CAPITOLO XV
Il soffitto dalla volta a botte che troneggiava sulla maestosa sala delle udienze nel palazzo reale era in parte velato da una sottile foschia di fumi. Malgrado i brillanti raggi di sole che si riversavano da una fila di identiche finestre ad arco, in alto sulla parete, fendendo l’aria pesante e rendendola viva di pulviscolo, nel cavernoso e lungo interno ardevano migliaia di lampade. Era una sala di luce, sia artificiale che naturale, inedita agli occhi di Vespasiano. E la luce illuminava i colori nei marmi del pavimento, nella pittura delle statue, nelle tinte degli indumenti e delle barbe dei presenti, e nelle piastrelle lucide delle pareti e del pavimento, ciascuna realizzata singolarmente per incastrarsi con l’altra e raffiguranti scene di caccia e guerra e altri eroici atti della dinastia arsacide dei re parti.
Così tanto colore e decorazioni in un’unica magnifica sala; ma non fu questo a colpire Vespasiano quando, insieme a Magno e Hormus, varcò le lucidissime e imponenti porte di cedro. Fu il potere che emanava la figura seduta su un palco in fondo alla stanza.
Lì sedeva Vologase i, Re di tutti i Re dell’impero partico, attorniato da centinaia di cortigiani, le alte sfere di tante terre, tutti alleati dichiarati dell’uomo che deteneva il potere di vita e di morte su milioni di sudditi. L’uomo che adesso doveva giudicare Vespasiano.
Contrastava con la profusione di luce e colore l’assenza di suoni e, una volta che Vespasiano e i suoi compagni furono gettati a terra, con l’ordine di restare immobili a pancia in giù, nella grande sala calò un silenzio assoluto. Nessuno si mosse né bisbigliò una parola e, nella quiete, Vespasiano percepì l’ostilità emanare dalle centinaia di paia di occhi che fissavano le tre figure prone, così piccole in una tale vastità.
Per quella che parve un’eternità, giacquero lì, oppressi dal peso di un silenzio che non era placido ma trasudava minaccia.
L’ordine urlato in greco di strisciare in avanti spezzò il silenzio, sconvolgendo Vespasiano per la sua subitaneità.
Tenendo lo sguardo rivolto a terra, strisciò verso il Grande Re, umiliato ma ancora vivo. Piede dopo piede, la rabbia per un trattamento simile riservato a un ex console di Roma crebbe e, quando gli fu ordinato di fermarsi, ribolliva di furia.
«Cosa ci fai nella mia terra, Tito Flavio Vespasiano? Rispondi solo con la verità. Mentire al Re dei Re non solo è un insulto a lui ma un affronto a Ahura Mazda».
Vespasiano si rese conto che quella era la voce di Vologase stesso che parlava nella lingua della concubina greca che lo aveva generato.
Lottando per tenere sotto controllo la rabbia, tenendo al minimo le parole, rispose con la verità, consapevole di quanto peso i parti davano all’onestà. In breve raccontò al Re dei Re tutto quello che gli era successo, a partire da quando Radamisto lo aveva dato a Babak come fideiussore per il suo falso giuramento, fino al motivo per cui stava cercando la famiglia di Atafane lì a Ctesifonte.
«Dunque le tue intenzioni non erano di assassinarmi?»
«Cosa te l’ha fatto pensare, Grande Re?».
Ci fu uno strillo dal lato opposto della sala e Vespasiano udì il suono di qualcuno che veniva trascinato verso di loro.
«Quando vi ha denunciato, questo ragazzo ha giurato di aver sentito te e i tuoi compagni pianificare il mio assassinio mentre entravo in città ieri».
Vespasiano tenne gli occhi bassi ma capì che il ragazzo trascinato era Bagoas. «Come avrebbe potuto? Non parla il greco e solo uno dei miei compagni parla l’aramaico. Posso solo immaginare che si sia inventato tale menzogna per rendersi più importante e ottenere una ricompensa più grande».
Ci fu una pausa mentre il Grande Re rifletteva sulle parole di Vespasiano.
«C’è qualcuno qui che può garantire per questo romano?». La voce di Vologase riecheggiò nella sala e si spense nel silenzio.
