CAPITOLO X
La velocità con cui Vespasiano condusse la ii Cappadocia di Cotta fuori dalla porta settentrionale, dopo averla fatta schierare in due ranghi, ciascuno di cinque centurie, e poi avanzare verso le linee di assedio, innervosì i coscritti, come sperato. Una volta che l’eco dei comandi urlati dai centurioni si fu spenta, gli ottocento uomini marciarono in silenzio, con i passi regolari più minacciosi di qualsiasi grido di battaglia, l’incedere inesorabile sul campo più sinistro di una carica e la precisione della manovra con cui gli scudi vennero su e le braccia destre andarono indietro pronte a lanciare i loro giavellotti più devastante per il morale dei coscritti che l’impatto della scarica stessa. Prima che le agili punte sibilassero tra le linee parte, il bestiame umano si era dato alla fuga nonostante il sommario massacro ad opera dei loro spietati ufficiali, che ben presto furono travolti dal terrore della mandria. Corsero a nord, attraverso l’artiglieria, spazzando via gli equipaggi, e continuarono verso il Tigri, verso il ponte.
Ma l’ampiezza del ponte permetteva il passaggio di solo otto uomini alla volta.
Fermandosi solo per conficcare la punta della spada nella gola di quelli calpestati nell’ondata di panico, gli uomini della coorte ausiliaria ii Cappadocia attraversarono le linee d’assedio in buon ordine e spinsero i coscritti fino al fiume. Dietro di loro, le altre quattro coorti cominciarono a uscire incolonnate dalla porta settentrionale. I romani stavano abbandonando Tigranocerta, lasciando la città alle fiamme e i cittadini senza difesa.
Il calcolo di far passare più di tremila uomini terrorizzati su un ponte largo appena otto passi non si risolse a favore dei coscritti e molti rimasero schiacciati nella calca. Molti altri affogarono nelle profonde acque del Tigri, nelle quali si erano gettati in preda alla disperazione, pregando che Apam Napat, il dio del fuoco delle acque dolci, li salvasse. Ma gli occhi della divinità erano altrove, concentrati sui fuochi provocati dalla nafta che divampavano nella città; a centinaia furono spazzati via e centinaia finirono calpestati. E altre centinaia furono abbattuti sulla sponda nord dagli arcieri a piedi e a cavallo iberiani e armeni dell’esercito di Radamisto mentre attraversavano il ponte sul Kentrites. Il resto dell’esercito, la cavalleria pesante, la fanteria di coscritti e le salmerie li seguivano lentamente.
«Fa’ attraversare il ponte ai tuoi ragazzi e schieratevi sull’altro lato, Cotta», ordinò Vespasiano al prefetto ausiliario. «Difendetelo mentre le altre coorti lo attraversano».
«Attraversare?»
«Sì, prefetto, attraversare. Andiamo a nord e lasciamo Tigranocerta ai parti».
«Ma…».
«Niente ma, Cotta. Difendete il ponte così possiamo unirci a Radamisto».
Cotta eseguì un perplesso saluto mentre Vespasiano, giratosi, vedeva, luccicante nel sole sempre più forte, un muro di ferro e bronzo apparire da dietro le mura orientali di Tigranocerta. I catafratti parti erano venuti per dare battaglia al nemico non per azzuffarsi tra di loro. Dietro al muro metallico, erano ammassati gli arcieri a cavallo. In testa all’avanzata, c’era un cavaliere abbigliato in modo più sontuoso degli altri; Vespasiano sapeva che per sopravvivere a quella giornata, doveva andare a parlare con lui e continuare a farlo parlare per un po’, perché se quella cavalleria caricava i suoi ausiliari, il peso li avrebbe spazzati via dal campo.
