglia molto più altolocata, tuttavia loro potevano ordinargli di fare cose che avrebbe preferito non fare. Cominciò a insinuarsi nella sua mente che fosse geloso del loro potere perché lo voleva per sé, e se lo voleva allora doveva prenderselo alla vecchia maniera: ci sarebbe arrivato randellando a destra e a manca, per usare le parole di Magno. Poi l’immagine della V sul fegato sacrificale gli balenò nella mente e, con sua grande sorpresa, parve calmarlo.
Man mano che il vento diminuiva e la neve si assottigliava, il carro passò sulla piana di Filippi e le mura della città comparvero alla vista. Vespasiano lasciò simili pensieri sul sito della battaglia che era stata così decisiva e si chiese invece come suo fratello lo avrebbe accolto dopo tre anni di separazione.
Prima di raggiungere le porte che davano accesso alla città dei vivi, attraversarono la città dei morti. C’erano tombe lungo l’ultimo quarto di miglio circa della Via Egnatia; larghe e piccole, con iscrizioni sia in latino che in greco a testimonianza della relativa ricchezza e delle origini del sepolto. Ma non passarono solo davanti ai morti nelle loro fredde e solenne dimore; c’erano anche i moribondi. Sospesi tra la vita e la morte, una ventina di uomini straziati dal dolore, nudi e crocifissi da poco, fremevano sulle teste di Vespasiano e Magno. Gemendo per la sofferenza, lottando per ogni respiro, con la pelle bluastra nel freddo pungente, alcuni singhiozzavano, altri mormoravano quelle che sembravano preghiere mentre la loro vita gocciolava via con straziante lentezza.
«Pare che Sabino abbia avuto parecchio da fare», osservò Magno lanciando un’occhiata a un giovane che fissava inorridito il chiodo incrostato di sangue conficcato nel suo polso destro. La neve turbinava attorno a lui.
Hormus trasalì a quella vista e abbassò la testa, tenendo gli occhi sulla superficie lastricata della strada mentre un gemito di lancinante dolore si levava da un uomo che, gambe e braccia divaricate, era su una croce distesa a terra. Il volume crebbe a ogni colpo del martello, che gli conficcava un chiodo alla base del pollice, brandito da un optio ausiliario con la destrezza di uno ormai pratico di crocifissioni. Gli ausiliari che tenevano l’uomo a terra ridevano delle sue sofferenze e facevano battute rivolti agli ultimi due prigionieri in catene che, con gli occhi colmi di paura e di lacrime e il fiato che si condensava dalle loro bocche, aspettavano il proprio turno di essere inchiodati a una croce.
«Deve essere stato un fatto serio se è stato obbligato a farne inchiodare così tanti», commentò Vespasiano, contando le croci. «Ventidue più quegli ultimi tre». Le esecuzioni non sorprendevano Vespasiano: all’arrivo nella capitale della Macedonia, il prefetto di Tessalonica aveva detto loro che il giorno prima il governatore era stato chiamato a sedare una sommossa a Filippi. Non era stato un problema dal momento che Filippi si trovava lungo il loro tragitto, a cavallo della principale strada per l’Oriente. «Direi che a questo punto mio fratello ha la situazione sotto controllo; non credo proprio che ce ne siano molti altri desiderosi di raggiungerli». Lanciò un’occhiata in direzione di un lacero gruppo di donne che, tristemente impotenti, assistevano all’esecuzione dei loro uomini, trasalendo a ogni martellata mentre l’ultimo chiodo veniva conficcato e le urla si intensificavano.
«Bene, qualsiasi cosa abbiano fatto, stanno imparando la lezione», disse Magno fermando il carro fuori dall’ingresso occidentale della città.
La vista di undici littori e l’esibizione del sigillo sul mandato imperiale di Vespasiano bastarono perché il centurione ausiliario di guardia consentisse il passaggio del carro senza perquisizione e l’invio di un messaggio a Sabino. Vespasiano smontò da cavallo e, aiutato da Hormus, indossò la toga senatoriale prima di attraversare la città con incedere maestoso, disdegnando di rivolgere uno sguardo alla popolazione, fino al Foro, al cui lato opposto si trovava la residenza del governatore. Lì si era radunata una folla, malgrado la neve, curiosa di vedere il prestigioso nuovo arrivato. Con i soldati ausiliari sull’attenti lungo i gradini, Vespasiano salì con la dignità di un proconsole che mai, neanche per un solo momento, avrebbe messo in discussione la sua autorità o il rispetto dovutogli. Sabino lo aspettava davanti alle alte doppie porte placcate di bronzo e lo strinse in un formale abbraccio, tra le acclamazioni degli astanti, prima di condurlo nell’edificio.
«Cosa ci fai qui?», domandò Sabino senza troppo affetto fraterno.
«Anche per me è un vero piacere vederti, Sabino. A parte vedere come stai e portarti notizie di nostra madre, di tua figlia e dei tuoi nipoti, sono qui con Gaio per parlarti».