Quel silenzio rimase, forte e chiaro.
E poi, dal lato opposto della sala, fu infranto.
«Io posso, Luce del Sole».
Vespasiano non riconobbe la voce né poteva vedere chi aveva parlato dal momento che era ancora disteso a faccia in giù. Sentì rumore di passi percorrere la sala e si accorse del piagnucolio di Bagoas da qualche parte dietro di lui. Un brusco ceffone ridusse al silenzio il ragazzo.
I passi si fermarono accanto a lui; con la coda dell’occhio, vide un uomo vestito alla maniera partica. L’uomo cominciò a inchinarsi e poi continuò fino a calarsi in ginocchio, con la fronte che toccava il pavimento; ma non si fermò lì e, con notevole eleganza, il movimento continuò fino a che fu disteso completamente, con le labbra che baciavano il pavimento e i palmi posati a ciascun lato della faccia.
«Il tuo nome?». La voce di Vologase tradì un’ombra di sorpresa.
«Gobryas, Luce del Sole».
«Puoi metterti in ginocchio e parlare, Gobryas».
Gobryas si rialzò con grazia. «Sono onorato, Luce del Sole». Si fermò per ricomporsi, facendo un paio di respiri come per calmare un’ansia galoppante. «Poco più di quattordici anni fa, una carovana giunse da Alessandria; trasportava la normale merce che ci si aspetta dalla provincia romana dell’Egitto. Tuttavia, c’era qualcosa che era stato affidato al proprietario della carovana da suo cugino, l’alabarca degli ebrei alessandrini. Era per mio padre, del quale porto il nome. Si trattava di una cassa e dentro questa cassa c’era dell’oro, tantissimo oro. C’era anche una lettera che raccontava a mio padre la vita del suo figlio più giovane, mio fratello Atafane. Per quindici anni schiavo presso una famiglia romana e poi liberto al loro servizio per quasi la stessa somma di anni. Durante quel periodo aveva messo da parte una piccola fortuna. Quando era morto, al servizio della famiglia che lo aveva posseduto e poi affrancato, aveva chiesto ai suoi patroni di rimandare quell’oro alla sua famiglia a Ctesifonte. La famiglia romana doveva essere seguace della parresia perché, nonostante l’evidente tentazione di tenere per sé l’oro di un uomo morto, lo restituirono».
Ci furono mormorii di consenso da tutta la sala.
Vespasiano rimase disteso, osando respirare appena, mentre ascoltava la voce dello straniero che gli stava salvando la vita.
«Ieri mattina mi è giunta voce che c’erano delle persone, dei forestieri, in giro per il grande mercato alla ricerca di una famiglia di mercanti di spezie, il cui figlio più giovane, Atafane, era stato ucciso al servizio di uno dei tuoi predecessori. All’inizio ho pensato che non stessero cercando me, perché mio fratello era stato tratto in schiavitù, non ucciso. Ma poi mi sono reso conto che solo all’arrivo della lettera avevamo saputo della prigionia di Atafane e fino ad allora lo avevamo creduto morto. Una volta scoperta, non avevamo raccontato ai nostri conoscenti la vergognosa verità: chi ammetterebbe di avere uno schiavo in famiglia? Lo ammetto solo adesso per difendere un uomo nei confronti del quale sono debitore. Questi forestieri si sono comportati con grande tatto; non hanno sbandierato la parola “schiavo”, hanno compreso la nostra sensibilità. Quando ho saputo che dei forestieri erano stati catturati in un tentativo di arrecare danno alla tua persona e che uno di loro era un romano di nome Tito Flavio Vespasiano, ho capito che si trattava delle stesse persone. E così ho deciso di esercitare il mio diritto come capo della corporazione di mercanti di spezie di Ctesifonte a frequentare la tua corte e combattere la Menzogna con la Verità».
La mente di Vespasiano si riempì di preghiere di ringraziamento al suo dio protettore, Marte, e al dio principale della religione zoroastriana, Ahura Mazda, che abiura la Menzogna.
«Parli molto bene di quest’uomo, Gobryas», disse Vologase dopo qualche momento di riflessione. «Come puoi essere così sicuro dopo tutto questo tempo?»
