CAPITOLO III
Irriconoscibile nel mantello con un grande cappuccio, Vespasiano camminava in silenzio accanto a suo zio, scortato da quattro dei confratelli di Magno, mandati a vegliare su di loro per le strade notturne di Roma. Perfino nel cuore della notte la città ferveva di attività: fornitori che facevano le consegne con carri e carretti banditi dalle vie principali durante le ore diurne, e gente che festeggiava con le generose elargizioni dell’imperatore in ringraziamento per aver sconfitto il suo ostinato nemico, Carataco. Tuttavia, la presenza di così tante persone in giro non rendeva più sicuro il tragitto fino alla taverna di Magno; anzi era l’esatto contrario in una città dove gran parte della gente conduceva un’esistenza fatta di espedienti. Bande di briganti scorrazzavano per le strade trascinando gli incauti o gli ubriachi in vicoli bui per privarli dei loro averi e a volte anche della vita. Coloro che assistevano a tali rapine in genere preferivano rimanere al sicuro e farsi gli affari propri al pericolo mortale di soccorrere uno sconosciuto. Solo i vigiles armati di bastoni, i vigili del fuoco notturni nonché custodi della quiete pubblica, offrivano aiuto a chi era nei guai e, spesso, in cambio del contenuto della borsa della vittima.
Con quattro confratelli del crocevia dotati di torce, pugnali e randelli nascosti sotto il mantello, Vespasiano si sentiva al sicuro mentre procedevano lungo l’affollata Alta Semita, costeggiata da caseggiati a tre o quattro piani; una debole luce delineava di tanto in tanto una finestra in alto e vicoli bui erano accessi a un mondo oscuro e completamente fuorilegge tra le vie più frequentate. Ma non era l’attuale benessere a preoccupare Vespasiano mentre si estraniava dai canti degli ubriachi, le grida degli ambulanti e dei carrettieri, lo sferragliare delle ruote bordate di ferro, i bestiali richiami degli animali da soma e gli innumerevoli suoni che rendevano il sonno merce rara nelle strade più trafficate di Roma. A impensierirlo era ciò che il futuro aveva in serbo per lui.
«Se Agrippina si aspetta che io venga ucciso», disse a Gaio rompendo finalmente il silenzio, «mentre svolgo quel misterioso compito che propone Pallante, allora che spiegazione daresti al segno che ho trovato sul fegato sacrificale stamattina?»
«Non posso spiegarlo e di sicuro non lo renderei di dominio pubblico», rispose Gaio dopo aver ascoltato nuovamente l’accaduto.
«Non sono stupido!», sbottò Vespasiano in modo più brusco di quanto intendesse. «Ma quel segno implica che Marte ha stabilito per me un destino in qualche modo legato ai più importanti affari di Stato. Non sono un aruspice, ma quando metto insieme un chiaro riferimento diretto a me durante un sacrificio a Giove Ottimo Massimo, eseguito nel cuore della città per mano mia come console di Roma, con il fatto che gli auspici alla mia cerimonia del nome fossero di natura tanto delicata che mia madre ha costretto tutti i presenti a giurare di non farne mai parola, allora comincio a chiedermi di quale destino si tratti, visto che ho già raggiunto il consolato».
«Be’, io non ero alla tua cerimonia del nome quindi non posso esprimermi».
«Se fossi stato presente, avresti comunque dovuto giurare di non farlo. Ma comincio a sospettare che sia qualcosa di talmente scandaloso che tanto vale discuterne con te».
«Allora è su questo che hai rimuginato per tutta la cena. Pensavo che tu e Flavia aveste avuto una nuova discussione su questioni di denaro. Parla pure».
Vespasiano fece un respiro profondo e sperò che le sue riflessioni non venissero derise dallo zio. «È stato Sabino a mettermelo in testa inizialmente, quando Claudio è venuto in Britannia. Claudio si è accorto che avevo la spada di Marco Antonio, dono della matrona Antonia. Solo Pallante e Cenis sapevano che era stata lei a regalarmela, dal momento che me l’avevano portata loro dopo che Antonia l’aveva usata per tagliarsi le vene. Claudio mi ha chiesto come l’avevo avuta, perché era risaputo nella famiglia reale che sua madre l’avrebbe data solo a chi riteneva più meritevole di diventare imperatore. Ho mentito e gli ho detto che era stato Caligola a darmela. Pallante mi ha consigliato di non rendere mai nota la verità perché, se Claudio l’avesse scoperta, la mia vita avrebbe potuto essere in pericolo. Sabino ha assistito all’accaduto e ha voluto saperne di più. Ho minimizzato dicendo che si trattava di un banale regalo e, inoltre, non avevo il sangue dei Cesari. Poi mi ha chiesto quanto a lungo sarebbe durata quella stirpe».
«È una domanda infida».
«Ma anche pertinente. Se Claudio muore presto, Britannico verrà scavalcato e Nerone diventerà imperatore dopo aver sposato la sorellastra, che è anche sua cugina di primo grado. Non è proprio alla maniera egiziana, ma ci si avvicina parecchio. Quanto può durare una stirpe del genere? Supponiamo che finisca con Nerone, e poi?»
«A quel punto la guardia proclamerà un imperatore».
«Questo va bene solo se c’è un candidato idoneo appartenente alla famiglia imperiale. Ma ogni provincia dotata di legioni vorrà il proprio generale, perché se sostengono un uomo per la porpora sanno che la ricompensa sarà grande».
«Stai parlando di guerra civile?»
«Certo. E non ci sono regole riguardo il sangue che deve scorrere nelle vene di un uomo perché possa vincere una guerra civile. Deve solo fare in modo che il suo sangue resti al suo posto».
Gaio rivolse il volto incappucciato verso Vespasiano, esprimendo la propria costernazione. «Tu, caro ragazzo?»
«Perché no? Sabino era alla mia cerimonia del nome; ha visto gli auspici ma si è sempre rifiutato di parlarne per via del giuramento. Tuttavia, dopo che Claudio si è ripreso la spada, mi ha prospettato l’eventualità che non fosse un semplice dono: era possibile che Antonia l’avesse data a chi riteneva sarebbe stato l’imperatore migliore, come aveva sempre detto di voler fare? E in quel momento ho pensato: “Perché no? Perché non io?”. Perché prima o poi sarà qualcuno proveniente da un’altra famiglia; deve essere così perché Roma sopravviva. Tiberio, Caligola, Claudio? Se Nerone è come loro, allora…». Vespasiano si interruppe, non c’era bisogno di chiarire il concetto.
«Pensi che Sabino creda che tu possa diventare…?». Adesso toccava a Gaio lasciare una domanda in sospeso.