Gli occhi di Sabino guizzarono nervosi su Vespasiano. «Sei qui per la faccenda della delegazione partica?»
«Il fiasco della delegazione partica, intendi?». Vespasiano si godette l’espressione sofferta che offuscò la faccia di Sabino. «Sì, ma non per portarti un richiamo ufficiale. Malgrado il danno che il tuo fallimento ha arrecato alla nostra famiglia, sono riuscito a fare un accordo con Pallante perché tu venga sollevato da ogni responsabilità».
«Come ci sei riuscito?»
«Ringraziami e te lo dirò».
Sabino serrò le labbra. «Grazie».
«Figurati».
«Ma penso che la spiegazione dovrà aspettare fino a cena. Ho sospeso un processo quando ho ricevuto il messaggio del tuo arrivo. Dovrei proprio concluderlo».
«Aspetterà fino a cena». Vespasiano abbandonò la strascicata cadenza rurale e assunse quella chiara e stentorea della vecchia aristocrazia. «Immagino che tu ceni all’orario consueto, anche così lontano da Roma».
Sabino sorrise suo malgrado. Diede una pacca sulla schiena del fratello minore. «Sai, è davvero bello vederti, stronzetto».
Sabino prese posto in fondo alla sala udienze dall’alto soffitto, nella residenza del governatore; su entrambi i lati furono allestiti bracieri, a integrazione del calore che si levava dall’ipocausto sotto il pavimento, che non riusciva a scaldare tutta la vasta stanza. Vespasiano, Gaio e Magno si infilarono tra le doppie porte quando Sabino fece segno a un centurione di portare l’imputato al suo cospetto; un paio di scribi, seduti a scrivanie laterali, aspettavano di mettere a verbale gli atti. Una donna prossima alla cinquantina fu condotta dentro da due ausiliari; i loro passi chiodati riecheggiarono in una sala altrimenti vuota, poiché Sabino aveva deciso di tenere il processo lì per via della temperatura nel Foro. Poiché l’accusata non era né un cittadino romano né appartenente al sesso maschile, non potevano esserci appelli contro la decisione del governatore.
«Dove eravamo arrivati?», chiese Sabino a uno degli scribi.
L’uomo consultò la tavoletta davanti a sé. «La vedova, Lidia di Tiatira, ha ammesso di aver dato al sobillatore, Paolo di Tarso, alloggio durante la sua permanenza qui a Filippi, due anni fa».
«Ah, sì». Sabino osservò la donna ben vestita e evidentemente danarosa al suo cospetto. Teneva i capelli pudicamente coperti, le mani serrate e gli occhi bassi: il ritratto di una matrona rispettabile. «Hai consentito a Paolo di diffondere i suoi sovversivi insegnamenti sotto il tuo tetto?»
«Avevamo incontri di preghiera quasi tutte le sere», rispose Lidia in tono pacato.
«Deve essere una seguace di Paolo, quel brutto bastardo con le gambe storte», bisbigliò Vespasiano a Magno.
«Chi è, caro ragazzo?», domandò Gaio.
«È un predicatore che va in giro per l’Oriente a causare disordini nel nome di quell’ebreo che Ponzio Pilato aveva ordinato a Sabino di crocifiggere quando era in Giudea».
Magno sputò disgustato e poi asciugò il pavimento con un piede, ricordandosi dove si trovava. «L’ultima volta che l’abbiamo visto è stato ad Alessandria, quando era impegnato a seminare zizzania tra i greci e gli ebrei. Non che avessero bisogno di troppo aiuto».
Sabino stava continuando l’interrogatorio. «E in occasione di questi incontri diceva ai suoi seguaci di non fare sacrifici all’imperatore quando gli rinnovavano il loro giuramento? Dovevano invece affermare il diritto di fare un sacrificio per conto dell’imperatore e non a lui, come fanno gli ebrei, anche se gran parte dei suoi seguaci qui sono macedoni, dico bene?».
Lidia non sollevò lo sguardo da terra. «C’è solo un dio e Yeshua è suo figlio».
Gaio aggrottò la fronte. «Un solo dio? Che sciocchezze sono mai queste? Chi è questo Yeshua?»
«Un parente di Giuseppe d’Arimatea, il mercante ebreo; quello che ci ha aiutati a salvare Sabino dalla valle di Sulis in Britannia. Ricordi che te ne abbiamo parlato?», rispose Vespasiano, rammentando con un brivido i druidi che avevano evocato la dea Sulis nel corpo di una bambina sacrificata. «Giuseppe d’Arimatea onorava Yeshua come un maestro, ma questo Paolo lo ha trasformato in una specie di dio, un dio parecchio esclusivo, proprio come quello ebraico, da quello che mi sembra di capire».