«Perché, Luce del Sole, ho ancora la lettera giunta con l’oro di mio fratello. Ce l’ho con me ed è firmata Tito Flavio Vespasiano».
Con la coda dell’occhio, Vespasiano vide un uomo venire avanti dal palco, prendere la lettera ripiegata che Gobryas gli porgeva e, con grande ossequio, consegnarla a Vologase.
Ci fu assoluto silenzio, a parte il fruscio mentre Vologase leggeva la lettera.
«Tito Flavio Vespasiano», disse il Grande Re dopo un po’, «puoi alzarti, ma i tuoi compagni resteranno dove sono».
Adagio, Vespasiano si rialzò e sollevò lo sguardo sul Grande Re seduto sul trono elevato. Vologase era giovane, sulla trentina, con solenni occhi scuri e un sottile naso a uncino. Sul capo portava un ingioiellato diadema d’oro che teneva fermi gli stretti ricci neri, lunghi fin sulle spalle. La barba era acconciata alla stessa maniera e ciascun ricciolo era oliato e riluceva come le penne di un corvo in netto contrasto con la pelle pallida, che doveva avere pochissimo contatto con i raggi diretti del sole.
Eretto e perfettamente immobile, Vologase scrutò Vespasiano. «Sei stato davvero tu a mandare l’oro alla famiglia di Gobryas?».
Adesso che poteva stare in piedi, la collera per l’umiliazione subita sbiadì. «È così, Luce del Sole».
Un guizzo divertito passò sul volto del Grande Re nel sentire il romano usare il suo titolo. «Allora sei un seguace della Verità». Guardò oltre Vespasiano. «Portateli qui!».
Vespasiano si girò e vide che non solo Bagoas ma anche il locandiere suo cugino, gli occhi colmi di terrore, venivano portati avanti, ciascuno da due guardie. Furono gettati a terra, dove strisciarono terrorizzati.
Vologase li guardò disgustato. «Chi è stato a dire la Menzogna?».
Una delle guardie rispose alla domanda tirando su per i capelli la testa di Bagoas.
«Tagliategli lingua, naso, orecchie e un occhio. L’altro lo terrà così che possa sempre vedere la sua mutilazione».
Bagoas non aveva capito il greco e fu più per la sorpresa che per il dolore che urlò quando la guardia sguainò il coltello e gli mozzò l’orecchio sinistro. Seguì rapido l’orecchio destro, che cadde sul marmo mentre le urla di Bagoas crescevano d’intensità. La guardia accostò il coltello alla base del naso del ragazzo e, con un colpo feroce, tagliò carne e cartilagine, lasciandogli in mezzo alla faccia un orifizio che sprizzava sangue. Una seconda guardia, poi, strinse la bocca di Bagoas, costringendolo ad aprirla con una mano e, con il coltello nell’altra gli trafisse la punta della lingua, tirandola fuori; il polso del compagno guizzò verso il basso e, con un lamento gorgogliante, Bagoas guardò la propria lingua, fremente sulla punta del coltello, venirgli mozzata da una guardia dal ghigno folle. Mentre Bagoas fissava in catatonico orrore la macabra scena, metà della sua vista scomparve; ma quasi non si accorse del dolore dell’occhio sinistro che gli veniva cavato, dal momento che tanta violenza gli aveva irrigidito corpo e mente.
«Portatelo via e che si sappia che chi mente al Grande Re non godrà di alcuna misericordia». Mentre il ragazzo sanguinante, ansante e mutilato veniva trascinato via, lasciando una scia di sangue, Vologase rivolse la sua attenzione al locandiere tremante sul pavimento, con la faccia che sfregava in una pozza del suo stesso vomito. «A lui darò la morte; impalatelo».
Fremente e urlante, il locandiere fu portato via di peso e Vologase degnò Vespasiano di un impercettibile sorriso. «Perché cercavi Gobryas?»
«Speravo che, se aveva ricevuto l’oro, mi restituisse il favore aiutando me e i miei compagni a tornare in Giudea o in Siria con una delle sue carovane».
«L’avresti fatto, Gobryas?»