Camminando veloce contro la marea di centurie che uscivano dalla città, Vespasiano trovò in fretta Mannio in testa alla sua coorte che nascondeva l’evacuazione, disposta verso est. «Di’ ai tuoi centurioni di schierare gli uomini in formazione profonda di fronte alla cavalleria pesante, prefetto, e poi raggiungimi davanti a loro. Di’ a Fregallano di unirsi a noi». Mentre le centurie si disponevano in una linea profonda otto uomini e prendevano posizione fianco a fianco, coprendo il campo in tutta la sua larghezza dalla porta alle disertate linee d’assedio, Vespasiano prese un ramo secco e si mise da solo davanti a loro, in attesa dei catafratti parti con Babak alla loro testa.
Mannio e Fregallano ben presto lo raggiunsero e osservarono la lenta avanzata della cavalleria pesante, che risparmiava energia per poter accelerare al trotto. Dietro di loro, la coorte di Mannio aveva finito di schierarsi e aspettava in silenzio. La coorte di Fregallano guardava a est, creando un sentiero tra le due unità lungo il quale il resto dei compagni usciva dalla città seguito dalle salmerie. Attraversarono il ponte con tutta la fretta possibile raggiungendo la sponda settentrionale del Tigri tra le urla di accompagnamento dei centurioni che tenevano un occhio sulla minaccia metallica in arrivo da est.
«Dov’è Peligno?», domandò Vespasiano, senza distogliere lo sguardo dal muro di metallo e carne equina.
Anche Fregallano continuò a guardare la minaccia che avanzava. «Non lo vedo da quando l’assalto è finito. Era davanti alla porta nord e urlava ai suoi schiavi di preparare il carro con tutto il suo bottino. A quanto pare stava cercando di comprarsi una via di fuga».
Vespasiano rise e gli concesse una tregua. «Mi sarebbe piaciuto molto vederlo provarci. Be’, adesso è fuori ma non credo che si unirà a noi per negoziare un salvacondotto; uno come lui non ha idea di quando l’onore ha ricevuto soddisfazione». Accantonò tutti i pensieri riguardanti il piccolo codardo procuratore quando Babak, a cinquanta passi di distanza, alzò in aria la mano destra. Trombe risuonarono lungo la linea partica e, cinque passi dopo, i catafratti si fermarono all’unisono.
Dopo una breve pausa, Babak spronò il cavallo corazzato a procedere e si fermò a distanza di un kontos da Vespasiano. Sollevò la maschera placcata d’argento sulla quale erano incise barba, sopracciglia e ciglia di bronzo. «Converrai con me che ci troviamo in una situazione molto interessante».
Vespasiano fece spallucce. «Abbiamo difeso la città contro numeri di gran lunga maggiori e adesso ritengo che l’onore sia stato soddisfatto. Tigranocerta è vostra».
«E io dovrei semplicemente lasciarti andare via con le tue truppe?»
«Se massacri la guarnigione romana dopo che ha reso la città secondo le regole della guerra, allora Roma ti seguirà per avere vendetta, perfino dentro la Partia stessa. Mentre, se ci lasci passare, la guerra tra i nostri imperi resterà confinata a una battaglia per il dominio dell’Armenia e il tuo popolo non soffrirà. È una cosa che il tuo re apprezzerà, così come il suo padrone, il Re dei Re, a Ctesifonte».
Babak sorrise; il sudore gli colava dal volto malgrado il freddo. «Se vi uccido adesso, la guerra sarà effettivamente conclusa».
«Ti sbagli, Babak». Vespasiano indicò a nord il ponte sul quale gli ausiliari procedevano a doppio passo di marcia. Dall’altro lato, la coorte di Cotta era schierata in posizione difensiva. «Ho già fatto passare abbastanza miei uomini per ingrandire significativamente l’esercito di Radamisto. Nel tempo che impiegherai a fiaccare questa coorte, ne avrò fatti passare la maggior parte. Non puoi aspettarti aiuto da nord perché Radamisto deve aver sconfitto le truppe che hai mandato su per il fiume lungo il tragitto per venire qui».
«Stai parlando per guadagnare tempo. Questo non lo considero un atto degno di un uomo onorevole».
