CAPITOLO II
Il popolo di Roma schernì e bersagliò di insulti e oggetti i prigionieri che venivano condotti attraverso il Foro romano. Eppure Carataco finse di non accorgersene mentre si guardava attorno come un turista alla sua prima visita alla più grande città della terra. Tuttavia non era con espressione sottomessa che osservava la facciata ad archi del Tabularium e le maestose colonne del tempio di Giove, né la sua faccia tonda e rubizza mostrava stupore nel passare davanti ai templi di Concordia e Saturno. E fu con occhi grigi privi di ammirazione che arrivò ai gradini del Senato. I suoi magnifici baffi cascanti si incresparono nel vento mentre scrutava i volti solenni dei cinquecento eminenti cittadini di Roma avvolti nelle loro toghe bianche e bordate da una larga striscia color porpora, i piedi calzati in cuoio rosso; coloro che ne avevano il diritto, portavano corone militari o erano attorniati da littori in base al rango.
Vespasiano stava in cima ai gradini, proprio al centro della folla senatoriale, quando Carataco venne fatto fermare ai loro piedi. Alzò entrambe le mani per chiedere silenzio, che fu lento a giungere ma alla fine totale quando la gente capì che il programma della giornata non si sarebbe svolto a meno che non ci fosse stato ordine. «Carataco dei catuvellauni», declamò Vespasiano con voce alta e chiara in modo che si propagasse sul mare di volti che lo guardavano. «Sei stato sconfitto con le armi e catturato da Roma; adesso sei stato portato qui perché il Senato ti conduca dal tuo imperatore per ricevere la sentenza. Hai qualcosa da dire?».
Carataco si erse in tutta la sua altezza e guardò Vespasiano negli occhi. «Tito Flavio Vespasiano, console di Roma ed ex legato della ii Augusta, che ho avuto l’onore di affrontare in battaglia, mi rivolgo a te come un compagno d’armi e mi congratulo per l’abilità dimostrata nel salvare la vita dei tuoi uomini nella notte dell’imboscata. Console, io ti saluto».
Con grande sorpresa di Vespasiano e di tutti i presenti, il re britanno si esibì in un saluto romano, battendosi il pugno sul petto.
«Ho due cose da dirti prima di presentarmi all’imperatore. Prima di tutto, anche se mi ha sconfitto con le armi, Roma non mi ha catturato. Sono stato tradito dalla regina-strega Cartimandua e suo marito Venuzio dei Briganti, che hanno infranto le leggi dell’ospitalità in un modo disonorevole perfino per i popoli più primitivi. E, seconda cosa, Claudio non è il mio imperatore; se lo fosse, allora io non sarei qui ma in patria, dove un tempo vivevo felice. A ogni modo, avrei piacere di incontrare l’uomo che desidera possedere più di tutto questo». Fece un ampio gesto per indicare la distesa del Foro romano prima di tornare a rivolgersi a Vespasiano. «Perciò, procedi pure, console, sono curioso di conoscere il tuo imperatore».
I dodici littori di Vespasiano guidarono il corteo lungo la Via Sacra, oltre la Casa delle Vestali, la Domus Publica e tanti altri luoghi di interesse, accompagnati da nulla più che il brusio della folla. Erano cessati lo scherno e gli insulti e neanche una briciola di pane raffermo volò verso il re britanno che avanzava a grandi passi dietro Vespasiano e altri importanti magistrati, eretto e dignitoso, ben più alto di gran parte di loro e dei rispettivi littori. Le parole da lui pronunciate erano rimbalzate tra la folla e fu con rispetto che lo osservarono passare seguito dal resto del Senato, uscire dal Foro e svoltare a sinistra, su verso il Vico Patrizio, dove gli edifici diventavano meno grandiosi e i caseggiati della Suburra erano ammassati l’uno contro l’altro in reciproco sostegno, dove la prostituzione era la causa principale degli scambi monetari.
Ma fu con occhi indifferenti che Vespasiano compì il tragitto; la sua mente non era in questo mondo.
