CAPITOLO IV

«Vuole che lo aiuti a costringere Pallante o Agrippina a confessare a Claudio che lei lo ha tradito non solo con Pallante ma anche con il proprio figlio». Vespasiano fece scorrere le dita tra i capelli corvini di Cenis, godendo dell’aroma muschiato che emanavano. «È convinto che lei sia responsabile di un’azione sovversiva di cui Pallante è all’oscuro, ma ne resterebbe comunque coinvolto».

Cenis gli passò una mano sull’ampio petto, sudato dopo il sesso sfrenato, e gli sfregò la guancia sulla spalla. «Quale azione?»

«Stava per dirmelo quando siamo stati attaccati e poi, quando alla fine siamo riusciti a raggiungere la casa di Gaio, si è rifiutato di spiegarsi meglio e ha insistito per farsi scortare a palazzo da quasi tutti gli schiavi di mio zio. Se n’è andato promettendo di mettersi in contatto una volta che avrà organizzato ciò che dobbiamo fare, avvertendoci che si tratterà di lasciare Roma per un po’. Non ha voluto darci altri dettagli. Tuttavia ha detto che ha a che fare con la delegazione partica presso le tribù a nord del Danubio e la caduta dell’ultimo re armeno. E dice che Agrippina sta usando contro di me il fatto che mio fratello non sia riuscito a intercettare la delegazione e ha fatto revocare il mio governatorato in Africa; perciò l’unica speranza che ho di fare carriera è aiutarlo a sbarazzarsi della puttana e, di conseguenza, far cadere Pallante». Vespasiano scrutò nell’oscurità della camera di Cenis, scuotendo adagio la testa incredulo per la situazione in cui, suo malgrado, si trovava.

Ancora una volta era stato risucchiato negli intrighi della politica imperiale, intrappolato tra due forze opposte a cui importava solo la salvaguardia delle proprie posizioni. In passato aveva imparato a ricavare quanto più denaro poteva dal coinvolgimento, suo malgrado, in situazioni spiacevoli. Questo era servito a lavare via l’inevitabile saporaccio che gli restava in bocca quando agiva in modi così contrari agli alti ideali giovanili con cui avrebbe onorato la sua famiglia e Roma. Quegli ideali perduti erano esistiti solo nella sua immaginazione quando, venticinque anni prima, era entrato a Roma da ingenuo sedicenne. Col tempo aveva scoperto che Roma era un posto completamente diverso da quanto aveva immaginato da ragazzino. Gli unici obiettivi che valeva la pena raggiungere erano prestigio sociale e potere, e l’accesso a essi era garantito solo tramite le tanto venerate divinità del patronato e della ricchezza. Non importava nient’altro.

Stavolta, tuttavia, non vedeva alcun modo per trarre un beneficio finanziario da ciò che volevano costringerlo a fare, né un modo per sottrarsi senza danni al giogo di Pallante e, in misura minore, a quello di Narciso. Aveva già tradito Narciso raccontando a Cenis quanto il segretario imperiale aveva preteso da lui e sicuramente il liberto l’avrebbe scoperto a un certo punto. Se Narciso fosse mai tornato potente come un tempo, Vespasiano non poteva aspettarsi alcuna promozione da quel versante. Perciò gli sembrava che l’opzione migliore fosse lavorare per Pallante. Ma anche se gli fosse rimasto leale, Agrippina avrebbe continuato a ostacolare la sua carriera e avere i favori di Pallante sarebbe stato inutile. E poi c’era anche la questione che Magno gli aveva messo in testa durante la fuga dalla taverna: la lealtà di Pallante nei suoi confronti. Solo Pallante era a conoscenza dell’ora e del luogo dell’incontro con Narciso e aveva insistito per averne conferma da Vespasiano; aveva ordinato l’attacco per sbarazzarsi comodamente del suo rivale come danno collaterale in una presunta faida criminale? La vita di Vespasiano era il prezzo da pagare per una dipartita tanto opportuna? Non osò condividere questo pensiero neanche con Cenis perché era convinto che, se fosse stato vero, o la donna ne era a conoscenza, e quindi il suo amore era falso e lei non era che una spia nel suo letto – e non era quello un pensiero che poteva tollerare – oppure, più verosimilmente, Cenis non sapeva della doppiezza del suo padrone e ne sarebbe rimasta indignata, sentendosi obbligata a vendicarsi in qualche modo di Pallante. Così si sarebbe esposta alla sua collera, se mai il liberto avesse avuto sentore del piano contro di lui.

Nel complesso, Vespasiano non vedeva altra strada da percorrere, a parte ritirarsi dalla politica e condurre il resto della vita occupandosi delle sue tenute agricole, con le stagioni a scandire il tempo e, come suo fratello aveva detto una volta, il vino prodotto a differenziare un’annata dall’altra. E questo era qualcosa che non poteva prendere in considerazione: come potevano i suoi figli sperare di avere successo a Roma se il loro padre non aveva l’influenza per far loro intraprendre il cursus honorum? Come sarebbero arrivati ai posti di comando nelle province e nelle legioni se lui fosse scomparso? E poi, più nello specifico, in che modo avrebbe perseguito e realizzato il destino che sentiva di avere in serbo, come aveva indicato il fegato sacrificale solo qualche ora prima quella mattina?

No, decise, in qualche modo doveva barcamenarsi in quella situazione e cercare di venirne fuori, se non con qualche vantaggio, per lo meno senza troppi danni.