«No, Babak, parlo per cercare di salvare quanti più uomini possibile». Indicò la città sovrastata da una coltre di fumo. «Prendi il tuo trofeo, Babak, e lascia che io prenda i miei uomini».
Babak rivolse a Vespasiano uno sguardo quasi addolorato. «Non posso farlo. Ora che Radamisto è qui, devo affrontarlo e sconfiggerlo e per farlo lui deve avere quanti meno soldati possibile». Richiuse la maschera con un tonfo metallico e girò l’enorme cavallo.
Mannio guardò Vespasiano con aria determinata. «I miei ragazzi li tratterranno il più a lungo possibile, signore».
Vespasiano mise una mano sulla spalla del prefetto. «Mi dispiace, Mannio, ma temo che sia proprio ciò che dovrete fare». Si girò e tornò alla fila di sventurati ausiliari, seguito dai due prefetti. L’ultima delle tre coorti stava passando adesso, accompagnata dalle salmerie. «Fregallano fa’ attraversare i tuoi uomini non appena la salmeria è al sicuro e poi, Mannio, segui meglio che puoi. Cotta difenderà il ponte più a lungo che può». Mentre attraversavano i ranghi, si guardò indietro: Babak aveva quasi raggiunto la sua cavalleria; un corno risuonò. «Buona fortuna, prefetto». Strinse in una salda presa l’avambraccio teso di Mannio. «I tuoi ragazzi hanno combattuto bene questa mattina, avete una possibilità».
«Abbiamo sempre una possibilità, se Fortuna ci assiste».
Vespasiano annuì e si incamminò nel traffico che si affrettava al ponte con urgenza crescente. Aveva mandato uomini incontro alla morte numerose volte e riusciva a farlo con la coscienza pulita se il sacrificio serviva a salvare altre vite; ricordò la suicida carica di cavalleria del giovane tribuno Bassio contro la retroguardia dell’esercito britanno con cui Carataco aveva colto di sorpresa Vespasiano nel cuore della notte, trovandosi quasi nella posizione di annichilire la ii Augusta. Quell’ordine non era stato facile ma l’aveva dato senza rimorso: era stata una situazione disperata in una guerra senza sosta e la perdita di una legione sarebbe stata una tragedia per Roma – per non parlare della fine della carriera di Vespasiano, se avesse avuto la sfortuna di sopravvivere. Stavolta, tuttavia, la cosa gli gravava parecchio. Era stato lui a orchestrare quella situazione e quegli uomini si sarebbero sacrificati non solo per salvare il resto della coorte ma anche per promuovere la sua ambizione personale. Non c’era stata alcuna ragione militare per difendere Tigranocerta; avrebbero dovuto ritirarsi davanti a probabilità tanto schiaccianti. Ma lui l’aveva difesa perché doveva fare in modo che ci fosse uno scontro con i parti e avesse inizio una guerra. Adesso l’aveva abbandonata per unirsi a Radamisto e combattere una ritirata dilatoria a nord nel cuore dell’Armenia, spingendo i parti a minacciare sempre più l’equilibrio del potere in Oriente, causando sdegno a Roma e interrogativi sulla competenza di un imperatore che aveva lasciato accadere tutto questo. Sentiva di essere diventato poco diverso dagli uomini con cui aveva sempre lottato: un uomo che aveva speso vite altrui per accrescere la ricchezza della propria. Tuttavia era così che si conservava il potere, quindi perché il tentativo di raggiungerlo avrebbe dovuto essere diverso per lui?
«Hai intenzione di lasciarli lì a morire?».