Sabino lanciò un’occhiata a Vespasiano, chiaramente seccato dal brusio di voci nell’angolo della sua aula di tribunale, e poi si rivolse di nuovo all’imputata. «Sei ebrea?»
«Sono macedone e prima di conoscere Paolo ero una timorata di Dio».
«Timorata di Dio? Che roba è?»
«Non siamo ebrei ma veneriamo il loro dio. Non seguiamo le regole alimentari degli ebrei e gli uomini non si sottopongono alla circoncisione. Paolo dice che come seguaci di Yeshua possiamo onorare il loro dio senza diventare ebrei».
Sabino non parve affatto colpito. «Io ho interrogato Yeshua».
«Hai parlato con lui?», domandò Lidia, dimenticando la sua posizione.
«Sì, prima di giustiziarlo».
Lidia sgranò gli occhi a quella rivelazione. «Tu hai crocifisso il Cristo?»
«No, ho crocifisso un uomo chiamato Yeshua che è morto come qualsiasi altro uomo. E posso dirti che non gli piacevano i non ebrei. Anzi, mi chiamava “cane gentile”. Perciò qualsiasi sciocchezza vi stia dicendo questo Paolo non proviene dagli insegnamenti di Yeshua. Paolo li sta travisando e nel fare questo ha provocato un gran numero di morti. Sai che era il capitano della guardia del sacerdote supremo e fu mandato a reclamare il corpo di Yeshua dopo che era stato crocifisso per poterlo seppellire in segreto? Perseguitava i seguaci di Yeshua e io gli chiesi perché. Di cosa aveva così paura? E lui rispose: “Perché porterebbe cambiamento”. Eppure adesso sembra che stia facendo proprio la cosa che temeva. Vuoi davvero affidargli la tua vita? Puoi salvarti dicendomi dove si trova quest’uomo che ha cercato di uccidere la donna di Yeshua e i suoi bambini».
«Salvai la moglie e i bambini di Yeshua da Paolo a Cirene, quando stava cercando di cancellare ogni traccia della discendenza e degli insegnamenti di Yeshua», spiegò Vespasiano a Gaio mentre Lidia rifletteva sulla domanda.
Gaio parve confuso. «Ma adesso va in giro a diffonderli?»
«Sembra che abbia avuto un completo cambio di rotta; anche se Alessandro, l’alabarca degli ebrei alessandrini, ritiene che abbia semplicemente scoperto un modo per rendersi importante». Vespasiano chiuse gli occhi, pensieroso. «Ricordo che disse di aver trovato un modo per capovolgere il mondo, e che lui stesso sarebbe stato finalmente in cima».
Lidia sollevò lo sguardo su Sabino. «Io sono stata la prima persona che Paolo ha battezzato in questa parte dell’impero, qui a Filippi, nel fiume Gangites. Non lo tradirò».
«Tu invece sei stata tradita da uno dei suoi seguaci a cui non andava a genio di passare le sue ultime ore sulla croce».
«Subirò volentieri quella sorte piuttosto che diventare una traditrice».
Sabino fece una pausa; si capiva che non era pronto a pronunciare la sentenza contro la donna. «Qual era il mestiere di tuo marito prima che morisse?»
«Commerciava la porpora, non la porfiria ma la più economica tintura vegetale che proviene dalla mia città natale».
«E adesso sei tu a gestire l’attività?»
«Come vedova, sono autorizzata dalla legge».
«E sei disposta a vedere sprecato tutto il duro lavoro di tuo marito? Perché, se ordino la tua esecuzione, confischerò la tua attività. Sei così egoista da pensare che Paolo valga il lavoro di una vita del tuo defunto marito?».
Il silenzio di Lidia rispose alla domanda.
Sabino calò il pugno sul bracciolo della sedia curule. «Molto bene!», urlò. «Portatela alle celle e lasciatela lì qualche giorno a riflettere sulla sua posizione».
Gli ausiliari trascinarono via Lidia.
«Lo troverò», le gridò dietro Sabino, «che tu finisca la tua vita agonizzando su una croce o nell’agio tra i guadagni dell’attività di tuo marito. Troverò Paolo!».
«Ce l’avevo», ringhiò Sabino, dirigendosi alla porta della sala. «Ce l’avevo quell’arrogante piccolo bastardo».
«Dove, caro ragazzo?», chiese Gaio, sforzandosi, con la sua andatura a papera, di mantenere il passo furioso di Sabino.
«Ce l’avevo qui, zio, rinchiuso in prigione». Sabino picchiò sulla porta prima che lo spaventato ausiliario di guardia avesse modo di aprirla del tutto.
«Qui? Perché non l’hai crocifisso? Se c’è una cosa che si merita, è la crocifissione».
Vespasiano capì la ragione dell’apparente mancanza del fratello. «Sarà, ma è l’unica cosa che non si può fare. È un cittadino romano».
«Sì? Allora perché va diffondendo idee così anti-romane come non fare un sacrificio all’imperatore?»