«Luce del Sole, sono debitore di quest’uomo, nonostante la sua famiglia abbia tenuto mio fratello minore in schiavitù per così lungo tempo, anche se non di proposito. Tutti noi abbiamo degli schiavi e tutti quegli schiavi hanno famiglia. Non è stata colpa del compratore se è venuto in possesso di Atafane; Ahura Mazda ha voluto che non fosse ucciso ma tratto invece in schiavitù. La famiglia di quest’uomo ha agito correttamente sotto tutti gli aspetti. Io lo ripagherò e, se vorrai concederlo, gli offrirò il passaggio a ovest sulla prossima carovana che parte al plenilunio».
«Lo concedo. Gobryas, puoi prenderli e offrire loro ospitalità fino alla partenza».
«Sarà come tu comandi, Luce del Sole». Gobryas si inchinò e si fece indietro.
Vologase inclinò leggermente il capo. «Prendi i tuoi compagni, Tito Flavio Vespasiano, e che la luce di Ahura Mazda splenda su di te».
«Ti ringrazio, Luce del Sole», replicò Vespasiano dal profondo del cuore. Si ritrovò a inchinarsi al Grande Re e poi indietreggiò seguendo l’esempio del suo nuovo ospite. Magno e Hormus si alzarono in piedi e anch’essi arretrarono, uscendo dalla porta, oltre il corpo fremente del locandiere che, con le mani legate, si affannava a tenersi sulle punte per fermare l’ulteriore intrusione nel retto del palo appuntito sul quale era appollaiato. Mentre le porte della sala delle udienze si chiudevano, si girarono e si scambiarono un’occhiata; poi guardarono soffrire atrocemente l’uomo che li aveva traditi.
«Per il culo, l’uccello e le palle di Giove, c’è mancato poco», mormorò Magno.
«Sì», convenne Gobryas, «non avrei mai pensato che il Grande Re fosse così misericordioso».
Il giardino di Gobryas era fresco e tranquillo, l’atmosfera resa placida dal delicato zampillare delle fontane e dai trilli degli uccelli canori. Era un giardino in fiore; alcune piante erano esotiche agli occhi di Vespasiano e altre familiari, ma tutte avevano in comune la dolcezza del profumo che gli infondeva un senso di benessere. Nei dieci giorni intercorsi dal colloquio con Vologase, Vespasiano aveva cercato rifugio in quel piccolo paradiso, guarendo le ferite dei lunghi mesi di oscurità che la breve prigionia aveva fatto riaprire.
Durante questo tempo aveva avuto numerose conversazioni con il suo ospite e gli altri due fratelli ancora in vita del suo antico liberto; la famiglia si era rivelata gentile e sorprendentemente priva di rancore e lui aveva risposto alle loro domande sulla vita di Atafane ad Acquae Cutillae, la tenuta flavia nei pressi di Reate, cinquanta miglia a nord-est di Roma sulla via Salaria. Raccontò loro della grande amicizia di Atafane con l’altro liberto, Baseos, lo scita, anch’egli provetto con l’arco; descrisse le competizioni in cui si sfidavano e la letale accuratezza con l’arma quando si trattava di difendere la tenuta dai ladri di muli e dagli schiavi in fuga. Parlò anche del disinteresse di Baseos per l’oro e di come avesse dato tutti i suoi guadagni ad Atafane. Confermò che, per quanto ne sapeva, Baseos era ancora vivo e promise che avrebbe esteso al vecchio scita l’invito di andare a far visita alla famiglia e ricevere gli onori dovuti a un così buon amico del defunto figlio minore.