«Pallante cercherà sempre di aiutarti se questo coincide con i suoi interessi», mormorò Cenis, baciandolo.

«È proprio questo il punto: fino a che, per qualche ragione, sarà l’amante di Agrippina, i suoi interessi e i miei non coincideranno mai. Ho più da guadagnare da Narciso che vuole eliminare l’imperatrice, ma ho già messo a rischio la cosa parlandone con la mia amante, che andrà a riferirla a Pallante».

«Non sono obbligata a farlo, amore mio».

«Certo che lo sei. E, naturalmente, io ho dovuto dirtelo perché ho promesso a Pallante che l’avrei fatto. Sarà impaziente di ricevere un resoconto dettagliato domattina presto e si aspetterà che lo tenga informato di tutti i contatti che avrò con Narciso. Sappiamo entrambi che cercare di mentirgli non è possibile; fabbricare una menzogna che si adatti ai fatti così come li conosce andrà bene adesso, ma sarà impossibile da mantenere quando gli eventi prenderanno il loro corso, inevitabilmente imprevisto».

Cenis rimase in silenzio per qualche momento e poi alzò lo sguardo su di lui nel buio. «Forse c’è un altro modo perché tu faccia il gioco di entrambi, ma richiede pazienza».

«Posso essere paziente».

«Dobbiamo scoprire esattamente cosa ha fatto Agrippina e ottenerne la prova prima che lo faccia Narciso».

«Dobbiamo?»

«Certo, amore mio. Di chi altro puoi fidarti? Riporterò a Pallante tutto ciò che mi hai detto. Lui vorrà sapere cosa ha fatto Agrippina e in che modo lui potrebbe venire implicato e io potrò dirgli, in tutta sincerità, che Narciso non ha avuto il tempo di spiegartelo per via dell’attacco alla taverna. Tutto ciò che ha detto era che credeva avesse a che fare con la delegazione. Questo lascerà a Pallante una sola scelta: chiedere ad Agrippina cosa ha fatto alle sue spalle. Avrà paura di farlo per timore che lei si rifiuti di rispondere e, di conseguenza, che la loro relazione ne sia danneggiata in modo permanente. Oppure potrebbe scoprirlo da sé e poi decidere se denunciarla all’imperatore e salvarsi la pelle».

Vespasiano soffocò uno sbadiglio. «E se riesco ad aiutarlo in tal senso, mi libererei di lei e Pallante potrebbe ancora essermi utile».

«E tu puoi aiutarlo: Pallante capirà che il modo più facile per scoprire cosa ha fatto Agrippina è tramite te; si renderà conto che Narciso non è venuto da te perché pensava che lo avresti aiutato, visto che Agrippina sta bloccando la tua carriera. A Narciso non importano cose del genere. Ti ha scelto perché tu, e solo tu, puoi aiutarlo. Narciso non può accusare Agrippina e Pallante di tradimento senza la prova. So come funziona la sua mente perché gli ho fatto da segretaria per sei anni. Ha la sensazione che tu e tuo zio siate la chiave per trovare quella prova, altrimenti per quale motivo avrebbe voluto incontrarvi in segreto? Perché ha scelto proprio te?».

Vespasiano strinse la spalla di Cenis. «Ma certo! Sei un genio, amore mio. Qual è il fattore comune tra il presunto tradimento di Agrippina e me e Gaio? Sabino. Ciò che lei ha fatto riguarda la delegazione che Sabino non è riuscito a catturare. Narciso sospetta che, inconsapevolmente, Sabino sappia qualcosa di utile».

«Proprio così. E la mia ipotesi è che Narciso voglia che tu e tuo zio parliate con tuo fratello e lo scopriate. Chiederà a entrambi di recarvi in Mesia».

«A tutti e due?»

«Sì, penso di sì. Sembra strano ma per quale altro motivo incontrarvi entrambi?»

«Ma cosa può dire o fare più di me Gaio?»

«Sono sicura che diverrà chiaro. Ora, quando ne parlerò a Pallante, posso fare in modo che giunga alle tue stesse conclusioni. Penserà che è una sua idea e la sua prima reazione sarà convincere Claudio a richiamare Sabino a Roma per interrogarlo qui».

«A quel punto Narciso avrebbe la certezza che l’ho tradito».

«E Pallante perderebbe ogni suo eventuale vantaggio. Molto meglio lasciar credere a Narciso di non sapere niente. Molto meglio per Pallante che Agrippina non sospetti che il suo amante sta indagando su di lei. Molto meglio per noi se vi recate in Mesia su richiesta di Narciso, ma con la segreta benedizione di Pallante. E per convincere Narciso che stai lavorando esclusivamente per lui, mi farò licenziare da Pallante con l’accusa di tramare contro di lui».

Vespasiano si mise a sedere quando comprese il sottinteso di quanto gli stava suggerendo Cenis. «E se io dovessi trovare la prova di ciò che ha fatto Agrippina, allora al mio ritorno potrò consegnarla a chiunque abbia più possibilità di darmi il governatorato di una provincia».

«Proprio così, perché ognuno crederà che tu stia lavorando esclusivamente per lui, fino al momento in cui consegnerai la prova all’altro. E io potrò riprendere il mio posto con chiunque sceglieremo, poiché ai suoi occhi non avrò fatto niente di male».