Vespasiano si riscosse dalla cupa introspezione e vide Magno seduto accanto a Hormus, che conduceva il carro a un veloce trotto. Si mise a correre e li raggiunse. «Che scelta ho?», chiese, balzando sul veicolo. Da quel punto di osservazione, riusciva a vedere, al di sopra delle teste della coorte di Mannio, Babak che sollevava il braccio destro; altri corni risuonarono così forte da penetrare la stridula cacofonia di decine e decine di carri e carretti condotti a gran velocità e alle spalle dei catafratti si levò una grande ombra: gli arcieri a cavallo avevano scoccato in massa le loro frecce. «Potrei morire con loro. Ma questo renderebbe le cose migliori?».
Magno guardò con rimpianto la schiena degli ausiliari che alzarono gli scudi sulla testa, con la prima linea inginocchiata. Poi sollevarono i giavellotti, preparandosi a usarli contro le piccole e tonde griglie di bronzo a protezione degli occhi dei cavalli o per conficcarli nelle loro bocche non protette, nella parte inferiore delle zampe o negli zoccoli. «Erano bravi ragazzi».
La prima ondata di frecce cadde sugli scudi sollevati con una moltitudine di tonfi intermittenti, causando pochi danni agli esperti ausiliari, mentre la seconda veniva scoccata. Alcuni dardi caddero lunghi, atterrando tra le salmerie e provocando il panico.
«Ma non me ne resterò qui a condividere la loro sorte», continuò Magno, facendo schioccare la frusta così che il carro mantenesse la sua velocità man mano che si avvicinavano alle opere d’assedio.
Un singolo colpo di tamburo rimbombò sul campo, seguito un paio di istanti dopo da un secondo e poi un terzo; i catafratti parti avanzarono al passo, guidati dal ritmo costante. La lenta ma inesorabile carica era cominciata e gli ausiliari si prepararono a riceverla, sapendo che lo slancio di truppe così corazzate li avrebbe spezzati subito dopo il primo impatto. Ma rimasero al loro posto. Dietro, le salmerie si misero in salvo oltre le linee d’assedio abbandonate mentre la terza coorte liberava il ponte.
Magno frustava i muli senza sosta mentre arrancavano attraverso uno dei varchi settentrionali nelle linee d’assedio destinate dai parti al passaggio della propria cavalleria; Vespasiano si reggeva forte al veicolo che oscillava sul terreno irregolare. Fumo si levava dai fuochi di cottura portando l’odore di bruciato dei pasti dei coscritti abbandonati in tutta fretta, ancora nelle pentole sul legno ardente. Il rimbombo dei tamburi di guerra parti continuava, crescendo di una frazione a intervalli di qualche colpo, e gli imponenti cavalli acceleravano lentamente sotto gli enormi fardelli, con il grosso cuore che lavorava quasi al massimo della capacità, malgrado procedessero poco più che a un passo svelto. Presto si sarebbero lanciati al trotto, per l’ultima dozzina di passi.
Mentre gli arcieri continuavano con le loro scariche compatte ma inefficaci, Vespasiano guardò i catafratti che avanzavano, a centinaia, in due ranghi, con le armature che scintillavano al sole e gli stendardi che sventolavano sulle loro teste, e si stupì che una vista così stupenda potesse essere tanto letale. Il sole che splendeva su di loro dava l’impressione che il lento muro di metallo brunito fosse coronato da fiamme dorate.
Fiamme? Fuoco?
Vespasiano trasalì; il carro aveva superato trincee e parapetti e adesso stava passando attraverso i pochi pezzi di artiglieria su quel lato della città. Guardò lungo la fila di macchinari. C’erano almeno due onagri. «Magno! Ferma. Subito!».
Magno portò il carro fuori dalla pista e rallentò, ad appena dieci passi dal ponte. Il centurione al comando del distaccamento che lo presidiava fece segno loro di affrettarsi ma fu ignorato. Vespasiano balzò a terra e corse all’onagro più vicino; e lì le vide: pile di vasi di terracotta, del diametro di un piede, con stracci che spuntavano dai coperchi sigillati con la cera.
Nafta.