Da quando, quindicenne, aveva ascoltato per caso i genitori discutere degli auspici tratti in occasione della sua cerimonia del nome, nutriva il sospetto di essere soggetto alla volontà del suo dio protettore, Marte. Ma nessuno voleva dirgli quanto era stato predetto poiché sua madre aveva imposto a tutti i presenti il giuramento di non rivelare mai quali segni erano stati visti nei sacrifici. Erano simili a quanto aveva visto quel giorno? Una V impressa nel regno di Marte sul fegato da lui dedicato alla più grande divinità di Roma, Giove. Ma c’erano tanti pezzi di quel rompicapo e mentre tentava di metterli insieme, emerse un quadro della cui interezza aveva già colto qualche scorcio.
L’oracolo di Anfiarao che aveva una profezia secolare i cui unici destinatari erano lui e suo fratello Sabino. L’astrologo di Tiberio che rivelava al vecchio imperatore che un senatore testimone della rinascita della Fenice in Egitto, avrebbe generato la successiva generazione di imperatori: Vespasiano aveva assistito all’evento a Siwa e non aveva tratto alcuna conclusione fino a che Sabino non gli aveva detto che un tempo l’oasi faceva parte del Regno di Egitto. Poi c’era l’oracolo di Amun e il dono in punto di morte della sua protettrice, la matrona Antonia: la spada di suo padre, Marco Antonio, uno dei più grandi romani. C’era anche Myrddin, l’immortale druido della Britannia: aveva detto a Vespasiano di aver visto il destino che Marte aveva in serbo per lui. Quel destino aveva terrorizzato Myrddin perché era convinto che un giorno Vespasiano avrebbe avuto il potere, senza però riuscire a usarlo, di fermare un morbo che stava germogliando nel cuore di Roma; un morbo, secondo Myrddin, che alla fine avrebbe distrutto le vecchie e vere religioni. Due volte Myrddin aveva cercato di ucciderlo richiamando in vita le sue divinità; prova che gli dèi esistevano, prova che essi erano potenti. Il fatto che fosse sopravvissuto, Vespasiano ne era consapevole, era la dimostrazione che Marte vegliava su di lui. E poiché questo era certo, ciò che aveva visto quella mattina doveva essere preso sul serio.
Tutto questo gli riecheggiava nella mente mentre guidava il corteo verso l’erede della stirpe Giulio-Claudia: uno sciocco claudicante, bavoso e pieno di tic governato da sua moglie e dai suoi liberti. Uno storico erudito? Forse. Un pedante conoscitore della legge? Sicuramente. Ma saggio imperatore che soppesava le parole o sciocco vanesio, sprezzante delle doti altrui, rancoroso per anni di umiliazione e con l’errata convinzione di essere uno degli intelletti più acuti dell’epoca?
Salirono sul Viminale, lungo il Vico Patrizio, nel silenzio quasi assoluto, davanti ai più rispettabili postriboli di entrambi i sessi, e proseguirono verso la Porta del Viminale, oltre la quale c’era in attesa lo sciocco che sbavava.
Vespasiano relegò quei pensieri in fondo alla mente e si chiese in che modo l’imperatore avrebbe gestito un uomo di tale dignità e così meritevole di rispetto come Carataco.
Poi Vespasiano rifletté su cosa avrebbe fatto lui al posto di Claudio.
La guardia pretoriana scattò sull’attenti, scuotendo il suolo con migliaia di piedi che calavano giù in totale unisono.
Al di là dei ranghi e delle coorti irreggimentati, i corvi si levarono in un caotico frullare di ali dai tetti del castro pretorio, protestando con striduli versi l’interruzione del loro sonnecchiare mattutino. Le brusche urla di comando e la conseguente tonante reazione militare riecheggiò per qualche momento tra le mura del campo e le alte e massicce difese serviane della città prima di cessare all’improvviso e lasciare solo lo sventolio della massa di stendardi e il lieve sibilo del vento, che soffiava tra le migliaia di creste di crini di cavallo, punteggiato di tanto in tanto dal desolato verso di un uccello. Impettiti, gli uomini dell’unità scelta di Roma tenevano lo sguardo davanti a sé, senza battere ciglio, mentre il Senato sfilava attraverso la Porta del Viminale, con Vespasiano in testa, portando in dono al loro imperatore un re catturato e il suo seguito.