«È per questo che è stato arrestato?», domandò Magno mentre procedevano lungo un corridoio freddo e in penombra.
Sabino rallentò il passo. «No, è stato prima che sapessimo che incoraggiava cose del genere. Affermava di aver scacciato uno spirito maligno dalla schiava di uno dei più importanti magistrati del posto; era una nota veggente. Solo Mitra sa se l’abbia fatto o meno, ma il risultato finale è stato che i suoi poteri divinatori sono spariti e il magistrato era furioso perché ha perso gli introiti derivanti dalle divinazioni della ragazza. Ha fatto fustigare Paolo e il suo compagno, poi li ha fatti gettare in prigione per aver manomesso la sua proprietà senza autorizzazione e ha riferito il caso a me. Ho dovuto decidere cosa fare con l’odioso stronzetto; non potevo giustiziarlo perché non era un reato capitale e i suoi seguaci non si erano ancora rifiutati di prestare giuramento all’imperatore. Poiché aveva la legge dalla sua parte, ero sul punto di lasciarlo andare quando c’è stato un terremoto, non molto forte, ma abbastanza da rompere le porte della prigione. Così Paolo e il suo compagno erano liberi. Naturalmente, questo è stato visto come un intervento divino e la dimostrazione che Paolo deve essere amato dal suo dio, che è così potente da liberarlo dalla prigionia. Tuttavia, lui non è fuggito ma è rimasto in cella e ha preteso che riconoscessi che era stato trattato ingiustamente. Purtroppo aveva ragione e ho dovuto imporre al magistrato di scusarsi con lui per averlo fatto frustare. Ottenuto questo, se n’è andato e il carceriere è diventato anche lui suo seguace, così come qualche altra decina in città, alcuni dei quali sono al momento puniti fuori dalle porte. È stato terribile. Poi è sparito e ho perso ogni traccia di lui, anche se so che era a Tessalonica, perché ho dovuto farne crocifiggere qualcuno anche laggiù. Lascia una traccia».
Le mascelle di Gaio fremettero di indignazione. «Allora perché non l’hai seguita?»
«Perché non è continua; bisogna aspettare di vedere dove il cancro comincia a spuntare la volta successiva e poi sperare che lui non sia già andato via. Pare che si sia diretto a sud, in Achea. Ho avvertito il governatore, Gallione».
«Il fratello di Seneca?»
«Sì, ma non ha ancora saputo niente di lui. A quanto pare, per il momento l’abbiamo perso».
«Al momento sei bravo a perdere le cose», osservò Gaio.
Sabino si fermò davanti a una porta chiusa, comprendendo esattamente a cosa alludeva lo zio. «Avevo il mal di mare, non riuscivo a pensare in modo lucido». Si girò e varcò la soglia di un triclinium arredato con un tavolo e divani pronti per il pasto serale. «Hanno mandato tre navi come diversivo e mentre noi eravamo impegnati a prenderle, i parti ci sono sfuggiti a bordo di una veloce liburna. Non avevamo speranza di raggiungerli».
Vespasiano scrollò le spalle, minimizzando la spiegazione mentre il maggiordomo faceva irruzione con Hormus e quattro schiave al seguito. «Be’, questo ci ha cacciato in un sacco di inutili guai e il risultato finale è che sono costretto ad andare in Armenia». Si lanciò nel racconto degli eventi seguiti al fallimento di Sabino con i parti, mentre le schiave prendevano le loro toghe e scarpe; poi, provvisti di babbucce, si lavarono le mani in vista della cena.
«Ma cosa potrei mai sapere che dimostri che c’è Agrippina dietro tutto questo?», domandò Sabino quando suo fratello ebbe finito di raccontare.
«Qualcosa che colleghi la delegazione a lei. Qualcosa che lo zio e io riconosceremo. Dicci tutto quello che sai di loro».
Sabino si grattò i capelli radi e accettò una tazza di vino dal suo maggiordomo. «Be’, l’agente ha detto che ce n’erano tre riccamente vestiti, come veri e propri re, per fare colpo. Erano uomini importanti, il loro capo era un cugino di Vologase, il Grande Re della Partia. Hanno portato in dono oro, incenso e spezie per ciascuno dei re che hanno incontrato».
«Come si chiamavano?»
«C’era il re della Dacia, Coson; Spargapise degli Agatirsi – sono degli sciiti che venerano dei traci e pare amino tingersi i capelli di blu. Poi c’erano Orole dei geti e Wisimar dei bastarni, che sono germanici. E innumerevoli capi di tutte le sottotribù di ciascun regno».
Vespasiano guardò lo zio mentre la gustatio di sei piatti diversi veniva portata nella stanza. «Questi nomi ti dicono qualcosa?»
«Mio caro ragazzo, sembrano tutti assolutamente barbarici».
Magno, com’era prevedibile, parve altrettanto a corto di idee.