«Non sto dicendo questo. Sto solo dicendo che mi ha messo questa idea in testa. E penso che Pallante abbia anche qualche sospetto; penso che Antonia abbia detto qualcosa sia a lui che a Cenis quando, prima di morire, ha dato loro la spada di suo padre perché la consegnassero a me. Sono però propenso a credere che abbia fatto giurare loro di mantenere il segreto. Ma penso che le manovre di Pallante per mettermi in una posizione evidentemente così pericolosa, tanto che Agrippina non si aspetta che sopravviva, siano il suo modo di verificare le previsioni di Antonia».
«Significa che se sopravvivi, alla fine diventerai…?». Gaio cercò di nuovo, senza riuscirci, di portare a termine la frase.
«Ho idea che se sopravvivo, Pallante potrebbe guardarmi sotto una luce diversa».
«Non penserai seriamente che potresti essere tu…?»
«Perché no, zio? Guardami, guarda quanta strada ho fatto da quando fui portato a casa tua a sedici anni, con l’alto ideale di servire Roma per il bene comune. Adesso sono console, certo, solo per due mesi, ma lo sono diventato per merito di ciò che ho fatto, non del sangue che mi scorre nelle vene. Ho comandato una legione sul campo per sei anni, di cui quattro in Britannia contro alcune tribù molto ostili; ho versato sangue quando necessario e anche quando non lo era. Qui, a Roma, so come funzionano le politiche della città e del palazzo perché ormai sono anni che mio malgrado mi ci trovo invischiato. Sono diventato spietato quanto i professionisti da cui ho imparato e che ho finito per ammirare. Capisco il potere che conferiscono denaro, paura e patronato e so che ogni uomo può essere comprato con una combinazione di questi tre elementi; è solo questione di trovare la giusta dose di ciascun ingrediente. Sono qualificato, in teoria».
Le mascelle di Gaio fremettero di paura. «Non puoi credere che succederai a…?»
«No, zio. Ma un giorno potrò farmi strada fin là. Se il sangue dei Cesari fallisce, ci sarà una lotta per la porpora e chi meglio di qualcuno come me? Ma se deve essere qualcuno come me, allora perché non io?»
«E tu pensi tutto questo per via di un segno che somiglia a una V su un fegato?»
«Non solo. Lo penso perché tante cose, cose strane che sono successe nella mia vita, cominciano ad avere senso. La Fenice, la profezia di Anfiarao, Myrddin, l’oracolo di Amun che mi ha detto che ero andato troppo presto per conoscere la giusta domanda da fare. Ogni cosa bizzarra che mi è successa avrebbe così una spiegazione».
«Questo dovresti tenertelo per te, caro ragazzo. Non porterà niente di buono andare in giro a proclamare di essere un potenziale…». Gaio proprio non riusciva a pronunciare quella parola.
«Oh, lo terrò per me, zio. E non oserò credere di avere ragione fino a che non accadrà. Tuttavia, poiché adesso so che la possibilità esiste, starò attento a opportunità particolari e nel frattempo non farò niente di avventato».
«Come acconsentire a incontri segreti con intriganti liberti imperiali nel cuore della notte, ad esempio?», suggerì Gaio mentre raggiungevano l’incrocio tra l’Alta Semita e il Vico Lungo, lì dove si trovava la taverna di Magno.
Vespasiano sorrise allo zio. «Potrebbe essere un’opportunità. E inoltre», aggiunse mentre apriva la porta, «non è un segreto».
Vespasiano non si tolse il cappuccio mentre entrava nel locale affollato e opprimente. Sudore, vino stantio, profumo scadente e grasso di maiale bruciato gli assalirono le narici, urla ubriache e risa rauche gli risuonarono nelle orecchie e gli occhi presero subito a lacrimargli per l’acre fumo di carbone del fuoco di cottura dietro il bancone bordato di anfore sul lato opposto, più ampio, della taverna. Il ventre di Gaio suscitò alcuni commenti, non tutti bonari, mentre seguivano la loro scorta calpestando un pavimento appiccicoso di vino, tra la calca ambigua di bevitori e prostitute che gremivano la stanza. Suscitando sguardi incuriositi, attraversarono una soglia con cortine di cuoio e poi svoltarono a destra in un corridoio non illuminato. In fondo, il capo della loro scorta, un omone calvo prossimo alla sessantina, bussò con un pugno grosso quanto un prosciutto a una solida porta rinforzata e la aprì dopo aver sentito il suono di risposta dall’interno.
«Ben fatto, Sesto», disse Magno, alzandosi dal suo posto dietro la scrivania quando la porta si aprì. «Problemi?»
«Nessuno, fratello», rispose Sesto, facendosi da parte per lasciare entrare nella stanza Vespasiano e Gaio.
«Bene. Adesso porta fuori i tuoi ragazzi e da’ un occhio ai nostri due ospiti».
Sesto esitò un momento e poi proruppe adagio in una risata gutturale. «Ah, questa è buona, Magno», riuscì a dire tra le risa. «Da’ un occhio! Mi piace».
«Sì, sì, sì», replicò Magno, scuotendo la testa esasperato. «È stato quasi divertente la prima volta che abbiamo fatto questa battuta, tre anni fa». Il suo occhio buono guardò mortificato Vespasiano mentre la riproduzione in vetro fissò torva Sesto, accrescendo l’ilarità dell’uomo. «Adesso esci e fa’ come ti è stato detto».
«Da’ un occhio», ridacchiò Sesto mentre se ne andava con i confratelli, «hai detto proprio bene, Magno».
«Sesto ha una nuova battuta, mi sembra di capire», osservò Vespasiano mentre occupava il posto che Magno aveva appena liberato.
Magno prese la brocca sulla scrivania e riempì tre tazze di vino. «Ogni volta che la sente, pensa che sia la prima volta».
«Proprio come quando offriva sempre una mano a Mario che aveva un braccio solo».
«Sì, è la stessa cosa e lo diverte per ore».
Gaio si sedette accanto al nipote, accettando una tazza di vino. «Tuttavia è un ragazzo solido e affidabile, per quanto lo conosco».