Claudio era seduto su uno dei due palchi a sinistra dello schieramento della guardia, con le mogli e i figli dei notabili di Roma dall’altro lato. Flavia e la loro figlia di otto anni, Domitilla, occupavano posti d’onore davanti alle donne; l’orgoglio per la posizione ricoperta dal marito era palese, seduta com’era con la schiena dritta, voltando la testa da un lato e dall’altro per accettare i complimenti reali o immaginati delle sue pari, i rancori per la nutrice momentaneamente accantonati.
I senatori procedevano senza fretta, dando a ogni pretoriano la possibilità di scorgere il re ribelle prima che andasse incontro alla sua inevitabile morte: strangolato e insozzato ai piedi dell’imperatore. Perfino da lontano il tic nervoso di Claudio era evidente; la sua testa si muoveva a scatti e gli arti sussultavano con frequenza irregolare man mano che il corteo si avvicinava a lui.
Fu con un’ondata di disgusto che Vespasiano vide chi era l’occupante del secondo palco: Agrippina. Mai una donna era stata elevata allo stesso livello del primo uomo di Roma. Neanche la moglie di Augusto, Livia, aveva preteso un tale onore e neanche Cleopatra l’aveva ottenuto quando era stata in visita al suo amante e padre di suo figlio, Gaio Giulio Cesare, a Roma quasi un secolo prima. E adesso ecco che la diretta discendente di quei due grandi uomini, ben oltre la quarantina, agiva come se fosse al loro livello mentre il marito-zio fremeva e sbavava, tamponandosi la saliva sul mento con l’orlo della toga. Fuori luogo con la corona d’alloro e la porpora.
Disposti attorno ai due palchi, c’erano gli uomini e le donne che beneficiavano dello stretto legame con la coppia imperiale o con solo uno dei due. Esattamente in mezzo c’era Pallante, barba e capelli ormai screziati di grigio, faccia e occhi come sempre neutri; una maschera che non si riusciva a decifrare, una maschera che Vespasiano aveva visto cadere una volta sola.
Tra Pallante e Agrippina c’era Nerone: quattordici anni e il volto latteo di un giovane dio, magnificamente sormontato da riccioli rigogliosi della sfumatura rosso dorata dell’alba. Stava in piedi, a tre quarti, con il piede sinistro in avanti e la toga senatoriale che il Senato gli aveva consegnato, insieme al rango di proconsole, quando aveva raggiunto l’età giusta appena quindici giorni prima. In netto contrasto, dall’altro lato di Pallante c’era Britannico, dieci anni e ancora con la toga praetexta di un bambino con la sottile fascia color porpora. Quello e i suoi sottili, flosci capelli castani, il viso allungato e gli occhi incavati, tutto ereditato da suo padre, lo mettevano fisicamente nell’ombra dell’abbagliante principe della gioventù, il nuovo titolo del suo fratellastro.
Dietro Britannico, sua sorella, Claudia Ottavia, trovava evidentemente difficile resistere al fascino del fratellastro e i suoi occhi vagavano in direzione di Nerone con una frequenza inevitabile in una fanciulla appena adolescente.
Entrambi sulla cinquantina e con la tendenza alla pinguedine, Lucio Anneo Seneca e Sosibio, rispettivamente tutori di Nerone e Britannico, incombevano sui pupilli, preoccupati che i modi dei ragazzi fossero impeccabili, per timore che ciò si riflettesse negativamente su di loro e temendo le possibili conseguenze.
All’ombra dei tutori c’erano Narciso e Callisto; il primo barbuto e ingioiellato, con la figura e il viso pieni, l’altro asciutto e calvo, si torceva le mani e faceva guizzare gli occhi da una parte all’altra come se fosse circondato da nemici. Entrambi occupavano ancora posizioni di potere ma nessuno esercitava più sull’imperatore l’influenza di un tempo. La causa era Pallante. Narciso intercettò lo sguardo di Vespasiano e gli rivolse un cenno impercettibile, sorprendendolo. Non era da Narciso essere tanto indiscreto. Distolse gli occhi, chiedendosi se non fosse un segno di disperazione da parte del liberto.