Il ritmo del tamburo di guerra crebbe. Si guardò indietro; vicino al parapetto che difendeva la parte anteriore delle trincee abbandonate, l’ala sinistra degli ausiliari era ad appena cinquanta passi. Le frecce avevano smesso di piovere sui loro scudi poiché i catafratti si erano finalmente lanciati al trotto ed erano quasi su di loro.
«Magno! Hormus! Aiutatemi con questi e portate con voi i ragazzi sul ponte». Prese due vasi e ne tenne uno sotto ciascun braccio; si aspettava di dover fare fatica ma, sorprendentemente, non erano troppo pesanti.
Magno arrivò di corsa con il centurione ausiliario e i suoi otto uomini.
«Due ciascuno!», gridò Vespasiano agli uomini. «E poi seguitemi più veloce che potete. Hormus, prendi dei rami infuocati dai fuochi di cottura nelle trincee».
Un urlo possente si levò al cielo, soffocando perfino il rimbombo del tamburo di guerra. Vespasiano non aveva bisogno di guardare per sapere che la cavalleria partica era entrata in collisione con la coorte di Mannio. Adesso era solo questione di tempo.
Vespasiano condusse l’improvvisata unità incendiaria correndo a perdifiato lungo le linee d’assedio, fino a dove confinavano con l’impari lotta tra i catafratti e la fanteria. Salì sul bordo dell’ultimo parapetto, sempre con i vasi di nafta sotto le braccia, affannandosi a restare in equilibrio e smuovendo il terreno che ricadde sulla faccia di Magno dietro di lui. Superò con la testa la cima del parapetto e guardò lungo la linea della coorte di Mannio, fino alle mura cittadine, a un tiro di freccia da lì. Ed era una linea frastagliata, assalita da assassini corazzati in sella a cavalli quasi immuni alle armi che venivano brandite contro di loro. Con i cavalli che premevano la loro enorme mole contro la prima linea della coorte, spingendoli giù e all’indietro con i crani spaccati e le ossa rotte, i soldati parti usavano i lunghi kontoi per affondarne le punte affilate nella faccia dei disperati ausiliari della seconda e terza linea, impedendo loro di usare il proprio peso a sostegno dei compagni davanti. Urla laceravano l’aria quando occhi e gole venivano trafitti; uomini morenti disperdevano spruzzi di sangue con il loro ultimo esplosivo respiro mentre la furia devastante della cavalleria catafratta affondava nella fanteria romana con la stessa facilità di un marinaio navigato che penetrava una prostituta del porto. Giavellotti, spade e coltelli non potevano fermarli ma Vespasiano teneva in mano l’unica arma in grado di farlo: il fuoco.
Inginocchiatosi, posò a terra uno dei vasi. «Hormus! Porta i rami».
Lo schiavo si arrampicò sul terrapieno con tre grossi bastoni dalla punta arroventata.
Senza pensare al pericolo o se lo stesse facendo nel modo corretto, Vespasiano allungò il vaso di nafta. «Accendilo!».
Hormus accostò la punta rovente del bastone allo straccio che fuoriusciva; bruciò per un momento senza fiamma e poi prese fuoco come se impregnato di qualche accelerante, scioccando Vespasiano. Spaventato dalla rapidità con cui bruciava la miccia, balzò in piedi e con tutte e due le mani si portò il vaso dietro la testa, piegando schiena e gambe, per poi scagliarlo in avanti liberando tutta la forza del suo corpo. Il vaso volò lungo lo schieramento dei parti, atterrando sulla groppa scoperta di un cavallo in prima linea, distante venti passi, frantumandosi e riversando un viscoso liquido marrone sulla bestia e i soldati vicini; ma passò praticamente inosservato nel caos della battaglia poiché non fece altro.
Vespasiano ricadde in ginocchio. «Merda! Non è successo niente».
Magno infilò le dita nel sigillo di cera di uno dei suoi vasi, rompendolo. «Questo dovrebbe aiutare. Hormus!».