«Hai scoperto di cosa hanno discusso?».
Sabino scosse la testa rammaricato e si servì di una porzione di insalata di porro e uova. «No, non ho potuto rimandare indietro l’agente perché ha insistito per fare rapporto al suo vero padrone».
«Ma noi non sappiamo chi è».
«Oh, invece sì. Il suo padrone, o meglio, la sua padrona, è la nostra vecchia amica, l’ex regina Trifena».
«Trifena! Sei in contatto con lei?»
«Non proprio; ma di tanto in tanto condivide informazioni con me. Ha dato istruzioni ai suoi agenti di riferirmi cose che ritengono essere d’interesse per Roma. Mi è di grande utilità».
«È anche la cugina di Agrippina», disse adagio Gaio, con la bocca piena di salsiccia mezza masticata.
«Immagino che sia un legame ma non dimostra che Agrippina abbia organizzato questa delegazione e, a ogni modo, perché Trifena dovrebbe informarti della sua esistenza se fosse in combutta con la cugina?»
«Perché, caro ragazzo, lei non sa della delegazione. Deve essere così. Sarà anche la pronipote di Marco Antonio ma, dall’altro ramo della famiglia, è una principessa del Ponto».
«Pensavo che fosse trace».
Gaio agitò davanti al nipote quanto restava della salsiccia. «È sposata con un re trace ma non ha sangue trace. È greca. La sua famiglia fornisce re e regine a metà dei regni clienti dell’impero e oltre. Il fratello minore è re Polemone del Ponto, mentre quello maggiore, Zenone, era anche conosciuto come Artaxias iii di Armenia». Gaio lasciò aleggiare l’ultima parola per un momento mentre tutti riflettevano sul suo significato e si chiedevano se non fosse solo una coincidenza. «Quando è morto», continuò Gaio, «i parti hanno cercato di imporre il proprio re sul trono armeno ma non l’abbiamo accettato, perciò siamo scesi al compromesso di vedere incoronato Mitridate, il fratello del re iberiano».
«Allora perché Trifena vorrebbe sostituire lo zio con il nipote Radamisto?»
«La madre di Radamisto è figlia di Artaxias, il fratello di Trifena. Mitridate non ha alcun legame con lei, ma Radamisto è suo nipote. Sta facendo in modo che alla sua famiglia di sangue resti il controllo dell’Armenia».
«Allora perché avvertirci della delegazione che sembra aver innescato tutto quanto?»
«Perché lei non ne sapeva niente. Non è stata la delegazione a scatenare la crisi, ma la sua tempistica è stata calcolata in modo da farla apparire responsabile. Trifena non sta commettendo una slealtà nei confronti di Roma; semmai sta rafforzando la nostra posizione in Armenia sostituendo un re fantoccio, frutto di un compromesso, con uno controllabile. Radamisto sarà leale perché Trifena farà in modo che lo sia».
«Quindi Narciso si sbaglia», intervenne Sabino. «Agrippina non ha commesso tradimento».
Un sorriso si allargò adagio sul volto di Vespasiano quando capì come stavano realmente le cose. «No, fratello, non si sbaglia. Tutt’altro. Narciso ha visto uno schema. L’agente di Trifena venuto da te è stato assassinato da un sicario di Agrippina mentre andava a informare la sua padrona; il liberto di Narciso, Agarpeto, ha intercettato il messaggio dell’assassino. Questo ci dice due cose: primo, Agrippina non voleva che Trifena sapesse della delegazione e, secondo, Agrippina doveva esserne a conoscenza. In quale altro modo avrebbe potuto ordinare ai suoi di impedire che la notizia giungesse alle orecchie di Trifena?».
Magno vuotò la sua tazza e la allungò perché fosse riempita di nuovo. «E perché non voleva che Trifena lo sapesse?».
Gaio aveva seguito il ragionamento di Vespasiano. «Perché, Magno, le avrebbe fatto capire che Agrippina l’aveva usata. Scommetto che è stata Agrippina a suggerire a Trifena di sostenere l’usurpazione del trono armeno da parte del nipote e direi che i tempi sono stati organizzati in modo tale che sembrasse innescata dalla delegazione che attraversava l’Iberia, così noi avremmo dato la colpa ai parti e fatto intervenire un esercito per rimettere Mitridate sul trono».
Sabino sembrava confuso. «Ma tu hai detto che Radamisto sarebbe leale a Roma. Perché avremmo voluto sbarazzarci di lui?»
«Questa è la parte sagace del piano di Agrippina: Trifena non sospetta niente, acconsente prontamente a mettere suo nipote sul trono. Per come la vede lei, è un bene per la sua famiglia ed è un bene per Roma. Ma poi noi vediamo che Radamisto invade dall’Iberia nel preciso momento in cui una delegazione partica si trova in quel regno e perciò deduciamo che le due cose siano collegate, che si tratti di un complotto dei parti. Nel frattempo, Agrippina manovra Claudio affinché convochi il generale emergente di Roma, Corbulone, e gli fa assegnare una provincia vicina all’Armenia. Adesso immagina lo scenario, Sabino».