Lo sguardo di Vespasiano si accese poi su quella che ormai era la sua amante da più di venticinque anni: Cenis, più bella che mai con gli occhi color zaffiro, gli rivolse un sorriso fugace quando si fermò ad appena cinque passi dal palco. Essendo stata segretaria di Narciso fino a che Pallante non aveva preteso i suoi servigi dopo la vittoria nella lotta per diventare padrone di Roma, si teneva pronta a registrare i discorsi su tavolette di cera con uno schiavo che, inginocchiato davanti a lei, sosteneva un banchetto con le spalle. Amata da Vespasiano e tollerata da Flavia, era la donna che lui non aveva mai sposato a causa del divieto per i senatori di sposare donne liberte. Era nata schiava.
I littori di Vespasiano e quelli di tutti gli altri magistrati si spostarono sulla sinistra, lasciando una fascia di senatori attorno ai prigionieri. Ci fu una pausa mentre Claudio si sforzava di darsi un contegno e la bocca si affannava a formulare le prime parole. Con uno spruzzo di saliva, finalmente vennero. «C-c-cosa porta davanti a m-m-me il mio leale s-s-Senato?».
Vespasiano fece un paio di passi verso l’imperatore.
«Princeps e collega nel consolato, abbiamo l’onore di portare un dono di Publio Ostorio Scapula, il governatore della provincia della Britannia, da parte di tutto il Senato. Abbiamo il re ribelle, Carataco dei catuvellauni, e il suo seguito qui in catene».
Nonostante l’intero evento fosse stato coreografato per quel preciso momento, Claudio si finse sorpreso. «Carataco? Conosco il nome. Cosa vorreste che ne faccia?»
«Ti chiediamo di giudicarlo».
«Il suo c-c-crimine?».
Vespasiano si sforzò di mantenere un’espressione dignitosa mentre portava avanti la farsa con lo sciocco. «È l’uomo che si è rifiutato di piegarsi a te dopo la tua gloriosa pacificazione dell’isola». Questo, Vespasiano ne era consapevole, equivaleva a una considerevole distorsione della verità. La Britannia era ben lontana dall’essere conquistata ma ciò non poteva essere ammesso pubblicamente, dal momento che l’imperatore aveva già celebrato un trionfo per la propria vittoria e poi concesso graziosamente un’ovazione ad Aulo Plauzio in occasione del suo ritorno. Era per questo motivo che, per essere giustiziato, Carataco era stato fatto sfilare dal Foro all’esterno delle mura cittadine, invece che lungo il tragitto inverso come in un trionfo. Lasciare intendere che le operazioni militari, che coinvolgevano quattro legioni e l’equivalente in ausiliari, ancora in atto nella neonata provincia, fossero ben più che iniziative locali contro una manciata di ribelli, avrebbe inficiato la vittoria di Claudio e messo in questione il suo trionfo. Consolidare con la gloria della conquista la posizione di Claudio come imperatore era stato l’obiettivo dei suoi liberti quando avevano ordinato quell’impresa militarmente insensata.
Claudio finse di riflettere sulla questione per qualche momento, sfregandosi teatralmente il mento umido, mentre tutti i presenti facevano del loro meglio per nascondere il proprio imbarazzo. «A m-m-morte. Burro!».
Da dietro a Cenis, Sestio Afranio Burro, scelto da Agrippina come nuovo prefetto della guardia pretoriana, venne avanti e urlò ai suoi uomini: «Che la squadra di esecuzione avanzi!».
Sei uomini dotati di garrotte marciarono dai ranghi mentre un’altra dozzina raggiungeva i prigionieri e li sospingeva in avanti. Le donne e alcuni dei maschi più giovani caddero in ginocchio davanti all’incarnazione dello stato romano, che fremeva sul suo trono curule, e presero a implorare per la loro vita in un latino frammentato, strappandosi i capelli e lacerandosi le vesti mentre i boia si allineavano dietro di loro.
Vespasiano guardò Carataco, sperando che l’uomo che era stato un avversario tanto degno non si abbassasse a quel livello. Non rimase deluso. Il re britanno si ergeva eretto e fiero, disdegnando di implorare misericordia. Fissò invece l’imperatore senza traccia di incredulità per il suo indegno aspetto e, quando intercettò lo sguardo di Claudio, inclinò impercettibilmente il capo come per salutare un suo pari.