«Questa, amore mio, è fredda e spassionata politica degna degli stessi Pallante e Narciso».

Cenis gli prese il viso tra le mani e lo baciò sulle labbra. «Grazie. Ma devi ricordare che ho vissuto e respirato il loro mondo per tutta la vita e so come agiscono meglio di chiunque altro. Ma la mia lealtà non è riservata a loro, solo a te, amore mio, e quando ti minacciano ti aiuterò sempre a difenderti. Farò sempre in modo che tu sia al sicuro».

Vespasiano ricambiò il bacio con altrettanto trasporto, sentendosi pervadere dalla vergogna. «Scusa se ho dubitato di te».

«Hai dubitato di me? Perché?».

Lui le parlò dell’attacco alla taverna e del fatto che solo Pallante sapeva che lui e Narciso sarebbero stati lì.

«Pensi che se l’avessi saputo avrei potuto non dirtelo? Certo che l’avrei fatto. Ma posso dire con sincerità che Pallante non c’entra niente; l’avrei saputo».

«Allora chi l’ha organizzato? Callisto, forse, nel tentativo di riacquistare il potere eliminando Narciso?»

«No, lui è contento di mantenere la posizione di segretario dei casi giudiziari portati all’attenzione del princeps, è molto proficua. Sa che Agrippina lo tiene d’occhio, primo perché è una creatura di Messalina e secondo perché non ha sostenuto la sua ascesa al trono. Non farebbe niente per attirare la sua attenzione».

«Chi, allora?»

«È stata una coincidenza, amore mio; una guerra territoriale tra confraternite nella quale sei rimasto invischiato. Adesso levatelo dalla mente e dormiamo un po’».

Vespasiano la baciò di nuovo e tornò a distendersi. Ma il sonno non veniva: trovava molto difficile credere alle coincidenze.

La convocazione di Claudio fu una sorpresa per Vespasiano mentre quel pomeriggio lasciava il Senato preceduto dai suoi littori. L’impeccabile centurione pretoriano, in attesa ai piedi della scalinata, scattò in un rigido saluto, battendosi col braccio destro il lucidissimo pettorale della corazza a placche. L’elmo con la cresta trasversale di crine di cavallo bianco ebbe un sussulto. Con concisione militare, chiese il permesso di riferirgli che l’imperatore desiderava che Vespasiano lo accompagnasse al Palatino non appena il processo, che stava presiedendo all’estremità opposta del Foro, si fosse concluso. Vespasiano si ritrovò con ben poca scelta se non dirigersi lentamente verso il tribunale all’aperto, ricevendo richieste importune e maledicendo Claudio per la sua mancanza di considerazione nel trattenerlo da un bagno tonificante, che sperava lavasse via la stanchezza dovuta alle pochissime ore di sonno.

«Non capisco cosa credono di ottenere presentando richieste a un console a cui restano solo due giorni di incarico», osservò una voce brusca mentre Vespasiano congedava un postulante con vaghe promesse di dare un’occhiata al suo appello riguardante il diritto di contestare il testamento paterno.

«Corbulone!», esclamò Vespasiano, la cui espressione irritata si distese quando vide la vecchia conoscenza osservarlo da un lato dei Rostri. «Non sapevo che fossi tornato a Roma».

«Sono arrivato solo oggi», replicò Corbulone mentre veniva avanti, guardando Vespasiano con il suo lungo naso sul viso cavallino e offrendogli il braccio destro da stringere. «Sono qui per portare i miei omaggi all’imperatore e ringraziarlo per avermi assegnato l’Asia».

Vespasiano prese il braccio di Corbulone, sbigottito. «Ma tu sei governatore della Germania inferiore».

«Lo ero, Vespasiano, lo ero». Corbulone si erse in tutta la sua altezza e assunse un’espressione di aristocratico compiacimento mentre continuavano a dirigersi verso il tribunale di Claudio. «Ma ho fatto un gran bel lavoro con i Cherusci e i Cauci che cercavano di approfittare della nostra debolezza sulla frontiera germanica. Ho ucciso migliaia di barbari barbuti e ho insegnato loro che solo perché abbiamo distaccato dal Reno tre legioni e una dal Danubio per sottomettere un’isola nebbiosa che non interessa a nessuno, non significa che debbano smettere di pagare il tributo a Roma. L’imperatore è molto contento di me o, per lo meno, lo sono i suoi liberti».

Corbulone arricciò il naso in patrizio disgusto. «Sono stato richiamato a Roma per ricevere i triumphalia».

«Di questi tempi non significa niente. Claudio ha dato a ciascun senatore che lo ha accompagnato in Britannia il diritto di indossare i triumphalia. Perfino mio zio, che nella sua vita non ha mai fatto niente di militarmente rilevante a parte ispezionare la parata del giorno di paga, ha questo privilegio. Il prestigio del riconoscimento si è assai ridotto».

«Sì, be’, il mio prestigio non è in dubbio. Ho avuto l’Asia e la promessa di un altro comando militare molto presto. C’è una crescente preoccupazione riguardo la stabilità del nostro regno cliente, l’Armenia, e con la mia esperienza è chiaro che sono io l’uomo migliore per questo lavoro».

«Ne sono certo, Corbulone», convenne Vespasiano senza troppo entusiasmo.