Sabino sospirò. «Noi esigiamo che Mitridate torni sul trono ma probabilmente siamo in ritardo, poiché probabilmente sarà stato assassinato insieme alla sua famiglia. Poi negoziamo con Radamisto, che rifiuta di andarsene. La Partia considera il nuovo re troppo filo-romano per via del legame di sangue con Trifena ed esige che venga rimosso, cosa che ci confonde perciò lasciamo la questione in sospeso. Questo provocherà una risposta militare della Partia e noi dovremo contrattaccare con un generale provetto che, guarda caso, si trova nella regione, e in men che non si dica, siamo in guerra con la Partia».
Vespasiano allargò le mani per sottolineare la semplicità dello schema. «Proprio così. E allo stesso tempo, le tribù del Nord attraversano in massa il Danubio, come da accordi con la delegazione, e la situazione comincia a sembrare parecchio tetra. E su chi ricadrà la colpa? L’imperatore: vecchio, bavoso, ubriaco quasi tutto il tempo e affatto popolare presso il Senato. È tempo che se ne vada e nessuno indagherà troppo a fondo se d’un tratto muore stecchito. E se lo fa in fretta, ci sarà un unico possibile successore: Nerone. Ecco cosa c’è alla base di tutto quanto. Assicurare che Claudio venga rimosso prima che Britannico raggiunga l’età adulta e complichi la questione ereditaria. Nerone sale al trono, Corbulone ottiene una grande vittoria e Nerone, nipote del grande e marziale Germanico che notoriamente prevalse anche in Oriente, si prende il merito, celebra un trionfo nel primo anno circa di regno, diventando molto popolare e consolidando la sua posizione. Geniale».
«Perciò la prova del tradimento di Agrippina è con Trifena», concluse Gaio.
«Sì, dobbiamo parlare con lei».
«Si trova a Cizico, sulla costa asiatica della Propontide», li informò Sabino, lanciando un’occhiata alla finestra che dava sul cortile. Stivali chiodati lo stavano attraversando con urgenza. «Organizzerò una nave per voi».
«Allora possiamo passarci mentre andiamo in Armenia».
«Vengo con voi».
«Perché vorresti fare una cosa del genere? Passerai tutto il viaggio a vomitare».
«Ho bisogno di parlare con lei della necessità di eliminare ogni resistenza tracia nei confronti di Roma una volta per tutte. Se siamo minacciati dalle tribù del Nord, non posso permettermi di avere nobili sleali a sud. Lei saprà chi sono, conoscerà le loro debolezze e saprà come corromperli o minacciarli. Dopo aver parlato con Trifena, potete lasciarmi a Bisanzio. È tempo che faccia visita alla città e le dia un assaggio della giustizia romana. Voi potete continuare su per il Bosforo fino all’Eusino e poi lungo la costa settentrionale della Bitinia fino a Trapezus1 nel Ponto. Da lì sono circa duecento miglia su terreno montagnoso fino in Armenia».
Magno allungò la tazza perché gliela riempissero ancora mentre uno schiavo entrava con un vassoio di spiedini di agnello grigliato. «C’è una cosa che non torna. Perché tutto questo funzionasse, Agrippina doveva conoscere i tempi della delegazione partica. Come era possibile?»
«È questo il fatto che dimostra il suo tradimento: non poteva esserne a conoscenza a meno che non sia stata lei a istigarla. È ciò che Narciso sospettava ma non poteva dimostrare. Si è messa in contatto con i par…». Vespasiano fu interrotto dal centurione ausiliario che lo aveva fatto entrare in città e che adesso fece irruzione nella stanza.
Il littore anziano di Vespasiano lo seguì a ruota.
«Cosa significa tutto questo?», quasi urlò Sabino.
«Mi dispiace, signore, devi scusarmi», ansò il centurione, i cui occhi sfrecciarono sui presenti nella stanza, «ma devi venire all’ingresso occidentale. C’è stato un attacco».
Vespasiano e Sabino si incamminarono con incedere dignitoso dietro al centurione, che stava facendo del suo meglio per non mettersi a correre. I littori di Vespasiano portarono torce per illuminare la strada attraverso la città, adesso sepolta sotto una coltre di neve.
«Chiedo scusa per la cena; il cuoco è del posto», disse Sabino, cercando di mantenere un tono disinvolto. «Ho lasciato il mio cuoco a Tessalonica quando sono corso qui qualche giorno fa per prendere quegli idioti che hanno scatenato un putiferio invece di fare il sacrificio annuale».
«Cosa fa pensare loro di avere il diritto di modificare il giuramento di fedeltà?», domandò Gaio, masticando uno spiedino di agnello mentre li seguiva con la sua andatura a papera, chiaramente in disaccordo con le riserve di Sabino circa le doti del cuoco indigeno. Hormus lo seguiva con degli spiedini di scorta.