Claudio aggrottò la fronte e alzò la mano per chiedere silenzio. «P-p-prima che il rib-b-belle muoia, lasciamo che spieghi le sue azioni».
Carataco sollevò le mani in modo che tutti potessero vedere le sue catene. «Se avessi agito diversamente mentre ero in grado di competere sul piano dell’onore e della nobile nascita, sarei entrato a Roma come tuo amico e non come tuo prigioniero. Non avresti disdegnato di ricevere un re disceso da avi tanto illustri, il signore di tante nazioni, e avremmo siglato un trattato di reciproca amicizia e pace. Tuttavia, la mia umiliazione è tanto gloriosa per te quanto è degradante per me. Ma sono stato io a mettermi in queste condizioni. Avevo uomini, cavalli, armi e ricchezza. Chi può biasimarmi se me ne sono privato a malincuore? Se voi romani, nelle vostre sale di marmo, voi che avete così tanto, scegliete di diventare padroni del mondo, allora noi, nelle nostre capanne di fango, misere al vostro confronto, dovremmo accettare la schiavitù? Sono qui come tuo prigioniero perché il mio orgoglio non mi ha consentito di darti tutto ciò che avevo. Ma ti dico questo, imperatore dei romani: né la mia caduta né il tuo trionfo diverranno famosi; io sarò l’ennesimo re schiacciato sotto il vostro piede. Al mio castigo seguirà l’oblio e la tua vittoria sarà presto dimenticata. Mentre, se mi concedi di vivere, sarò l’eterno monumento della tua clemenza e porterò gloria al tuo nome».
Claudio fissò imbambolato il re britanno, muovendo la mascella come se masticasse tenace cartilagine, mentre soppesava quelle parole.
Nel frattempo, Agrippina si alzò e tese le braccia a Carataco. «La tua eloquenza mi ha commossa». Una lacrima le cadde sulla guancia a dimostrazione della genuinità di tale affermazione. Si rivolse a suo figlio. «Cosa pensa Nerone Claudio Cesare Druso Germanico, il principe della gioventù?».
Nerone aveva seguito l’esempio della madre e, con un poderoso singhiozzo di sincera emozione, aveva cominciato a piangere.
«Credo, madre carissima, che mio padre dovrebbe mostrare clemenza in quest’unico caso. Un sovrano misericordioso è un sovrano onorato e le sue lodi saranno scritte e cantate».
Guardò in direzione di Britannico mentre il suo precettore, Seneca, annuiva concorde, il ritratto dell’autocompiacimento. «Sono certo che mio fratello sarebbe d’accordo».
Britannico non incrociò lo sguardo del fratellastro. «Un sovrano che non punisce la ribellione, la incoraggerà ulteriormente». Teste annuirono concordi con tale espressione di saggezza da parte di un ragazzo tanto giovane. «Credo che Domizio si sbagli».
Attorno ai palchi calò il silenzio e tutti gli occhi si posarono sull’imperatore per vedere se avrebbe sgridato il figlio naturale per un simile affronto a quello adottivo. Sosibio impallidì visibilmente e fissò l’allievo con la bocca aperta per l’orrore. Vespasiano vide Tito, insieme agli altri giovani della casa imperiale, fare un sorriso involontario prima di assumere l’espressione scioccata dei suoi compagni.
La testa di Claudio ebbe un sussulto e l’uomo tremò quando sentì il morso dello sguardo glaciale della moglie. Nerone cadde in ginocchio in modo tanto teatrale quanto l’amante tradito di una commedia; ormai aveva il volto rigato di lacrime. Assunse la posizione di supplica con disinvolta perfezione mentre Seneca gli posava una mano comprensiva sulla spalla. «Padre, non lasciare che mio fratello mi ripudi». Nerone gettò la testa all’indietro, passandosi una mano tra i rigogliosi riccioli di fiamma e posando poi il dorso dell’altra sulla fronte prima di rivolgersi al cielo. «Come gli dèi mi sono testimoni, ho cessato di essere un membro dei Domizi quando mi hai adottato, padre».