«Non sembri molto contento per me. Ti è stata data la Bitinia o un posto altrettanto privo di prestigio? Non che la cosa mi sorprenderebbe, essendo la tua famiglia quella che è. È stata una vera sorpresa quando ho saputo che Sabino aveva avuto Mesia, Macedonia e Tracia».

Vespasiano era abituato all’altezzosità di Corbulone, conoscendolo ormai da venticinque anni, dal momento che avevano servito insieme come tribuni militari presso la iv Scythica durante la rivolta tracia. Ma questo non rendeva il rospo più facile da inghiottire. «Sì, è stata una sorpresa visto che noi siamo homines novi e all’epoca la nostra famiglia poteva vantare un solo consolato. Ma è ancora più sorprendente che, adesso che possiamo vantarne due, non mi venga data neppure una provincia mentre a te, che provieni da una famiglia ben più antica della nostra, ma che ha raggiunto il consolato una volta sola, se non mi sbaglio, ne viene data una seconda».

Vespasiano nascose il proprio divertimento quando Corbulone mostrò di non gradire la frecciata. «Ma sono contento per te, Corbulone. Anche se confesso di essere sorpreso che tu abbia saputo dei disordini in Armenia. Non se n’è discusso in Senato».

Corbulone prese Vespasiano per un gomito e lo attirò più vicino a sé, lontano dai littori. «Questo è perché ufficialmente non ci sono disordini laggiù e Mitridate, il nostro re cliente, è ancora sul trono».

«Ufficialmente, questo lo so bene. E, ufficiosamente, so che è stato deposto, ma non conosco i dettagli».

L’espressione compiaciuta di Corbulone raggiunse nuove vette al gratificante pensiero di essere in possesso di maggiori informazioni. «Ufficiosamente, tre mesi fa, all’inizio di ottobre, Mitridate è stato sconfitto da un giovane arrampicatore dal rozzo nome di Radamisto, figlio del re Farasmane della confinante Iberia. Ovviamente abbiamo capito ce c’era il denaro partico dietro a Radamisto poiché niente accade in Armenia senza la loro o la nostra collusione».

«E noi non avremmo deposto il nostro fantoccio».

«Giusto, neanche… be’, non dirò chi è tale stupido. A ogni modo, so che se la diplomazia fallisce allora può essere necessaria un’invasione e la mia esperienza militare mi rende la scelta ovvia per guidarla».

«E cosa accadrebbe se la diplomazia fallisse e, gli dèi non vogliano, tu non riportassi Mitridate sul trono con la forza militare e l’Armenia diventasse un regno cliente della Partia?».Corbulone si accigliò, incapace di comprendere qualcosa di così oltraggiosamente impossibile. «Io non fallirò».

«Sì, sì, certo che non fallirai, Corbulone. Ma supponiamo, per esempio, che l’imperatore mandi qualcun altro, non del tuo calibro, e che questi fallisca, riportando l’Armenia sotto l’influenza partica per la prima volta dopo Tiberio. Cosa accadrebbe?»

«A quel punto l’imperatore dovrebbe mandare me per sistemare la faccenda». Un ben noto e sonoro belato gutturale avvertì Vespasiano del tentativo di umorismo da parte di Corbulone. Passò in fretta. «Ma non scherziamo. Se ciò dovesse accadere, allora avremmo una situazione molto seria. La Partia avrebbe presto accesso all’Eusino e una sua flotta in quel mare che minaccia il Bosforo con la possibilità di irrompere nel Mare Nostrum è una cosa che vorremmo scongiurare».

Inoltre, pensò Vespasiano mentre arrivavano al tribunale, i parti avrebbero avuto anche accesso al Danubio e pertanto al cuore dell’Europa. Si fermò vicino alla lettiga imperiale in attesa di Claudio e ammirò la capacità di Narciso di creare una narrazione credibile da fatti tanto scarni, e si chiese per un momento quale legame Agrippina potesse avere con l’Iberia, l’Armenia e una delegazione partica oltre il Danubio.

«E per quanto riguarda te, sei uno stupido vecchio sciocco!».

Vespasiano alzò lo sguardo in direzione dell’esclamazione e vide un avvocato scagliare stilo e tavolette di cera.

Claudio strillò e abbassò la testa mentre quegli oggetti lo mancavano per un pelo.

«Siano maledetti i tuoi stupidi e crudeli giudizi!», continuò l’avvocato con crescente virulenza. «Come puoi ammettere la testimonianza di una donna, per di più una comune prostituta, contro un membro della classe equestre?». Indicò indignato l’imputato lì al centro dell’aula; seduti dietro l’uomo c’erano i cinquanta giuristi, tutti equites, che guardavano oltraggiati l’imperatore e la donna eccessivamente truccata, vestita con la toga mascolina simbolo della sua professione, in piedi davanti a lui.

Vespasiano sospirò e scosse la testa, guardando Corbulone. «Sta peggiorando in questi ultimi due anni. Dicono che ogni sera beva fino a perdere i sensi e pare che questo lo renda sempre più inaffidabile».

Claudio si sistemò la toga nel tentativo di riacquistare una parvenza di dignità, riuscendo comunque a sembrare disordinato. «M-m-maledicimi pure se vuoi, m-m-ma tieni le mani a posto!».