Sabino sospirò. «Paolo li ha convinti che al di sopra di tutto non c’è l’imperatore, o sua moglie e i liberti, ma questo Yeshua e suo padre, che era il dio ebraico ma adesso sembra essere il dio di tutti. A ogni modo, dopo che le cose hanno raggiunto il culmine, ho dato loro la possibilità di scegliere tra obbedire alla legge o escludersi per sempre dalla società».
«E quelli che hanno preso la decisione sbagliata sono appesi fuori dalle porte, se capisci cosa voglio dire», osservò Magno, stringendosi il mantello attorno alle spalle mentre Gaio porgeva a Hormus uno spiedino terminato e ne riceveva in cambio uno nuovo.
«Sì, circa la metà di loro ha fatto quella scelta. Proprio non capisco; forse amano l’idea di morire allo stesso modo del loro amato Yeshua». Sabino rabbrividì. «Era un uomo duro. Non penso di averne mai conosciuto uno con una tale forza di volontà. Era come se potesse farti cadere con uno solo sguardo di quei suoi occhi penetranti. Ma, non so perché, non riuscivo a detestarlo. Ho dovuto dare ordine di affrettare la sua morte in modo che il corpo non fosse ancora sulla croce nel giorno che gli ebrei chiamano sabbath, il loro giorno sacro ogni sette. Ma invece di fargli spezzare le gambe, ho ordinato una morte misericordiosa e l’ho fatto trafiggere da una lancia. Non so perché, ma non volevo che soffrisse. Poi ho lasciato che sua madre, sua moglie e il congiunto Giuseppe d’Arimatea portassero via il corpo, anche se il sommo sacerdote aveva mandato i suoi uomini a prenderlo. Per lo più per dare fastidio a Paolo».
«Ma ha anche reso Giuseppe d’Arimatea tuo debitore», osservò Vespasiano quando giunsero in prossimità della porta occidentale, «e senza di lui saresti morto per mano dei druidi».
Sabino si soffiò sulle mani, sfregandosele. «Vero, ma adesso vorrei averlo dato ai sacerdoti perché lo seppellissero in segreto. A questo punto non avremmo tutte quelle idiozie su Yeshua che ritorna in vita dopo tre giorni, proprio come fece il mio signore Mitra, per dimostrare che la morte si può sconfiggere».
«Sarebbe un messaggio potente se si riuscisse a credervi».
Sabino fece segno di aprire le porte. «Da quanto ho visto, è un messaggio potente per i poveri che non hanno niente a questo mondo».
«Ci viene promesso tutto nel prossimo».
Le porte si aprirono ma né Vespasiano, Sabino, Gaio o Magno le varcarono. Si limitarono a fissare sconvolti chi aveva pronunciato quelle parole. Hormus abbassò lo sguardo, rosso in viso.
«Sei uno di loro, Hormus?», domandò Vespasiano, ripresosi.
«Li conosco, padrone. Ce ne sono sempre più tra gli schiavi nelle case del Quirinale ma non faccio parte della loro setta».
«Cosa sai della setta?».
Hormus teneva stretti al petto gli spiedini di agnello con entrambe le mani, come se fossero uno scudo. «Solo che Dio ci ama tutti, anche quelli senza importanza come me, e possiamo arrivare a lui tramite gli insegnamenti di suo figlio, Yeshua, il Cristo, che è morto per noi».
«Il mio signore Mitra è la via per giungere a Dio», dichiarò sprezzante Sabino, voltandosi e varcando le porte. «Noi seguiamo la sua luce e alla cena del Signore veniamo purificati dal sangue di un toro e nutriti con la sua carne».
«Loro vengono purificati dal sangue di Yeshua, l’Agnello di Dio, e si sostentano mangiando il suo corpo».
Gaio arricciò il naso. «Ma è disgustoso».
Vespasiano scosse la testa mentre seguiva il fratello oltre le porte. «Non credo che sia nel vero senso della parola, visto che è morto diciannove anni fa. È simbolico. Magno e io l’abbiamo visto fare».
«Ah, sì?», domandò Magno confuso.
«Sì, con Giuseppe d’Arimatea nella sua casa sul tor in Britannia. Ha riempito una tazza di vino, ricordi? Ha detto che la tazza era appartenuta a Yeshua». Vespasiano alzò lo sguardo sulla fila di croci in controluce, tutte occupate. «Poi ha diviso una pagnotta di pane e ci ha fatto bere e mangiare. All’epoca ho pensato che fosse strano ma poi mi sono ricordato che qualcuno ad Alessandria aveva detto che Paolo affermava di trasformare pane e vino nel corpo e nel sangue di Yeshua. Allora ho capito che Giuseppe d’Arimatea aveva appena fatto la stessa cosa».