Parlare di Acqua Cutillae e delle vicende dei liberti gli fece agognare il ritorno a casa, per godersi un po’ la vita rurale, una vita da allevatore di muli e produttore di vino e olio. Cominciò a bramare la pace di quella tenuta e di quella di Cosa, che gli era stata lasciata da sua nonna, Tertulla. Era certo che il suo destino non fosse ritirarsi in campagna, non ancora per lo meno, non fino a che non avesse fatto il possibile per seguire il cammino predisposto per lui. Tuttavia, era stanco e si promise da sei mesi a un anno di tranquillità una volta tornato a Roma. Sarebbe stato tempo dedicato al riposo, durante il quale osservare a distanza di sicurezza la battaglia per la successione a Claudio e vedere se il grandioso schema di Trifena per consolidare al potere entrambi i rami della sua famiglia avrebbe funzionato. E, in tal caso, come meglio sfruttare l’inevitabile caos e infelicità che l’incestuoso regno di Nerone e di sua madre Agrippina avrebbe provocato. Nel riflettere su queste possibilità, cominciò a pensare che forse sarebbe stato meglio tenersi in disparte durante quel periodo; forse avrebbe trascorso qualche anno nelle sue tenute, dopo tutto.
Fu mentre rimuginava su queste cose, all’ombra di un maturo mandorlo, l’ultimo pomeriggio prima della partenza della carovana, che un Gobryas dall’aria preoccupata gli andò incontro, accompagnato da un altro uomo, dalla barba grigia e gli occhi umidi.
«Vespasiano, questo è Phraotes», disse Gobryas, mostrando ossequiosa deferenza nei confronti dello sconosciuto.
Phraotes venne avanti e lo baciò sulle labbra come un suo pari, alla maniera dei parti. «Tito Flavio Vespasiano, la Luce del Sole, Vologase, il Re dei Re, ordina che tu ti unisca a lui per godere del divertimento offerto dalla selvaggina nel suo giardino».
Vespasiano si afferrò al lato del cocchio a due cavalli con la mano sinistra, mentre il conducente girava attorno a un maestoso cedro del Libano; con la destra sollevò una leggera lancia da caccia, calcolando la mutevole distanza tra sé e la fulva femmina di cervo persiano a cui sia lui che Vologase stavano dando la caccia. Entrambi i cocchi venivano condotti con prodigiosa abilità sui prati lisci e curati del giardino reale di caccia; la velocità a cui procedevano era inebriante e Vespasiano riuscì a dimenticare i due arcieri a cavallo che lo seguivano con gli archi pronti a ucciderlo se mai avesse minacciato il Grande Re con la sua arma. Vespasiano non aveva alcuna intenzione di attentare a Vespasiano ma comprendeva la precauzione. Vologase gli stava dimostrando, come romano, una grande fiducia consentendogli di usare un arco e una lancia in sua presenza.
La cerva deviò a sinistra e Vespasiano puntellò le ginocchia mentre il veicolo sterzava di conseguenza per tenere la preda alla sua destra. Sentì il vento tirargli la lunga barba e il brivido della caccia ad alta velocità gli strappò un sorriso involontario. Quando il cocchio si raddrizzò, lanciò un’occhiata a Vologase davanti a sé; il Grande Re si ergeva sulla piattaforma del cocchio, pronto a scagliare la lancia; il sovrano tuttavia si girò a guardare Vespasiano e, con un piccolo cenno della mano, lo invitò a lanciare per primo.
Vespasiano tirò indietro il braccio destro, gli occhi fissi sulla preda, distante appena trenta passi, e scagliò la lancia con un possente grugnito, mirando una frazione più avanti alla cerva. La lancia volò precisa e la cerva corse dritta ma, l’istante prima dell’impatto, sgroppò e l’arma si limitò a sfiorare il ventre della bestia, impigliandosi nelle sue zampe anteriori e facendola ruzzolare a terra in un turbinio di membra agitate. L’auriga di Vologase tirò le redini, rallentando così la pariglia, in modo che il Grande Re potesse balzare a terra. Vespasiano lo raggiunse e si inginocchiò accanto alla creatura stordita; la cerva, distesa su un fianco, faceva respiri veloci e regolari.
Vologase fece scorrere le mani su tutte e quattro le zampe. «Nessuna sembra rotta; dovrebbe stare bene una volta che si sarà ripresa dalla caduta. Caccerò questo grazioso esserino un altro giorno e gli darò la morte che merita. Non sarà infilzato mentre giace inerme al suolo». Vologase si alzò in piedi; superava Vespasiano in altezza di almeno una testa. «Vieni, andiamo a mangiare».