«Solido è la parola giusta in più di un senso, signore», osservò Magno, offrendo una tazza a Vespasiano. «Conosce i suoi limiti e non ha fatto storie quando ho promosso Tigran come mio vice, dopo la morte del vecchio Servio». Magno attraversò la stanza, aprì una porta sul lato opposto e guardò fuori nell’oscurità. «Mi manca quel vecchio stronzo», continuò, chiudendo e sprangando la porta. «Anche se verso la fine era ormai cieco, vedeva comunque la via d’uscita a un problema». Magno si fermò a riflettere un istante. «Stavo ripensando a ciò che hai detto stamattina sul ritirarsi adesso. Potrebbe non essere una cattiva idea. Ho promesso a Tigran che l’avrei fatto presto. Forse sarebbe meglio farlo ora che non esservi costretto da un’altra confraternita che sale al potere o da Tigran, che mi pianta un coltello tra le costole perché non può aspettare».
Vespasiano rimase interdetto. «Farebbe una cosa del genere?»
«Ci aveva già pensato. È stata solo la mia promessa a fermarlo. A ogni modo, è così che io mi sono aggiudicato il lavoro anni fa». Magno chiuse e fissò gli scuri dell’unica finestra nella stanza, attutendo il rumore del traffico e le urla degli ubriachi che giungevano dalla strada.
«Ventisei, per la precisione», li informò Gaio. «Dovrei ricordarmelo visto che mi è costato una fortuna in mazzette e denaro sporco di sangue per salvarti dalla condanna nell’arena».
«Cosa per la quale ti sono sempre stato riconoscente, senatore».
«E mi hai ripagato più e più volte». Gaio ridacchiò, tenendo la tazza tra le mani. «Non credo che avrò più buoni servigi dalla confraternita se Tigran diventerà il capo».
«Di sicuro ti costerà di più; ma sono certo che potremo arrivare a un accordo come parte del trasferimento di potere». Un colpo alla porta gli impedì di spiegarsi meglio. «Ah, i vostri ospiti». La aprì, trovando sulla soglia la massiccia sagoma di Sesto; l’uomo si spostò da un lato, con le spalle scosse da un leggero tremito, come se stesse ancora tenendo a freno l’ilarità.
Un momento dopo, Narciso entrò nella stanza togliendosi il cappuccio. Agarpeto lo seguì. Narciso guardò Magno con gli slavati occhi languidi. «Il temibile Magno della Confraternita del Crocevia del Quirinale meridionale», canticchiò, andando dritto a una sedia e sedendosi di fronte a Vespasiano e Gaio. Il profumo della sua lozione impregnò la stanza. «Grazie per la tua ospitalità. Ho sentito dire che ultimamente stai perdendo colpi, uhm?».
Magno si irritò. «Non direi proprio». Scoccò a Narciso un’occhiataccia orba e poi, spintonando Agarpeto, lasciò la stanza.
Narciso finse di non notare la porta che sbatteva. «Buonasera, signori».
«Buonasera, segretario imperiale», risposero Vespasiano e Gaio mentre Agarpeto veniva avanti per mettersi alla destra del suo patrono.
«Hai fatto buon viaggio, spero», si informò Gaio al massimo dell’ossequiosità.
«Sono venuto in carrozza e le strade erano terribili, intasate di parassiti e perdigiorno ubriachi del vino del nostro misericordioso imperatore». Il greco esaminò uno dei tanti anelli ingioiellati che portava a ciascun dito grassoccio e parlò come rivolto al rubino incastonato. «Esattamente il motivo per cui ho scelto questa notte per il nostro incontro. Quindi, bando alle chiacchiere e andiamo dritti al sodo».
«Abbiamo sempre ammirato il tuo parlare schietto», replicò Vespasiano versando un’altra tazza di vino.
La bocca di Narciso fremette in quella che era la parvenza di un sorriso. Si protese in avanti e appoggiò i gomiti sul tavolo, unendo la punta delle dita e accostandole alle labbra, sulla barba nera unta e curata; pesanti cerchi d’oro, appesi a ciascun lobo, mandarono bagliori alla luce della lampada mentre dondolavano avanti e indietro. Osservò Vespasiano e Gaio per qualche momento, alternando adagio lo sguardo tra i due, come se stesse decidendo a chi rivolgersi per primo. Dalla taverna giunsero risa chiassose al di sopra di canti e battimani sempre più sonori. Evidentemente una prostituta e il suo cliente venivano incoraggiati nel loro amplesso.
Vespasiano spinse sulla scrivania la tazza riempita, sostenendo lo sguardo dell’ospite quando si posò su di lui, e rimase sconvolto da quanto fosse segnato il viso pieno di Narciso rispetto all’ultima volta che l’aveva visto così da vicino. L’aver perso la sua influenza sull’imperatore, anche se non titolo e funzione, a vantaggio del collega Pallante era stato evidentemente un duro colpo; non era facile vivere con la paura costante di essere giustiziato. Tuttavia Vespasiano non provò alcuna pietà per lui mentre osservava la macchia nera della tintura sulla pelle pallida all’attaccatura dei capelli e sotto la barba. La minaccia di una morte arbitraria incombeva su ogni romano dall’ordine equestre in su, a partire dal regno di Tiberio. Più si era vicini al centro del potere, più grave quel pericolo diventava. Era una cosa che Pallante aveva ammesso l’unica volta che aveva lasciato cadere la maschera davanti a Vespasiano.
«Entrambi conoscete bene la situazione in cui mi trovo», esordì Narciso, socchiudendo gli occhi. «Sono il segretario dell’imperatore, gestisco i suoi appuntamenti e pertanto decido chi può avere udienza. Eppure, negli ultimi due anni, la mia influenza su di lui è stata trascurabile. Da quando Pallante e Agrippina hanno fatto in modo che ordinassi l’esecuzione di Messalina prima che Claudio avesse preso una decisione chiara, ho perso il favore del mio signore. Sì, riesco ancora a ricavare parecchio dal denaro addebitato per le udienze, ma non è niente in confronto a quanto guadagna Pallante quando sfrutta l’influenza che ha a palazzo. Sono ancora vivo perché Claudio non si decide a ordinare la mia esecuzione, in quanto solo io conosco la sua situazione finanziaria. Sono vivo perché è troppo disordinato per vivere senza di me. Agrippina ha attentato un paio di volte alla mia vita ma sono troppo prudente per lei. Ma ben presto non dovrà più fare ricorso all’assassinio. Una volta morto Claudio, è ben chiaro a tutti cosa accadrà».
Separò impercettibilmente le mani e le tenne ferme, invitando Vespasiano a rispondere.
«Nerone diventerà imperatore».
«Sì, l’atteggiamento di Claudio questo pomeriggio nei confronti di Britannico ci ha mostrato quanto si è allontanato dal proprio sangue e dalla propria carne. Ha perfino acconsentito alla richiesta di Agrippina e fatto giustiziare Sosibio questa sera in quanto responsabile dell’insulto premeditato di Britannico».