«Il guaio è», continuò Vespasiano mentre osservava Claudio che srotolava e leggeva un documento legale, «che, avendo un tale rispetto per i costumi dei nostri antenati e per la legge, è convinto di dover gestire i tribunali come se ci fosse ancora una repubblica. Consente la diffamazione e gli oltraggi e in genere appare come uno sciocco e non fa niente per punire le persone che lo insultano». Claudio si sfregò gli occhi iniettati di sangue e poi li strizzò per leggere la scrittura minuta. «Durante le udienze, cioè», aggiunse Vespasiano. «Al di fuori dei tribunali, chiunque lo deride è passibile di una condanna alla pena capitale e gli viene data un’ultima possibilità di schernirlo in tribunale prima di essere giustiziato».

Con le mani tremanti, Claudio richiuse il rotolo. «Am-m-metterò la sua testimonianza e pronuncerò anche il mio giudizio in base a essa».

L’avvocato difensore sbatté un pugno sulla scrivania. «La sua testimonianza è ancora meno affidabile di quella del più infimo dei cittadini, razza di sciocco». Le decine di spettatori, per lo più cittadini comuni, che circondavano l’aula si risentirono per quello che videro, lo considerarono un oltraggio alla loro onestà e cominciarono a urlare improperi all’avvocato. Claudio ignorò nuovamente l’offesa, consegnò il documento a uno scriba e prese a rovistare in un mucchio di rotoli e tavolette di cera che aveva davanti.

«Ma poi dimentica i suoi sentimenti repubblicani», continuò Vespasiano, «e decide che l’unica opinione che conta è la sua e prende decisioni unilaterali scavalcando la giuria».

«Io giudico l’imp-p-putato», Claudio si fermò mentre scorreva un altro rotolo, «D-D-Didio Getullo, colpevole di aver pagato i servizi nel locale di questa donna onesta con denaro falso e consiglio alla giuria di fare altrettanto».

Si levò un’immensa acclamazione dagli spettatori che si erano legati al dito il commento dell’avvocato e adesso erano fin troppo contenti di vedere un uomo di ceto superiore condannato, che fosse sulla base di prove false o meno.

«Allora, chi devi ringraziare per questa nuova nomina?», domandò Vespasiano mentre la giuria votava.

«Ah!». Corbulone si guardò attorno per accertarsi che nessuno fosse a portata di orecchie e abbassò la voce. «Questa è la cosa strana e speravo che tu, come console in carica, potessi aiutarmi a capire».

«Ne dubito, Corbulone, visto che ieri è stata la prima volta che ho saputo di questo problema armeno».

«Be’, tenta. Tutta la corrispondenza mi è giunta tramite il sistema di posta imperiale. Tuttavia, anche se i dispacci recano il sigillo imperiale, nessuno è stato firmato da Claudio o da uno dei liberti a suo nome, come sarebbe normale. Ho interrogato tutti i corrieri e ciascuno ha affermato di aver ricevuto i dispacci da palazzo, ma sempre dalle mani di un funzionario di basso rango».

«Non è una cosa insolita».

«Sono d’accordo, ma non ho mai avuto ordini con il sigillo dell’imperatore senza la sua firma o quella di uno dei suoi liberti».

«Allora perché hai creduto che fossero autentici?»

«Non ne ero sicuro fino a che il mio sostituto non si è presentato con un mandato dell’imperatore».

«Colpevole!», rispose il capo dei giurati alla domanda di Claudio.

«Visto», mormorò Vespasiano, «condannerebbero uno di loro piuttosto che andare contro la volontà dell’imperatore. Anche se le prove sono dubbie».

Corbulone guardò disgustato la prostituta; il sorriso sul volto della donna era di puro piacere vendicativo mentre osservava torva l’imputato, che si teneva la testa tra le mani. «È un’infamia credere alla sua parola invece che a quella di un uomo benestante».

Claudio finì di scrivere il verdetto sull’apposito rotolo e poi si rivolse alla corte. «Adesso pronuncerò la sentenza. Io…».

«È un falsario!», urlò qualcuno dalla folla. «Dovrebbero tagliargli le mani».

La testa di Claudio ebbe un paio di sussulti mentre cercava di individuare l’origine del suggerimento.

«Sono gli usi dei nostri antenati!», ricordò all’imperatore un’altra voce.

L’imputato tolse le mani dalla faccia e se le guardò, poi inorridito rivolse lo sguardo sull’imperatore mentre questi sembrava riflettere sul consiglio non richiesto. L’orrore sul suo volto si mescolò al terrore nel vedere Claudio che cominciava ad annuire, evidentemente convinto da quel suggerimento. «D-D-Didio Getullo, io ti condanno a una vita senza mani per impedirti di farne ancora cattivo uso. P-prendetelo e c-convocate il boia».

Si scatenò un putiferio quando lo sventurato venne legato: gli spettatori, che fiutavano dolore e sangue, acclamavano l’imperatore per la sua saggezza; i giurati rendevano nota la propria rabbia per la barbarie del castigo sull’uomo che non avevano avuto il coraggio di assolvere.

Vespasiano si voltò, non volendo più guardare. «Quindi pensi che tutto questo sia stato fatto all’insaputa dell’imperatore?»

«Non so bene cosa pensare, ed è per questo che sono venuto dritto al Foro per presentarmi a lui prima che qualcun altro abbia la possibilità di dirgli che sono qui. Sarà interessante vedere la sua reazione».