Lo schiavo aveva più vita negli occhi di quanta Vespasiano ne avesse mai vista prima; accostò il bastone arroventato allo straccio e, quando si incendiò, Magno saltò in piedi con il braccio destro allungato dietro di sé e il sinistro ripiegato in avanti, in equilibrio, e, con un unico movimento fluido, scagliò il vaso con il braccio dritto come quello di un onagro, così che superò quello di Vespasiano di qualche passo. Prese fuoco un istante prima di abbattersi sull’elmo di un cavaliere in seconda linea, avvolgendolo all’istante nelle fiamme insieme al cavallo e schizzando i compagni vicini di appiccicosi grumi ardenti. Con un’improvvisa detonazione, il contenuto del vaso di Vespasiano esplose con la furia mortale del dio del fuoco. Le strazianti, terrorizzate urla di uomo e cavallo soffocarono il clangore delle armi e, per qualche momento, lo scontro cessò; i combattenti guardarono i cavalli immolati scalciare e impennarsi, disarcionando i cavalieri che si contorcevano, mentre entrambi venivano arrostiti vivi nei forni di metallo che avrebbero dovuto renderli quasi invulnerabili.
«Centurione!», gridò Vespasiano al di sopra delle urla incessanti. «Adesso che hai visto come funzionano questi affari, porta i tuoi uomini lungo la retrovia della nostra linea e gettate tutti i vasi che avete contro quei bastardi corazzati».
Con un ghigno, il veterano salutò e, afferrato un paio di tizzoni da Hormus, corse via con i suoi uomini a scatenare un inferno di fiamme. Magno accese il secondo vaso e lo lanciò ai catafratti più vicini al parapetto, i quali avevano ripreso a fiaccare la resistenza sempre più debole dei sopraffatti ausiliari. Mentre anch’essi venivano avviluppati dalla collera del dio del fuoco, rivolgendo urla di dolore alle proprie incuranti divinità, i parti più vicini alle due conflagrazioni cominciarono a disimpegnarsi, affatto disposti a rischiare di condividere quell’atroce morte che sembrava essere inflitta dal cielo.
E poi blocchi di fiamme irruppero dalle linee parte, uno dopo l’altro, a intervalli irregolari, indicando il percorso del centurione e dei suoi uomini lungo le retrovie degli ausiliari. A eccezione di un lancio sbagliato che stava ardendo vivi una dozzina di romani urlanti, gli uomini del centurione erano riusciti a scagliare i vasi incendiari al di sopra della fanteria, facendo in modo che la coesione del nemico si spezzasse in più punti, dal momento che l’istinto di fuggire dal fuoco fu il solo a guidare i catafratti.
E coloro che poterono fecero dietrofront e fuggirono. Alcuni con addosso chiazze di fuoco appiccicoso, che accresceva l’urgenza della loro ritirata; altri con la corazza arroventata dallo stretto contatto con compagni e destrieri in fiamme; e poi altri, la maggioranza, non toccati dal fuoco ma contaminati dal terrore di esso. Nel giro di pochi istanti, i catafratti sopravvissuti avevano fatto dietrofront e si stavano dirigendo verso gli arcieri che, a loro volta, arretravano per agevolare la ritirata dei compagni.
Ma non era la fuga veloce e agile di animali freschi e liberi, tutt’altro. Malgrado la dilagante paura, le grosse bestie erano incapaci di procedere a gran velocità, gravate ormai da ore dalle corazze oltre ad aver caricato e combattuto. Tutto ciò di cui furono capaci era una goffa camminata che lasciava le groppe scoperte e vulnerabili ai giavellotti inutilizzati dei romani che li schernivano; e, quando Mannio si accorse dell’opportunità, furono usati senza pietà. Ai brevi comandi urlati dei centurioni, ciascuna centuria scagliò le armi contro la cavalleria in lenta ritirata, aumentandone il panico quando le groppe furono crivellate di profonde ferite; numerosi furono quelli che crollarono a terra per la tensione e lo sforzo eccessivo.