Vespasiano rimase sconvolto per le conseguenze estreme della vendetta di Britannico e si chiese se il ragazzo o suo figlio Tito avessero pensato a un’eventualità del genere. Si scoprì a sperare che lo avessero fatto: era quello che si meritava l’uomo le cui menzogne lo avevano costretto a una falsa testimonianza. «Certo, era stato incaricato da Messalina. Immagino fosse solo questione di tempo prima che Agrippina lo colpisse».
«Non è famosa per la sua misericordia ed è spietata per imporre Nerone e se stessa al potere. Non poteva far giustiziare il ragazzo e perciò si è dovuta accontentare del precettore». Narciso inclinò il capo di qualche millimetro. «Fortuna che Tito non era accanto a Britannico».
Vespasiano si sentì raggelare ma poi provò un’ondata di speranza. «Forse con la morte del precettore avrò una buona scusa per voler trovare un’alternativa a Tito».
«Ho paura di no. L’educazione di Britannico e quella dei suoi compagni è stata adesso affidata a Seneca. Claudio è riuscito a mettere Britannico ancora di più in pericolo affidandolo all’unico uomo che Agrippina rispetta e a cui Nerone dà ascolto. Poiché Seneca è spietato quanto madre e figlio nella ricerca del potere, sarà d’accordo con loro sul fatto che Britannico rappresenti un ostacolo. Qualsiasi opinione tu avessi di Sosibio, per lo meno offriva una sorta di protezione da quei tre».
Vespasiano capì il ragionamento e cominciò a desiderare che l’odioso precettore non fosse stato eliminato tanto sommariamente.
«Perciò, Claudio condannerà a morte il figlio facendo di Nerone il suo erede e quel serpentello velenoso fa tutto quello che la madre gli dice di fare». Narciso riaccostò la punta delle dita e, a turno, guardò in modo eloquente ciascuno di loro. «Tutto. E lei riesce a fargli fare tutto ciò che chiede perché, a sua volta, fa tutto quello che lui le chiede. E, posso dirvelo, signori, le sue richieste sono ben lontane da quelle che un figlio dovrebbe fare alla propria madre».
Vespasiano rabbrividì a quell’immagine ma, avendo visto Nerone raggomitolarsi contro Agrippina e poggiare la testa sul seno della madre quel pomeriggio, la cosa non lo sorprendeva più di tanto. Anzi, rifletté, dopo quello che aveva visto con Tiberio e Caligola, c’era ben poco che la famiglia imperiale poteva fare adesso per sconvolgerlo. Caligola aveva approfittato liberamente delle sue sorelle, Agrippina tra esse. Perché lei non sarebbe dovuta andare oltre e fare altrettanto col proprio figlio? Ma come avrebbero reagito il Senato e il popolo di Roma al fatto che una coppia tanto innaturale governasse su di loro? E se Nerone si sentiva libero di andare a letto con la madre, a quale altra depravazione non avrebbe rinunciato?
Dalla taverna, si udì un crescendo di applausi e acclamazioni: la felice conclusione della faccenda si prospettava imminente.
Narciso alzò impercettibilmente la voce al di sopra degli schiamazzi. «Una delle prime condizioni che imporrà a Nerone per continuare queste insane pratiche una volta diventato imperatore sarà la mia morte. E questo, signori, è qualcosa che intendo evitare». Narciso si fermò per un sorso di vino, mostrò di non apprezzarne l’invecchiamento, o la sua mancanza, e poi si asciugò le labbra con un fazzoletto. «Ora, la cosa interessante è che voi due vi ritrovate con un problema simile, anche se potenzialmente non così fatale». Narciso indicò il suo liberto con un impercettibile movimento del capo. «Agarpeto si è ritrovato in possesso di informazioni molto interessanti grazie al trierarca di una nave commerciale appena tornata dal regno della Colchide, sulla costa orientale dell’Eusino. Sembra che una delegazione partica abbia attraversato Fasi, il maggiore porto della Colchide, verso la fine di settembre, diretta in patria tramite i regni di Iberia e Albania e poi attraverso il Mar Caspio, per poi costeggiare in direzione nord il nostro regno cliente dell’Armenia.
Ora, potrebbe non essere niente di per sé: i parti mandano spesso delegazioni alle tribù e i regni attorno all’Eusino e i nostri mercanti ne riferiscono sempre la presenza. Paghiamo bene le informazioni. Ma ciò che ha attirato l’attenzione di Agarpeto è stato un precedente rapporto intercettato da uno degli uomini di Agrippina: diceva di aver ucciso un agente, come gli era stato ordinato, subito dopo che l’uomo aveva informato il governatore della Mesia che una delegazione partica presso le tribù al di là del Danubio era arrivata a Tyras, poco più a nord di quella provincia. Perciò a questo agente era stato impedito di riferire la notizia a chi lo pagava. Purtroppo non sappiamo chi fosse. Questo, come ho detto, è successo a settembre e verso la fine di quel mese, guarda caso, il nostro re fantoccio in Armenia ha subito un’invasione condotta da suo nipote. È ragionevole pensare che si trattasse della stessa delegazione ed è altrettanto ragionevole supporre in base alla loro rotta che, nel raggiungere il Danubio, abbiano attraversato l’Iberia. Ora, l’Iberia è stata la base di questa invasione che è riuscita a rovesciare il re armeno».
Narciso inarcò un sopracciglio e affrontò un altro sorso di vino mentre fuori dalla porta la taverna esplodeva in un’altra enorme acclamazione.
Vespasiano capì subito il sottinteso di Narciso. «Dunque i parti potrebbero aver dato il via all’usurpazione armena durante il loro passaggio e Sabino deve aver fallito nell’impresa di ucciderli o catturarli, malgrado fosse stato avvertito della loro presenza».
«Così parrebbe. Davvero negligente, non credi?». Narciso si asciugò di nuovo le labbra; il livello del rumore dalla taverna era calato e adesso si sentivano solo risate e chiassosi scambi di battute. «Se avessimo modo di interrogarli, conosceremmo l’obiettivo della loro missione tra le tribù settentrionali e, cosa più importante, sapremmo per certo se la Partia sta cercando ancora una volta di destabilizzare l’Armenia. Ma ormai è fatta e si può solo sperare che le conseguenze non siano troppo, ehm, disastrose per Roma. O, a dirla tutta, per Sabino e forse perfino per la sua famiglia».
«Ci stai minacciando, Narciso?»