«Be’, non l’ha fatto troppo bene, no? Io ho mangiato pane e bevuto vino».
«Lo so, hai vuotato la tazza. Ma il punto è che si tratta di una cosa simbolica».
«Allora, cos’è successo qui, centurione?», volle sapere Sabino, fermandosi davanti a una croce distesa a terra e senza il suo occupante. Vicino giacevano due corpi. Fece segno a uno dei littori di avvicinarsi con la torcia.
Il centurione deglutì. «Non lo so bene, signore. Ho fatto chiudere le porte al tramonto come al solito e ho lasciato un paio di ragazzi all’esterno per tenere d’occhio le croci».
«Solo un paio?».
Il centurione fece una smorfia. «Be’, con questo tempo e tutto quanto non pensavo…».
«No, non pensavi, esatto». Sabino si chinò a guardare i corpi dei due ausiliari morti. «Hanno tagliato la gola a entrambi, perciò immagino che siano stati colti alle spalle da chiunque abbia messo giù questa croce». Toccò una delle ferite. «Il sangue si sta asciugando, perciò sono morti da almeno mezz’ora. Quando li hai trovati, centurione?»
«Quando è uscito il loro cambio. Sono venuto dritto da te per farti rapporto».
«Come se questo serva a giustificare la tua negligenza. Una pattuglia di appena due uomini fuori dalle mura di notte». Sabino scosse la testa incredulo nel guardare la croce vuota. I chiodi erano stati strappati ma la loro posizione era indicata dal sangue che luccicava alla luce della torcia. «Chi hanno tirato giù?»
«Il ragazzo, signore. Non conosco il suo nome».
Sabino prese la torcia dal littore e avanzò lungo la fila di croci accostando la fiamma al torso di ciascuna vittima; qualcuno gemette ma nessuno mostrò alcun segno di forza, il loro respiro era affannoso e superficiale man mano che la vita scivolava via. «Be’, non supererà la notte e, a ogni modo, sarebbe uno storpio se lo facesse». Abbassò lo sguardo sulla croce vuota. «Sembra abbia bisogno di un occupante, centurione».
«Ehm, sì, signore».
«Prendi quella Lidia e inchioda lei».
«Cosa, adesso?»
«Sì, adesso! Non permetterò che si interferisca con la giustizia romana e mostrerò cosa succede a chi ci prova». Sabino spinse la torcia nelle mani del centurione e girò i tacchi. «Ma chi credono di essere queste persone? Tu che sei l’esperto, Hormus, dimmi: in cosa credono davvero?»
«Credono che tramite Yeshua i mansueti guadagneranno forza nella prossima vita».
«Chi cazzo sono i mansueti?», chiese Magno, prendendo da Hormus uno degli spiedini di Gaio. «Non ne ho mai sentito parlare. Cosa hanno a che fare con questa faccenda?».
Vespasiano era pensieroso. «Penso che nel contesto della religione di Paolo, i mansueti siano più o meno tutti quelli che nell’impero non hanno rango di magistrato, non sono mercanti o nell’esercito. Relativamente poche altre persone hanno un reale benessere economico, perciò indirizzare un messaggio pieno di promesse ai mansueti che vogliono di più è molto astuto».
«Fottuti mansueti!».
Gaio puntò su Sabino uno spiedino mezzo finito. «L’unica cosa che capisco è che si tratta di un pericoloso nuovo movimento. Se cominci a far credere a questi mansueti che tutto sarà di gran lunga migliore in un’altra vita, in modo che smettano di preoccuparsi di cosa combinano in questa, allora si scatenerà il caos, cari ragazzi». Agitò lo spiedino in direzione degli uomini crocifissi. «Guarda quegli idioti di cui hai dovuto occuparti ieri: praticamente si sono inchiodati da soli alle loro croci, a giudicare da quello che hai detto. Certo, non è un modo molto piacevole di morire, non come distendersi in una vasca con una vena aperta, ma se pensano di essere diretti in un altro mondo in cui non saranno più mansueti, allora ci aspetta un’intera modesta classe sociale che non teme la morte. A quel punto in che modo li controlleremo? E chi lavorerà? Sarà come un’altra rivolta di schiavi; sono poche le persone che non rabbrividiscono al nome di Spartaco. Se la cosa continua, i nomi di Paolo e Yeshua rievocheranno le stesse brutte sensazioni».
«Cosa consiglieresti, zio?», chiese Sabino, tornando verso le porte.
«Uccidili tutti quanti; mandali al loro mondo non-mansueto più in fretta che puoi, prima che questa cosa cominci a crescere. Non imprigionarli e non mandarli alle miniere, perché non faranno altro che contagiare altre ignare persone mansuete con le loro stupidaggini. Ma, soprattutto, devi trovare e giustiziare questo Paolo e mettere fine alla porcheria che sta diffondendo».
1 L’odierna Trebisonda (n.d.t.).