La gola di Claudio ebbe uno spasmo mentre cercava di formulare una parola. Alla fine venne fuori come un’esplosione. «Britannico!». Riecheggiò tra le mura. «Chiedi scusa!».
Britannico non si perse d’animo. «Il legittimo erede alla porpora non chiede scusa a nessuno. Dovresti sostenere il tuo stesso sangue, il sangue puro dei Giulio-Claudi, contro quello contaminato dei Domizi. Io dico che Carataco dovrebbe morire». Guardò torvo il rivale che adesso raccoglieva le lacrime sulla punta delle dita e le mostrava alla folla.
Come se si trovasse a giudicare uno scontro tra gladiatori, Claudio stese il pugno e tenne il pollice ben aderente a esso, nell’imitazione di una spada nel suo fodero. «C-C-Carataco vivrà! Così come il suo seguito».
Burro guardò l’imperatrice, la quale fulminò con gli occhi Britannico e poi annuì con un sorriso trionfante. Il prefetto pretoriano si rivolse alle sue coorti. «Tutti acclamino la misericordia dell’imperatore!».
Il ruggito di novemila voci si levò al cielo, scacciando nuovamente i corvi in svolazzanti spirali. Gli altri prigionieri caddero in ginocchio ai piedi, del palco di Claudio e allungarono le mani per toccargli i piedi, mentre Carataco avanzava a grandi passi e si inchinava prima all’imperatore e poi all’imperatrice e a suo figlio, che, rialzatosi, si era messo una mano sul cuore e scuoteva adagio la testa fissando in lontananza, come nel tentativo di richiamare alla mente le parole con cui descrivere un tale maestoso atto di misericordia.
Carataco poi presentò le sue catene a Burro.
«Ecco un uomo molto astuto», osservò Gaio all’orecchio di Vespasiano mentre i ceppi di Carataco venivano rimossi, suscitando la rinnovata acclamazione dei pretoriani.
«Ed ecco un ragazzo molto infelice e un precettore molto spaventato», replicò Vespasiano, guardando Sosibio spingere Britannico verso Tito e il resto dei giovani. «Chissà se oserà picchiarlo un’ultima volta prima di ritrovarsi a cercare un nuovo lavoro».
Sosibio lanciò un’occhiata terrorizzata ad Agrippina e Britannico guardò dietro di sé Claudio con malcelato odio, mentre il Padre del Senato si lanciava nel primo dei tanti servili discorsi che elogiavano la misericordia di un uomo che aveva fatto giustiziare molti più senatori ed equites del suo predecessore Caligola.
Il sole era ben oltre lo zenit quando Claudio, esaurita la scorta di stuzzichini che gli veniva portata a intervalli regolari durante la lunga sequela di discorsi, si stancò di farsi lodare a stomaco vuoto e fece chiamare la sua lettiga.
Vespasiano portò a conclusione la cerimonia proponendo una discussione in Senato il giorno seguente per dedicare al suo collega una statua in bronzo di grandezza doppia rispetto al naturale nel tempio di Concordia, in omaggio alla sua magnanimità e abilità di portare armonia a tutti i popoli.
Lusingato a dovere, l’imperatore se ne andò, aiutato a salire sulla lettiga dall’ultimo acquisto della classe equestre; Carataco era adesso l’orgoglioso proprietario di una villa sull’Esquilino, appartenuta a un senatore, che aveva perduto la sua proprietà dopo la falsa accusa di tradimento a opera di Agrippina e che era stato giustiziato.
«Penso che tu ne sia venuto fuori molto bene, caro ragazzo», osservò Gaio mentre guardavano l’imperatrice rivolgere un’ultima occhiata velenosa in direzione di Britannico e poi andarsene con la testa di Nerone poggiata sul seno mentre le cortine della lettiga venivano tirate. «Il Senato voterà per la statua di Claudio e lui ti ringrazierà quando ti dimetterai tra tre giorni».
«Potrà anche ringraziarmi, ma non mi ricompenserà, zio».
«Potrebbe ricompensarti», disse una voce alle loro spalle. «Anzi, aveva intenzione di farlo». Vespasiano e Gaio sentirono entrambi una mano sulla spalla e, voltatisi, videro Pallante. Il greco inclinò il capo. «E in un modo che, forse, ti saresti aspettato».