«Mio vecchio amico», tubò Narciso senza traccia di benevolenza, «non sto facendo niente del genere. Non ne ho bisogno. Agrippina ha fatto in modo che la notizia del suo fallimento sia già giunta alle orecchie di Claudio e Pallante e ha affermato che dopo un simile errore non ci si può fidare della tua famiglia. Ieri, su richiesta dell’imperatore, ho personalmente depennato il tuo nome dalla lista dei governatori per il prossimo anno; Tito Statilio Tauro andrà in Africa al posto tuo».
«Africa?», si lasciò sfuggire Gaio. «L’imperatore aveva intenzione di premiare Vespasiano con l’Africa?»
«Direi di sì, ma non andrà così. Un vero peccato, una provincia tanto prestigiosa».
Le mascelle di Gaio fremettero di sdegno. «Tu hai tolto l’Africa alla nostra famiglia?»
«Calmati, senatore. Io non ho fatto niente. Ho solo corretto la lista su istruzioni dell’imperatore, dopo che era stato consigliato dall’imperatrice. Proprio non le piaci, Vespasiano».
«Ne sono consapevole e conosco anche il vero motivo. Ma tu le piaci ancora meno».
Narciso scostò le mani ed esclamò con finta gioia: «Ah! Torniamo all’argomento che non mi stanca mai: me stesso. Sì, mi vorrebbe morto. E qual è il modo migliore per evitarlo e al tempo stesso renderti un grande servizio permettendo nuovamente ai membri della tua famiglia di ricoprire cariche prestigiose?».
Vespasiano lanciò un’occhiata allo zio e capì all’istante che non avrebbe fornito la risposta. «Uccidere Agrippina?».
Narciso emise un verso di disapprovazione e alzò la tazza per un altro sorso prima di ripensarci. «Uccidere un’altra imperatrice? Non credo che sopravviverei ancora una volta, per quanto caotico possa essere lo stato degli affari di Claudio. No, signori, la risposta è smascherarla per quello che è».
Adesso toccava a Vespasiano mostrarsi sprezzante. «Sia tu che Pallante avete cercato di farlo nel caso di Messalina, ma Claudio si è rifiutato di credervi».
«Esattamente, ma stavolta l’enfasi è cambiata. Allora stavamo cercando di indurre Claudio a credere che Messalina se la fosse spassata con la maggior parte degli uomini della classe equestre e senatoriale e stesse provando la guardia pretoriana una centuria dopo l’altra, il che, per quanto vero, è un’esagerazione facilmente confutabile. Stavolta devo solo convincere Claudio che sua moglie non solo va a letto con il suo più fidato consigliere ma lo fa becco con il proprio figlio. Quel figlio che lei ha persuaso Claudio ad adottare». Narciso si protese sulla scrivania e guardò Vespasiano dritto negli occhi. «È tutto alquanto sgradevole, non credi? E per l’ennesima volta il nostro divino imperatore appare sempre meno un dio e sempre più uno sciocco. Certo, noi ci siamo abituati, ma lui no. Penso che il trauma lo renderà molto vendicativo e, come minimo, tutti e tre i suoi traditori finiranno il resto della vita su uno scoglio brullo, come Agrippina, sua madre, e i suoi fratelli maggiori». Gli angoli della sua bocca fremettero nuovamente in una pallida parvenza di sorriso. «Si può quasi dire che sia una tradizione di famiglia».
Vespasiano non poté fare a meno di ammirare la logica di quel ragionamento. «Con una mossa ti sbarazzi di entrambi i tuoi rivali, elimini Nerone e fai rientrare Britannico nella successione, con te come arbitro del potenziale reggente quando arriverà il momento. Senza dubbio sceglieresti qualcuno di scarso rilievo, anch’egli tuo debitore, e ancora una volta saresti il padrone di Roma».
«E tu governeresti la provincia che desideri; l’errore di Sabino verrebbe presto dimenticato e tu, mio caro Gaio, avresti quel tanto sospirato consolato».
Vespasiano mantenne un’espressione neutra. Era tentato ma sapeva di non potersi fidare di quel greco. Ricordava fin troppo bene la prontezza di Narciso a rimangiarsi la promessa di non rivelare mai il ruolo di Sabino nell’assassinio di Caligola quando la convenienza politica l’aveva richiesto.
Gaio, tuttavia, abboccò all’esca; i suoi occhi luccicarono alla luce della lampada. «Cosa vuoi che facciamo, mio caro Narciso?»
«Le uniche persone a cui Claudio crederebbe sono Agrippina e Pallante stessi».
«Ma nessuno dei due ammetterà mai la cosa che provocherebbe la loro caduta».
«Certo che no, senatore». L’irritazione del greco a quell’ovvia affermazione si manifestò con l’abbassarsi del suo tono di voce.
Vespasiano drizzò le orecchie. Il chiasso dalla taverna aveva assunto un timbro diverso.
Gaio arrossì. «Chiedo scusa».
Narciso minimizzò con un plateale gesto della mano, socchiudendo gli occhi. «Ma confesseranno a Claudio se l’alternativa è l’accusa di tradimento. Tradimento palese, per il quale saranno con ogni certezza giustiziati».
«Tradimento?», domandò Vespasiano, nuovamente attento alla conversazione. «Cosa hanno fatto?»
«La tempistica e la fonte di questi rapporti da oriente e poi i recenti disordini in Armenia mi hanno portato a credere che Agrippina abbia affrettato una crisi di cui neanche Pallante è a conoscenza. Se il mio istinto non si sbaglia, è collegata alla delegazione partica che tuo fratello si è con tanta negligenza lasciato sfuggire. Ma fino a ora non ho prove. Tutti e due, però, potreste aiutarmi. Ora, se questo tradimento viene alla luce, si darà certamente per scontato che Pallante ne faceva parte e verrà giustiziato insieme a…». Lo strillo di una donna dalla taverna lo interruppe, spingendolo a guardare allarmato la porta.
Vespasiano balzò in piedi; eruppero urla e grida maschili, seguite dal fracasso di mobili che si rompevano. Agarpeto sguainò una spada da sotto il mantello, aprì leggermente la porta, guardò fuori e si ritrasse in tutta fretta.
Magno irruppe nella stanza. «Siamo sotto attacco!», gridò mentre raggiungeva di corsa una cassa di legno. «I bastardi hanno sfruttato i festeggiamenti per superare la nostra sicurezza». Spalancato il coperchio, tirò fuori una spada e la lanciò a Vespasiano; seguirono altre due per Gaio e Narciso mentre arrivava anche Sesto. «Porta queste nella taverna, fratello», disse Magno. Prelevò il resto del contenuto della cassa e lo piazzò tra le braccia di Sesto, tenendone una per sé. «Poi ritirati qui con i ragazzi. Li fermeremo nel corridoio».