La portata principale a base di riso con uva passita, mandorle, pollo e zafferano era stata squisita e i contorni di carni arrostite e verdure speziate altrettanto gradevoli. Vespasiano sorseggiò del vino freddo e si distese sul divano, al fresco del padiglione eretto su un prato che digradava dolcemente verso un lago orlato di canne e animato da uccelli acquatici.
Vespasiano e Vologase erano gli unici a mangiare; il resto del gruppo sedeva su coperte a rispettosa distanza dal padiglione. Le ombre si allungarono man mano che il sole scompariva a ovest, le torce furono accese e Vespasiano ebbe difficoltà a realizzare che si trovavano nel cuore di una delle più grandi città d’Oriente e non in una remota tenuta di campagna.
La conversazione era stata cortese e non aveva toccato argomenti spinosi. Vespasiano, pertanto, non rimase sorpreso quando Vologase congedò i due servitori eununchi e affrontò il vero motivo dietro all’invito. «Il mio ritiro forzato dall’Armenia per via della penuria di rifornimenti dopo due inverni gelidi e poi quest’estate una ribellione a est che esige la mia attenzione hanno avuto una scontata conseguenza».
Vespasiano posò il calice. Non impiegò molto a capire di quale conseguenza si trattasse. «Immagino che Radamisto abbia invaso di nuovo».
«Certo. Ma è stata una fortuna inaspettata». Vologase inarcò le sopracciglia. «I cuccioli come lui non sanno governare: ha fatto giustiziare tutti i nobili che è riuscito a catturare, accusandoli di tradimento. Penso che converrai che la cosa sia positiva per entrambi».
Vespasiano guardò sorpreso Vologase.
Il Grande Re ridacchiò e riprese a sorseggiare il suo vino. «Pensi che non capisca che questa crisi in Armenia è stata creata ad arte? Siamo stati provocati a entrare in una guerra non necessaria. Ma perché? Se penso all’età e alla salute di Claudio e alla lotta per la successione, capisco qual è la vera ragione di questo diversivo. Non so esattamente chi c’è dietro ma penso che tu lo sappia, visto che, guarda caso, ti sei trovato al posto giusto nel momento giusto. Tu, un ex console con un mandato imperiale per fungere da ambasciatore in Armenia, arrivi dalla Cappadocia con un esercito guidato da un idiota storpio senza alcuna esperienza militare, saccheggi una città pacifica e poi non rispetti il trattato ricostruendo le mura di Tigranocerta? Solo il più ottuso dei sovrani non capirebbe che dietro c’è molto di più di quanto l’occhio non veda; soprattutto quando il re Polemone del Ponto e sua sorella, l’ex regina della Tracia, hanno entrambi mandato a Babak di Ninive messaggi per informarlo di cosa stava accadendo. Come facevano a saperlo?».
Vespasiano si rifugiò nella sicurezza del suo calice.
Vologase inclinò il capo nel riconoscere la decisione del suo ospite di restare in silenzio piuttosto che mentire. «La cosa interessante è che Babak l’ha detto al suo re ma Izate non mi ha mai fatto avere quei messaggi. È stato quasi come se Izate pensasse che la campagna di Babak in Armenia riguardasse la rimozione di Radamisto per scopi personali. Forse sentiva di poter diventare re anche di quella terra? Fortunatamente, Trifena mi ha inviato una lettera molto esaustiva riguardante il mio regno cliente e così l’esercito reale ha potuto condurre una campagna contro Radamisto a due mesi dall’arrivo di Babak; l’ex satrapo di Ninive ha trascorso le sue ultime ore con grande disagio».
Vespasiano rabbrividì, sapendo esattamente cosa significasse. «E Izate?», domandò, sperando che l’uomo che l’aveva derubato di due anni di vita fosse anch’egli finito sul lato sbagliato di un palo appuntito.
«Si è prostrato, ha strisciato e baciato la terra sotto i miei piedi ma l’ho lasciato sul suo trono. Solo non l’ho lasciato con i mezzi per vederlo. Tuttavia, ha ancora i suoi ventiquattro figli e ventiquattro figlie, perciò sono sicuro che uno di essi gli terrà la mano per guidarlo».