«Più nello specifico, sarà interessante vedere la reazione di quelli attorno a lui. Direi che chiunque fingerà di essere molto sorpreso nel vederti, è il tuo protettore segreto. E se è chi sospetto che sia, allora farò meglio a stare attento a come mi muovo».

«Cosa vuoi dire?»

«Diciamo solo che non vorresti avere a che fare con lei».

Corbulone rifletté sulla cosa mentre un uomo dai possenti muscoli che portava un ceppo di legno e una mannaia passava davanti a loro, diretto all’aula di tribunale e seguito da altri due uomini con un braciere pieno di tizzoni incandescenti. «Ma di sicuro Agrippina non oserebbe mai immischiarsi in modo tanto palese nella politica imperiale. Sarà anche l’imperatrice ma è pur sempre una donna».

«Forse, ma ieri era seduta accanto all’imperatore su un palco di uguale altezza e poi ha sobillato la politica imperiale raccomandando che a Carataco fosse risparmiata la vita».

«Ma è oltraggioso, risparmiare un ribelle! Se avessi fatto una cosa del genere in Germania, non riceveremmo alcun tributo e vivremmo nella paura costante di un’invasione dall’altra sponda del Reno».

«Malgrado tutta la premura di Claudio per “gli usi dei nostri antenati”, è incapace di controllare la moglie come invece facevano loro».

Ci fu una tregua nel trambusto proveniente dall’aula, rotta solo dalle urla imploranti di un uomo.

«Non sarò debitore di una donna per la mia posizione», dichiarò Corbulone.

«O quello o ti devi ritirare nelle tue tenute fino a che lei non ci sarà più. È la scelta cui siamo costretti tutti quanti».

Le urla cessarono all’improvviso, messe a tacere dal sordo tonfo del ferro affilato che calava sul solido legno. Poi seguì un ululato di agonia, accompagnato dal basso rumoreggiare soddisfatto della folla. Qualche momento dopo, la folla emise un nuovo verso strozzato, ma il rumore non coprì il desolato lamento di un uomo appena privato di entrambe le mani.

Vespasiano cercò di escludere quel pietoso suono dalla mente restando in silenzio con un pensieroso Corbulone, mentre il tribunale rompeva adagio le righe e gli spettatori si disperdevano in cerca di nuovo divertimento, chiacchierando allegramente di quanto avevano appena visto.

«Ah! Ec-c-coti, console», esclamò felice Claudio, avanzando dietro i suoi littori mentre questi gli facevano strada verso la lettiga. «Abbiamo molto di cui parlare».

«Princeps», replicò Vespasiano, salutando l’imperatore chinando leggermente il capo.

«Princeps», gli fece eco Corbulone.

«C-C-C-Corbulone? Ho convocato anche te?»

«Sì, princeps».

«Direttamente dalla Germania inferiore?»

«Certo, princeps. Mi hai fatto sostituire lì e mi hai dato da governare la provincia dell’Asia».

«L’ho f-f-fatto? Bene, bene, questo è provvidenziale. Unisciti a noi; tanto vale che tu senta cosa ho da dire a Vespasiano, dal momento che potrebbe interessarti se andrai in Asia. Dopo tutto, l’Asia è quasi vicina di casa con l’Armenia».

«Perciò, vedi», disse Claudio, sistemandosi tra i numerosi cuscini nella lettiga, «è di vitale importanza per la nostra politica estera e i nostri rapporti con la Partia che l’Armenia resti nella nostra sfera di influenza. Nel caso in cui la perdessimo, il regno cliente del Ponto sarebbe soggetto all’interferenza partica o perfino all’annessione, e le nostre province di Asia e Siria sarebbero entrambe sotto minaccia».

La fluidità del suo discorso aveva stupito sia Vespasiano che Corbulone; quasi non aveva balbettato nello spiegare l’attuale crisi nella regione mentre procedevano lungo la Via Sacra. La sua comprensione per i dettagli, tuttavia, non fu una rivelazione per loro; sapevano bene entrambi che quell’uomo disordinato possedeva una mente acuta per i fatti, sia storici che legali, avendo scritto numerosi libri che erano stati elogiati per il loro contenuto. Era un erudito tradito dall’aspetto esteriore di un bavoso, zoppo, pieno di tic, con un debole intelletto, che esprimeva commenti fuori luogo, influenzato da sua moglie e dai suoi liberti e, naturalmente, sempre più dedito all’alcol. Malgrado Claudio fosse in grado di capire un problema, la soluzione, tuttavia, gli veniva normalmente suggerita da uno degli intriganti cospiratori che, come parassiti, succhiavano il suo potere. E questo caso non faceva eccezione.

«Perciò Pallante ha suggerito che il contrattacco migliore sia mandare una delegazione in Armenia e io sono d’accordo con lui, così come l’imperatrice. Lei inoltre crede che tu, Vespasiano, sia l’uomo più adatto all’incarico: come mio collega giovane nel consolato di quest’anno, conserverai ancora molta autorità al termine del mandato. Questo dovrebbe fare colpo su quei miseri orientali. Avevo intenzione di assegnarti l’Africa ma, un paio di giorni fa, Agrippina mi ha convinto del fatto che forse la tua famiglia non annovera i migliori amministratori, che i tuoi talenti sarebbero sprecati laggiù e che avrei dovuto aspettare e vedere se si fosse presentato qualcosa di più adatto a te. Sono così felice che l’abbia fatto; deve avere una guida divina, dal momento che Pallante ha avanzato la proposta solo questa mattina».