«Chi vi sta attaccando?», volle sapere Vespasiano, sguainando la spada con un suono metallico.
Magno conficcò la punta della lama tra due assi del pavimento. «Chi cazzo lo sa, ma fanno sul serio». Con un grugnito, estrasse l’arma e fece scattare in alto un’asse.
Vespasiano capì quanto facessero sul serio quando le prime zaffate di fumo giunsero attraverso la porta.
«Stanno dando fuoco alla taverna!», urlò Narciso, tirando fuori la spada e guardandone incredulo la lama.
«Ecco perché dobbiamo farci largo dalla porta sul retro», replicò Magno. Da sotto il pavimento tirò fuori un forziere.
Il clangore di ferro contro ferro risuonava al di sopra delle urla; poi un lamento si aggiunse al frastuono, crescendo pieno di terrorizzata consapevolezza: qualcuno era stato ferito gravemente.
«Zio, aiuta Magno con quella cassa». Vespasiano superò Narciso e Agarpeto e infilò la testa fuori dalla porta, vedendo un paio di prostitute irrompere dalla cortina di cuoio. Le seguirono volute di fumo. Svoltarono nel corridoio e, quando lo videro, sgranarono gli occhi e scomparvero su per le scale dall’altro lato. Vespasiano corse alla cortina e, con cautela, la scostò impercettibilmente. Le fiamme divampavano dietro al bancone, dove sul fuoco di cottura era stato versato del liquido incendiario; un corpo fremeva sul ripiano, emanando lamenti sempre più deboli man mano che la carne si carbonizzava. Dozzine di sagome lottavano alla luce della vampa, a coppie o in gruppi, a mani nude o con coltelli, urlando, imprecando, ruggendo mentre combattevano per la propria vita. I corpi dei moribondi si contorcevano agonizzanti sul pavimento, ostacolando amici e nemici mentre tutti lottavano per non perdere l’equilibrio e la possibilità di sopravvivere. Tra le loro teste e la coltre di fumo sempre più spessa, Vespasiano vide che la porta all’estremità era bloccata da due minacciose figure armate di randello: nessuno sarebbe uscito da lì.
Sesto, sbraitando come un orso pungolato e incatenato, abbatté la spada sull’arma di un avversario, costringendolo ad abbassarla sempre di più mentre i suoi fratelli lentamente cedevano terreno attorno a lui, incalzati dalla forza degli assalitori e dalla crescente violenza delle fiamme. Non si poteva andare avanti, solo indietro.
«Sesto!», urlò Vespasiano nella stanza. «Adesso, prima che sia troppo tardi!».
Sesto ruggì e calò di taglio la spada con una forza tale che quella dell’avversario sfuggì alla sua presa. Con una velocità impensata per la sua stazza, Sesto cambiò il colpo da verticale in orizzontale, tagliando la gola scoperta in un’esplosione di sangue, nero al tremolio delle fiamme, e poi calò la spada sul braccio sollevato dell’intruso accanto al moribondo, mozzandogli l’arto all’altezza del gomito e facendolo volare, in spirali di sangue, sulle teste dei suoi compagni, con l’arma ancora stretta in pugno che brillava alla luce del fuoco.
Vespasiano si allontanò dall’uscio mentre i fratelli del Crocevia del Quirinale meridionale approfittavano del momento di estrema violenza per ritirarsi di qualche altro passo. Avviandosi lungo il corridoio, i primi si fecero largo al di là della cortina di cuoio.
«Stanno arrivando?», domandò Magno a Vespasiano che entrava di corsa nella stanza.
«Il più veloce che possono», rispose Vespasiano.
Narciso lo guardò. Per la prima volta Vespasiano vide un’espressione autentica sul volto del liberto: era paura. «Sono il segretario imperiale. Non posso restare intrappolato qui. Devo uscire!».
«Tutti dobbiamo uscire, ma non da quella parte».
«Da questa parte», intervenne Magno, che aprì la porta sul lato opposto della stanza mentre Gaio era in difficoltà con il forziere, «ci sono due porte sul retro, be’, tre in realtà».
Narciso e Agarpeto lo superarono veloci come fulmini e uscirono nell’oscurità.
I primi confratelli irruppero nella stanza, portando con sé zaffate di fumo. Il rumore della lotta nel corridoio continuava, feroce e incessante, man mano che il resto dei confratelli di Magno cedevano lentamente terreno, con la voce di Sesto che tuonava sopra a quel caos.
«Chiunque ci stia attaccando non è venuto solo per i guadagni della serata», osservò Vespasiano prendendo da Magno un’estremità del forziere.
Torvo, Magno scosse la testa. «No, e questo mi fa pensare che siamo nel bel mezzo di una lotta per il controllo del territorio». Spada alla mano, tornò alla porta sul corridoio. «Prima faremo entrare tutti i ragazzi qui dentro, sprangheremo la porta e poi cercheremo di fuggire insieme. Se questa è opera di una confraternita rivale, potrebbero essere a conoscenza di tutte le vie d’uscita. Ritirata, ragazzi!». Spintonando alcuni fratelli, arrivò al corridoio mentre il fumo si infittiva. «Sesto, portali tutti qui». Si rivolse a un orientale, con barba a punta e calzoni, e a un vecchio greco con una brutta cicatrice sulla guancia sinistra, dove la barba gli cresceva a chiazze. «Tigran, porta metà dei ragazzi all’uscita sud e aspetta che ti dia il segnale prima di togliere i chiavistelli. Cassandros, porta gli altri a quella nord e non dimenticare i martelli, così per sicurezza. E manda i ragazzi ad aiutare il senatore con quel forziere. A che cazzo serve il lavoro manuale che fanno?».
Tigran e Cassandros se ne andarono radunando i confratelli, due dei quali presero il forziere da Vespasiano e Gaio, mentre Magno ne faceva entrare sempre più dal corridoio fino a che rimase solo l’impetuosa mole di Sesto a impedirgli di sprangare la porta. «Adesso, Sesto!».
Sesto fece un salto all’indietro e, con un colpo fulmineo, conficcò la punta della spada nella spalla dell’assalitore più vicino; l’uomo cadde addosso ai suoi compagni e Magno spinse la porta, chiudendola con forza mentre Sesto estraeva l’arma. Spinse il chiavistello al suo posto mentre Vespasiano correva a recuperare la sbarra di ferro che bloccava la porta; nel giro di un istante venne saldamente inserita nei suoi alloggiamenti.
«Tempo di andare, signore. Ben fatto, Sesto, ragazzo mio». Magno si voltò e attraversò la stanza seguito dal compagno mentre la porta rinforzata cominciava a tremare sotto i colpi nemici. «Dovranno ritirarsi in fretta per via del fumo».