Vespasiano provò un’ondata di amara gioia per la giustizia della sorte di Izate. «È tutto molto piacevole».
«Immaginavo sarebbe stata questa la tua reazione». Vologase osservò Vespasiano per qualche momento. «Non ti chiederò di dirmi per chi stavi lavorando ma posso tirare a indovinare. Ciò che ti chiedo, Tito Flavio Vespasiano, è che, quando farai ritorno a Roma a informare colui per cui lavori, questa superflua guerra di reciproca convenienza venga condotta senza eccessiva violenza».
«Reciproca convenienza?»
«Proprio così. Di’ loro che le circostanze che mi hanno costretto a ritirarmi temporaneamente dall’Armenia troveranno presto una soluzione. L’anno prossimo tornerò e riprenderemo la lotta. Anch’io, come loro, ho il bisogno politico di un diversivo».
«Per evitare che le razze a te assoggettate riflettano troppo a fondo sulla propria posizione?»
«Sì, tra le altre cose. Mi fa anche apparire come il difensore dei miei popoli e mantiene allenato il mio esercito. La guerra con Roma è una necessità non un lusso».
«Sì, ho finito per vederla anch’io così, ma dal versante opposto».
«Non mi meraviglia che i poteri dietro al trono romano ti abbiano concesso solo il tempo minimo come console: l’eccessivo acume in fatto di politica imperiale è una minaccia».
Vespasiano non fece commenti; se il Grande Re della Partia era in grado di alludere al mandato bimestrale del suo incarico, allora sapeva che aveva avuto ragione a interpretarlo come un insulto.
«Perciò, amico mio», continuò Vologase, «posso chiamarti così, vero?»
«Ne sono onorato».
«Per via del comportamento di Radamisto, quando farò ritorno in Armenia il prossimo anno avrò la nobiltà dalla mia parte. Spazzerò via Radamisto e mio fratello minore, Tiridate, sarà re. Un grosso esercito impiegherà qualche stagione per rimuoverlo una volta che l’avrò messo sul trono. Fornirà un buon motivo di distrazione a Roma durante il cambio di regime e senza dubbio darà al giovane Nerone la sua prima vittoria con la porpora, consolidando così il suo potere. Da quanto mi riferiscono i miei agenti, ha il potenziale per far apparire Caligola come un uomo sano di mente e ragionevole. Un uomo che trae piacere dall’andare regolarmente a letto con la propria madre scenderà senza dubbio nell’eccesso sfrenato e nella depravazione alla ricerca di nuove emozioni».
Vespasiano annuì con un leggero sorriso. «E pensi quello che penso io?»
«Penso che sarà l’ultimo della stirpe. Ed è per questo che la Partia farà tutto quanto in suo potere per assicurarsi che erediti. Lasceremo che la guerra scoppi in Armenia, poi giungeremo a una soluzione diplomatica, dopo di che Nerone si concentrerà nel glorificare se stesso e mandare in rovina Roma. Il suo conseguente assassinio innescherà una guerra civile che impoverirà ancora di più i forzieri di Roma e chiunque ne risulti il vincitore si troverà per le mani una tale crisi economica che avrà difficoltà a occuparsi della difesa dei confini. Poi, se Ahura Mazda mi avrà risparmiato, potrò decidere come trattare il nuovo imperatore da una posizione di potere».
«Perché mi dici questo?»
«Ero solo curioso di sapere perché sostieni Nerone con le inevitabili conseguenze».
«Per sbarazzare Roma una volta per tutte della dinastia Giulio-Claudia».
Vologase si alzò in piedi. «E con chi vorresti sostituirli? Sappi, amico mio, che se fossi un mio suddito, ci sarebbero ben poche estremità ancora attaccate al tuo corpo». Rivolse a Vespasiano un sorriso amichevole mentre anche questi si alzava. «Ti auguro di fare buon viaggio domani. Ho ordinato a una truppa di arcieri reali su cammelli di accompagnare la carovana; non troppi da attirare eccessiva attenzione ma sufficienti a riportarti sano e salvo nel tuo impero. Ti auguro buona fortuna. Dubito che le nostre strade torneranno a incrociarsi».