«Davvero provvidenziale, princeps», mentì a denti stretti Vespasiano. «Cosa dovrei ambire di ottenere con questa delegazione?»

«Pallante ti aspetta a palazzo per fornirti tutte le informazioni».

Vespasiano fu ammesso senza indugio agli appartamenti del liberto, al primo piano della sezione del palazzo costruita da Augusto. Pallante lo aspettava nella sala di ricevimento ufficiale: una spaziosa stanza decorata con statue e affreschi della mitologia greca e arredata in stile semplice, con grande uso di legno lucido e una palese assenza di sontuosa tappezzeria. Il sole, che calava sul Circo Massimo e, più oltre, sull’Aventino, inondava lo spazio di tenue luce invernale.

«Le cose si sono mosse molto più in fretta del previsto», disse Pallante, sorprendendo Vespasiano alzandosi in piedi quando il maggiordomo lo fece entrare nella stanza. «Il rapporto di Cenis di questa mattina ha sollevato qualche preoccupazione; tuttavia, la tempistica è più che adeguata. Narciso può chiederti di fermarti in Macedonia e parlare con tuo fratello lungo il tragitto per l’Armenia. Senza dubbio lo farà non appena lascerai queste stanze; immagino che abbia un messaggero appostato all’esterno per portarti da lui. Ho fatto in modo di lasciargli scoprire che sei qui per ricevere ragguagli sulla tua missione in Oriente».

Si strinsero gli avambracci come pari, malgrado uno fosse console di Roma e l’altro un semplice liberto. Vespasiano accantonò quel pensiero sapendo che Pallante non aveva niente di “semplice”. «Non hai idea di cosa abbia fatto Agrippina?».

Pallante congedò con un cenno il suo maggiordomo. «Sempre che abbia fatto qualcosa. Potrebbe trattarsi semplicemente del pio desiderio di Narciso o una menzogna studiata per instillare il seme del dubbio tra l’imperatrice e me».

Vespasiano sedette al posto indicatogli da Pallante, accanto a una tazza già riempita. «In tal caso, direi che sta funzionando».

«Sì, be’, l’analisi di Cenis era esatta: non posso chiederne conto ad Agrippina perciò devi scoprirlo tu per me; un’ammissione o una smentita da parte sua metterebbe senza dubbio tensione nella nostra relazione. A ogni modo, se c’è del vero nell’accusa e Narciso ha ragione e c’entra qualcosa con la delegazione partica, allora posso azzardare un’ipotesi riguardo a cosa ha fatto».

«È stata lei a dare il denaro a Radamisto».

Il viso di Pallante ebbe una contrazione che tradì la sua sorpresa. «Come ci sei arrivato?».

Vespasiano bevve un sorso del suo vino e chiuse gli occhi mentre lo assaporava; era squisito. «È per via della tempistica. La delegazione partica è arrivata verso l’inizio di settembre, si è trattenuta per qualche giorno e poi è ripartita per tornare in patria, sfuggendo a Sabino lungo il tragitto. Secondo Narciso, la delegazione è passata dal porto di Fasi alla fine di settembre. Sempre in settembre, Radamisto ha portato il suo esercito dall’Iberia in Armenia e, con una brevissima campagna, ha deposto Mitridate verso l’inizio di ottobre. Narciso è certo che la delegazione abbia fatto la spola con la Partia attraverso l’Iberia. Ora, uno degli agenti di Agrippina ha assassinato l’uomo che ha riferito a Sabino della delegazione; Agrippina non solo ha ordinato la sua morte, ma anche la tempistica dell’azione, perciò evidentemente voleva che Sabino sapesse della delegazione. Ma come faceva Agrippina a essere a conoscenza della delegazione per poter prendere tale decisione? Trovo molto difficile credere alle coincidenze».

«Sì, è lo stesso per me. Se Narciso ha ragione e lei è in qualche modo collegata a quella delegazione, allora questa è la logica conclusione. E, in tal caso, posso capire perfettamente perché non si sia confidata con me. Ma ciò che più mi preoccupa è perché i miei agenti non ne sapessero nulla. Ormai sono un paio di mesi che conosco bene la situazione in Armenia, ma il fatto che questa delegazione sia la possibile causa della deposizione di Mitridate mi giunge nuovo. Agrippina evidentemente sapeva e Narciso l’ha scoperto intercettando i suoi messaggi; ma standole più vicino di lui, normalmente ho accesso a tutta la corrispondenza che arriva a palazzo. Ma non in questo caso. Solo i suoi uomini hanno intercettato i messaggi della delegazione partica, non i miei. È come se fossi stato di proposito tenuto all’oscuro o, cosa ancora più preoccupante, come se Narciso fosse stato informato di proposito».

«Ma adesso che tu sai, quale pensi fosse l’obiettivo della delegazione?»

«Creare instabilità lungo il Danubio per distogliere la nostra attenzione dall’Armenia».

«Ce n’è stata?»

«Non più del solito».

Vespasiano rifletté per qualche momento, gustando il suo vino; da qualche parte nei giardini sottostanti, una colomba cominciò a tubare. «Cos’ha da guadagnare Agrippina deponendo il nostro re cliente in Armenia e sostituendolo con qualcuno leale alla Partia?»