Vespasiano andò alla scrivania e spense l’ultima lampada che ancora ardeva nella stanza, lasciando che a illuminarla fosse la fioca luce proveniente dalla via di fuga. Magno lo stava aspettando e sprangò la porta dietro di sé prima di infilare un altro corridoio ancora più lungo nell’edificio che si allargava, man mano che seguiva le direzioni opposte dell’Alta Semita e del Vico Lungo. Vespasiano seguì Magno in una piccola stanza. Da una porta aperta sul lato opposto giungevano i rumori della lotta.
«Quegli stupidi bastardi hanno cercato di andarsene prima che fossimo tutti quanti qui», sibilò Magno mentre correvano verso quel frastuono.
Un istante dopo, irruppero in un magazzino, largo quanto l’edificio; una dozzina di confratelli si affannavano a chiudere una porta che dava sul Vico Lungo. Un gigante muscoloso con gli avambracci coperti di cicatrici stava sullo stretto uscio, un piede sul corpo che impediva alla porta di chiudersi, e falciava con la spada insanguinata tutti quelli che gli cadevano addosso, creando un fluido movimento turbinante.
«Fottuto ex gladiatore», imprecò Magno quando anche lui si gettò di peso contro la porta. «Levate di mezzo quel corpo!».
Mentre Tigran e un altro confratello facevano a turno ad affrontare la macchina da combattimento che cercava di guadagnare l’ingresso, Vespasiano si piegò tra i due e afferrò uno dei polsi del morto. Tirò con tutta la forza e il corpo morto lentamente si spostò. Un clangore metallico gli fece ritrarre istintivamente la testa; Tigran aveva bloccato un colpo dall’alto diretto al suo collo. L’orientale parò di nuovo e, trattenendo il fiato, Vespasiano riprese a tirare il braccio del morto. Stavolta lo fece con la disperazione di un uomo spacciato; il cadavere scivolò, lubrificato dal proprio sangue. Sgombrata l’apertura dall’ostacolo, i confratelli di Magno si diedero da fare per chiudere la porta, costringendo l’ex gladiatore a ritirarsi o a rischiare di perdere un braccio nello spazio sempre più stretto.
«Chi cazzo ha dato il segnale, Tigran?», ringhiò Magno quando finalmente la porta si chiuse e i fratelli la sprangarono.
«È stato lui, fratello», urlò Tigran, indicando l’angolo. «Lui e il suo liberto hanno aperto la porta».
Narciso era lì, impaurito, e guardava l’uomo morto ai piedi di Vespasiano. «Devo uscire! Non posso morire in questo buco!».
«Potevi farci uccidere tutti quanti!», gridò Tigran e si avventò su Narciso puntandogli la lama alla gola.
Narciso lanciò un urlo.
Vespasiano afferrò Tigran per il polso e fermò il colpo a un pelo dalla carne tremante del greco. «Lui resta vivo!».
Tigran cercò di spingere il braccio in avanti ma Vespasiano tenne duro; con un cenno del capo e un’alzata di spalle, l’orientale cedette.
Narciso versò lacrime di sollievo.
Vespasiano guardò il greco che aveva ordinato così tante morti; disgustato, diede un calcio al cadavere ai suoi piedi. La testa ciondolò nella luce: Agarpeto.
Magno non perse tempo con le recriminazioni. «Tigran, tu resta qui con un paio di ragazzi e tieni d’occhio la porta. Voi altri, venite con me». Corse all’altro lato della stanza, ma non c’era uscita sull’Alta Semita, solo una piccola finestra; girò a sinistra lungo un altro corridoio.
Vespasiano afferrò per la manica il singhiozzante Narciso e lo tirò via con sé lanciandosi dietro a Magno.
All’altro capo del corridoio, arrivarono all’ultima stanza; c’era una porta che dava sull’Alta Semita ma nessun’altra uscita. Era affollata da almeno una ventina di uomini.
«Ho pensato che sarei stato più al sicuro quaggiù», disse Gaio a Vespasiano mentre si faceva largo verso di lui. «Quando ho visto Narciso che ordinava a Agarpeto di aprire la porta prima che fossimo pronti, ho capito che era una pessima idea».
«E se avessero bloccato anche questa uscita, zio?»
«La prognosi non sarebbe molto favorevole. Non c’è altra uscita a parte tornare indietro».
«Io devo uscire!», belò Narciso.
Ma non era la porta la destinazione di Magno, bensì la parete vuota all’altro lato. «Non rischieremo dalla parte più ovvia. Cassandros, hai preso i martelli?».
Il greco sfregiato annuì e indicò un confratello che sollevò due pesanti attrezzi e gliene consegnò uno.
«Dateci dentro, allora, ragazzi».
Magno si fece indietro, i fratelli presero posto di fronte alla parete uno di fronte all’altro e si issarono i martelli in spalla. Alla luce fioca, Vespasiano scorse la leggera sagoma di una porta tracciata sul muro.
«Questa la riserviamo alle occasioni speciali», spiegò Magno a Vespasiano e Gaio. «Non abbiamo mai dovuto usarla, perciò speriamo che i bastardi non ne sappiano niente».
Il primo colpo calò con uno schianto rimbombante; dall’altro lato della stanza, il chiarore della fiamma guizzò nello stretto spazio tra la porta e il pavimento.
«Presto, ragazzi», disse Magno mentre Tigran e i suoi due ragazzi arrivavano come fulmini dal corridoio. «Non dirlo neanche, Tigran, posso immaginarlo. Spranga quella porta e basta».
La tensione nella stanza crebbe man mano che il fumo si insinuava da sotto la porta che dava sulla strada e le fiamme dall’altro lato divampavano.
I martellatori lavoravano con rapidi colpi alternati, abbattendo ben presto lo spesso strato di gesso.
Vespasiano si perse d’animo quando apparve un solido muro di piccoli mattoni; si guardò indietro e vide che il fuoco era sempre più vicino.
«D’accordo, ragazzi, qualche colpo ciascuno alla base dovrebbe bastare».
Sempre attento al fuoco che stava divorando la porta di legno, Vespasiano osservò i martelli abbattersi sui mattoni in basso. Con sua grande sorpresa, i colpi li fecero schizzare all’esterno: non erano stati fissati con la calce. Dopo tre o quattro martellate, si aprì un varco alto un piede; un istante dopo, due dei mattoni in basso caddero a terra, seguiti da quelli in alto, che crollarono in una nuvola di polvere.
«Sgomberate l’uscita, ragazzi», ordinò Magno.