Mannio, tuttavia, era un comandante esperto e tenne sotto stretto controllo i suoi uomini, impedendo loro di inseguire il nemico in fuga, preparandoli invece a seguire la coorte di Fregallano che si apprestava ad attraversare il Tigri dopo le salmerie.
L’estrema destra della sua coorte, quella confinante con le mura cittadine, aveva iniziato a staccarsi, centuria dopo centuria, per seguire i compagni diretti al ponte.
Vespasiano, Magno e Hormus rimasero in cima al terrapieno, osservando attoniti il campo, ora costellato di mucchi di metallo in fiamme che divampava e sfrigolava man mano che i corpi al loro interno rilasciavano il grasso; macchie di fumo nero, fetido di carne umana ed equina carbonizzata, fluttuavano tra la linea di ausiliari e gli sconfitti parti in fuga. Le grida dei feriti erano sorprendentemente poche e per lo più confinate sul lato romano, poiché nessun cavaliere né il suo cavallo potevano sopravvivere alle incandescenti temperature dell’arma donata all’uomo dal dio del fuoco, Apam Napat.
«È così che si fa con quei bastardi orientali a cui piace coprirsi con i pentoloni», osservò Magno, la cui faccia incrostata di sangue era adesso annerita dai residui di fumo. «Direi che sono ben cotti, se capisci cosa intendo».
Vespasiano capiva ma non era in vena di fare dell’umorismo. «Mi è sembrato che ne sapessi qualcosa di quella roba».
«Forse mi ci sono imbattuto a Roma», borbottò vago Magno. «Non credo che vorresti conoscere i particolari».
«Ne sono certo. Forza, abbiamo ancora del lavoro da fare». Si girò e scivolò giù per il pendio mentre il centurione e i suoi otto uomini tornavano dall’incursione incendiaria. Dietro di loro, la coorte di Fregallano aveva cominciato l’attraversamento. «Avete fatto un ottimo lavoro, centurione. Adesso seguitemi». Si issò dall’altro lato della trincea e tornò più veloce che poteva all’artiglieria. C’erano ancora un paio di dozzine di vasi di nafta impilati accanto all’onagro. «Mettete questi sul carro», ordinò, indicando il veicolo di Hormus, rimasto dove Magno l’aveva abbandonato.
Mentre gli uomini di Fregallano liberavano il ponte e l’esausta coorte di Mannio si accingeva ad attraversarlo, portando con sé i feriti, i vasi furono caricati sul carro. Vespasiano rimase a guardare gli uomini che avrebbe condannato a morte certa avviarsi verso la relativa sicurezza della sponda settentrionale del Tigri; era sollevato di non dover portare sulla coscienza il peso della loro violenta fine. Rivolse una preghiera al dio del fuoco di quelle terre per ringraziarlo dell’ispirazione con cui lo aveva benedetto e anche per il dono della nafta.
Non c’era segno di un ritorno in massa dei parti quando l’ultima centuria della coorte di Magno attraversò il ponte seguito dal carro pieno di vasi.
Mannio aspettava Vespasiano dall’altro lato e gli rivolse uno stanco saluto. Vespasiano ricambiò. «Ben fatto, prefetto. Pensavo che sareste morti tutti».
«Lo so. A tutti noi è capitato di dare ordini simili e ho compreso in che situazione fossi. Cos’altro potevi fare? Fortuna, tuttavia, aveva altri piani».
Vespasiano fece un debole sorriso. «Più di una divinità è intervenuta qui oggi e dovremo ringraziarle con adeguati sacrifici una volta raggiunto l’esercito di Radamisto. Ma prima voglio che siano ammucchiati sul ponte quanti più carri abbandonati, animali morti e altri detriti possibile. Lo copriremo con il resto della nafta e appiccheremo un fuoco che brucerà per un giorno e rallenterà Babak per un po’ mentre ci dirigiamo a nord. Facciamo arrabbiare quel bastardo al punto da volerci raggiungere sul serio».