«Non credo che lui sia del tutto leale alla Partia; questi viscidi re orientali non hanno alcuna lealtà se non verso se stessi e la propria famiglia. Verso quei membri della famiglia a cui è concesso di vivere, naturalmente. Radamisto è nipote di Trifena, che era…».

«La regina della Tracia, lo so. L’ho conosciuta quando ero laggiù con la iv Scythica».

«Certo. Perciò sai bene che è sempre stata amica di Roma».

«Allora perché i parti avrebbero aiutato Radamisto a impossessarsi del trono se la sua famiglia è a favore di Roma?»

«Sempre supponendo che Narciso abbia ragione e che l’abbiano fatto con il coinvolgimento di Agrippina, è quello che devi scoprire mentre aiuti Mitridate a tornare al suo legittimo posto, dove l’abbiamo messo noi».

«Io? Deporre l’usurpatore? Mi servirà un esercito per questo».

«È ciò che stiamo cercando di evitare. Se mandiamo un esercito, saremo in guerra con la Partia. Si potrebbe arrivare a tanto, ma da dove prenderemmo le legioni?»

«Magari non avreste dovuto invadere un’isola tanto irrilevante quanto la Britannia e impegnare quattro legioni nel tentativo di tenerla sotto controllo».

«Quel che è fatto è fatto e al tempo è servito a raggiungere l’obiettivo politico di dare a Claudio una vittoria e consolidare la sua posizione». Pallante fece una pausa e osservò Vespasiano per un momento. «Ma ammetto che le ripercussioni di quell’impresa hanno gravemente ridotto il nostro potere di aggressione. Non possiamo privare il Reno di altre legioni; non possiamo rischiare di trasferirle dal Danubio poiché, malgrado non sia successo ancora niente, dobbiamo ritenere che la delegazione avesse lo scopo di incoraggiare le tribù settentrionali a spingersi a sud, nella Mesia. Le due legioni egiziane e l’unica africana proteggono i rifornimenti di grano da quelle province e perciò non possono essere spostate; quelle spagnole sono impegnate per la maggior parte del tempo a tenere a bada gli indigeni. E se mandiamo le legioni siriane, la Partia potrebbe irrompere attraverso la provincia e arrivare al Mare Nostrum, aiutata senza dubbio da quegli infidi ebrei, se riescono a unificarsi. Anche se mio fratello Felice, che ho convinto l’imperatore a nominare procuratore della Giudea, mi informa che sono più litigiosi che mai».

«Perciò non possiamo permetterci di entrare in guerra».

«Non al momento. Abbiamo bisogno di qualche anno per prepararci».

«Quindi vuoi che tramite l’intrigo io ottenga ciò che non possiamo ottenere con la forza, così da rimediare a una situazione che minaccia la stabilità dell’impero e che può essere stata istigata dall’imperatrice stessa, per ragioni che sembrano sfuggire a tutti?».

Il volto di Pallante rimase imperturbabile. «Sì».

Vespasiano scoppiò in una risata sonora e fasulla. «Ti costerà».

«Potresti venirne fuori molto bene».

«Non ti sto chiedendo di essere pagato per venirne fuori, ma per entrarci».

«Cosa vuoi?»

«Protezione da Agrippina, la garanzia di una provincia quando torno, che mio fratello venga sollevato da ogni responsabilità per non aver fermato la delegazione partica e, perché questa situazione possa portarmi un guadagno finanziario, riammissione nella classe equestre per un mio cliente».

«Potrei garantirti tutto tranne la prima cosa. I rancori dell’imperatrice non passano facilmente».

Vespasiano si prese un momento per riflettere. «Ma quelli di mia moglie sì. In tal caso voglio la migliore nutrice gallica disponibile in città. Assicurati che Flavia sappia quanto costa».

Se Pallante rimase sorpreso da quella richiesta, non lo diede a vedere. «Molto bene. Partirai non appena scadrà il tuo mandato di console tra due giorni».

«Ma è ancora inverno, le rotte marittime non saranno ancora aperte».

«Ti darò abbastanza oro per allettare un equipaggio a svegliarsi dal suo letargo. Puoi raggiungere l’Epiro e poi prendere la Via Egnatia fino in Macedonia. Lì potrai interrogare tuo fratello e scoprire cosa, secondo Narciso, dimostra il tradimento di Agrippina. Come ha suggerito Cenis, l’ho licenziata per slealtà; Narciso crederà che si sia rifiutata di dirmi di cosa avete parlato ieri sera e penserà di essere al sicuro con te».

«Secondo Cenis, Narciso ritiene che mio zio possa avere un ruolo importante in questa faccenda».

«Non capisco perché ma, ciononostante, porterai con te anche lui: potrà tornare a Roma e darmi le informazioni una volta che avrai visto Sabino».

Vespasiano sapeva che non avrebbe rimandato indietro Gaio con nessuna informazione fino a che non avesse saputo a quale liberto darle.

«Tu, nel frattempo, continuerai verso est a bordo di una delle navi di Sabino e poi viaggerai via terra dalla costa. Sarai in Armenia in primavera».

«Agrippina sospetta che ho una doppia missione?»

«No, non sospetta niente. È solo felice che tu partica. Che ci sia lei dietro Radamisto o meno, non è preoccupata perché pensa che fallirai».

«Allora una cosa la sospetta».

«Quale?»

«Sospetta che non farò mai ritorno».

Pallante rivolse a Vespasiano un’occhiata astuta. «Questo è nelle mani degli dèi».