Una mezza dozzina di fratelli venne avanti e cominciò a sollevare e scagliare via i mattoni. Dopo meno di un minuto, il mucchio fu abbastanza basso per salirci sopra e i fratelli si riversarono fuori. Vespasiano si ritrovò nell’angolo di un cortile a forma di delta, puzzolente di rifiuti marci e feci, incastrato tra gli ultimi caseggiati sull’Alta Semita e il Vico Lungo. Alla sua sinistra, le fiamme dalla taverna al crocevia si levavano fino al cielo; alla sua destra, c’era la parte posteriore di un altro paio di caseggiati divisi da uno stretto vicolo.
«Presto, da quella parte, ragazzi. Poi dividetevi e rallentate; disperdetevi nei vicoli dall’altro lato».
Mentre la Confraternita del Quirinale meridionale si disperdeva in silenzio, Magno scambiò in fretta due parole con Tigran e i confratelli con il forziere. Poi guardò Vespasiano e Gaio. «Penso che dovrò affidarmi all’ospitalità di uno di voi per questa notte».
«E forse per qualche notte a venire, amico mio», osservò Gaio.
«Non credo, signore. Se la cosa è stata organizzata da chi penso, allora sono un uomo morto se resto. Me ne vado da Roma il prima possibile».
«E io?», domandò Narciso. La sua voce aveva ritrovato un po’ della sua altezzosa dignità. «Non posso rischiare di andare a cercare la mia carrozza. Dovete proteggermi. Questo doveva essere un posto sicuro dove incontrarsi».
Magno si accigliò a quelle parole e poi fece strada attraverso il cortile.
Vespasiano guardò il greco e si chiese se avrebbe provato gratitudine per essere stato tratto in salvo o il contrario, dal momento che la sua latente codardia era stata smascherata.
Decise che non aveva niente da perdere e probabilmente avrebbe avuto più da guadagnare aiutandolo. «Sarà meglio che tu venga con noi».
Il problema era la velocità o, meglio, la sua mancanza, mentre Magno guidava Vespasiano, Gaio e Narciso attraverso vicoli e cortili bui che separavano le malsane abitazioni, costruite senza un minimo di progettazione urbana, tra le due strade principali del Quirinale. A intralciare la loro avanzata non erano il ventre di Gaio o l’incapacità di Narciso di fare più di dieci passi senza affanno; erano i rifiuti, sia solidi che viscidi, disseminati sul terreno già costellato di buche invisibili. Magno imprecava mentre li guidava in fila per uno, incespicando, le braccia tese in avanti e i piedi che facevano passi incerti, attraverso quell’oscurità che solo di tanto in tanto veniva rischiarata dalla luce tremolante di una candela alla finestra o una torcia che crepitava nel suo sostegno accanto a una porta. Tutt’intorno c’erano urla e grida, non i suoni della fuga e dell’inseguimento, ma il rumore degli abitanti di quel ventre molle della città, che discutevano e litigavano tra loro in un ambiente in cui la contentezza era un sogno remoto.
Vespasiano guardò dietro di sé; il fondo del vicolo era fiocamente illuminato dal chiarore del fuoco che divampava nella taverna, distante circa duecento passi. Non c’era traccia degli aggressori né dei fratelli di Magno, che si erano divisi in piccoli gruppi e sparpagliati in direzioni diverse, mescolandosi al quartiere e disperdendosi. Ma era facile per uomini vestiti con le rozze tuniche di lana e i mantelli usati dalla plebe urbana. Sarebbero passati inosservati tra i briganti e i tagliagole tanto quanto i cani rognosi che infestavano quelle vie senza legge.
Si tolse il mantello e lo porse a Narciso che lo precedeva. «Copriti gli abiti con questo; tieni dentro le mani in modo che gli anelli non siano visibili».
«Di certo siamo al sicuro con Magno. Nessuno ci rapinerà nel suo territorio se siamo con lui, no?»
«Forse non te ne sei accorto», replicò Magno, incespicando su un ostacolo invisibile che emise un rumore molliccio e poi rilasciò il nauseante odore della decomposizione, «ma qualcuno ha appena dato alle fiamme il mio quartier generale e ha cercato di uccidermi. Direi che la mia autorità in questa zona sia alquanto in calo al momento. E poi, se una banda di ladri vede i tuoi anelli o i tuoi bei vestiti, e loro sono più di noi, non andranno mica a guardare con chi sei fino a che non saremo tutti a terra, in un lago di sangue e con le gole tagliate. A quel punto sarebbe un po’ tardi, non credi?».
Narciso si gettò addosso il mantello, col respiro affannoso per la fatica di parlare e camminare al tempo stesso.
Gaio si tirò il cappuccio sui capelli arricciati con cura. «Chi pensi sia stato, Magno?».
Magno svoltò a destra con la sicurezza di un uomo che conosceva la strada. «Se si è trattato di una delle confraternite, allora potrebbe essere una qualsiasi. Ma la mia ipotesi è che fossero i ragazzi di Sempronio del Viminale occidentale; i nostri territori confinano e ci disputiamo qualche strada. Sempronio e io non siamo mai andati d’accordo dopo una disputa per alcuni prostituti venticinque anni fa. C’è stata qualche discussione e lui porta rancore peggio di una donna».
«Vuoi che faccia qualcosa al riguardo?», chiese Vespasiano.
«Oh, non saresti mai in grado di toccarlo, neanche come console».
«Chi lo protegge?»
«La sua confraternita controlla le porte del Viminale e di conseguenza ha stretti legami con la guardia pretoriana, che usa i postriboli lungo il Vico Patrizio. Sempronio e Burro, il prefetto, hanno un’ottima intesa, se capisci cosa voglio dire».
«Allora cosa farai?»
«Io non farò niente, Tigran sì. Ho parlato con lui e gli ho detto di prendere il forziere. Adesso subentra lui. È un gioco per uomini più giovani e io non sono più adatto, soprattutto dopo aver perso l’occhio. Non farà niente fino a che non saprà per certo chi è stato e chi c’è dietro quest’attacco. Se è stata una delle confraternite, dovrà colpirle duramente e alla svelta. Occorre versare un sacco di sangue perché il Quirinale meridionale si riaffermi».
«Cosa intendi con “se”? Di sicuro è stata una confraternita rivale. L’hai appena detto tu».
«Così si direbbe, non è vero, signore? Cioè, fino a che non consideri le circostanze. Potrebbe essere solo una coincidenza, ma perché hanno scelto di attaccare proprio nel momento in cui nella taverna c’erano il console giovane e il segretario imperiale?».