«Mi sarei aspettato di ricevere una provincia, e non una provincia senatoriale ma una imperiale, con le legioni e la possibilità di ottenere gloria militare. Proprio come è accaduto a mio fratello».
«Questo è ciò che meriti ma purtroppo…».
«Purtroppo pare che io mi sia attirato le antipatie dell’imperatrice», lo interruppe Vespasiano, «perché mio figlio è amico del rivale di suo figlio».
«Sembra un po’ irragionevole, lo ammetto, se la metti in questi termini. Tuttavia c’è dell’altro, molto altro. Venite con me, signori». Pallante li condusse di nuovo verso le porte; i littori di Vespasiano li seguirono, non potendo precederlo poiché non sapevano dove fossero diretti. «Naturalmente stiamo parlando in confidenza solo come amici vecchi e fidati possono fare, no?».
Vespasiano diede un’occhiata allo zio, assalito da una fitta di rimorso. «Certo, Pallante».
«Allora non vorrai smentirmi quando ti dico che so che entrambi avete acconsentito a incontrare Narciso in segreto da qualche parte questa sera».
Vespasiano incrociò lo sguardo di Pallante e inclinò il capo mentre Gaio farfugliava qualcosa riguardo la costrizione. Tutt’intorno risuonavano corni, i centurioni sbraitavano e gli uomini pestavano i piedi e facevano cozzare armi all’unisono: la guardia pretoriana si accingeva a tornare, coorte dopo coorte, al proprio campo tra le chiacchiere e gli sguardi ammirati delle donne.
«Non ti biasimo per aver acconsentito a incontrarlo; il modo in cui la cosa ti è stata posta ha fatto sembrare le tue opzioni molto limitate: un leale figlio di Roma ostracizzato da una donna rancorosa; perduto e senza amici. E poi Narciso giunge in suo soccorso offrendogli un’altra possibilità di promozione. Non ho intenzione di chiederti di non andarci, anzi, tutt’altro. Voglio che tu ci vada e accetti qualsiasi cosa voglia che tu faccia per lui. Indubbiamente sta muovendosi per mettermi da parte e tornare ad essere il consigliere più influente di Claudio. Mi interesserebbe sapere come intende agire, perciò sarà un incontro affascinante».
«Come fai a esserne a conoscenza, Pallante? Ho deciso di andarci solo questa mattina».
«Allora questo dovrebbe rispondere alla tua domanda».
«Ma il messaggero di Narciso, Agarpeto, e il mio schiavo Hormus sono le uniche persone a saperlo. A parte mio zio e Magno, naturalmente».
«Ti fidi del tuo schiavo?»
«Incondizionatamente». Vespasiano fece una pausa e giunse all’ovvia conclusione. «Quindi Agarpeto deve lavorare per te, Pallante».
«A sua insaputa. Faccio seguire i suoi movimenti e quando va in un posto di mio interesse, come casa tua questa mattina per esempio, faccio indagini più accurate. Agarpeto è straordinariamente affezionato al giovane ragazzo con cui divide il letto e con cui parla parecchio. Sfortunatamente per lui, il giovane ha molto più amore per il denaro di quanto abbia rispetto per la riservatezza del suo amante. Un aureus d’oro è bastato a comprare il fatto che avresti incontrato Narciso e, quando ho notato lo sguardo che vi siete scambiati al tuo arrivo qui, ho capito che non ero stato ingannato. Riguardo a tempo e luogo, ho immaginato che non sarebbe stato a palazzo, per ovvie ragioni, e perciò Narciso avrebbe avuto l’accortezza di sfruttare i festeggiamenti in programma per questa sera per attraversare inosservato la città. Si svolgeranno comunque, nonostante l’imperatore abbia graziato Carataco. Adesso si celebrerà la misericordia di Claudio dopo la vittoria, invece che la sua abilità di sgominare tutti i nemici.
Ma dove Narciso ha intenzione di andare, mimetizzandosi nel clima di gioiosi festeggiamenti, non lo so per certo. Tuttavia, se fossi in lui, sceglierei la taverna di Magno perché la lealtà che dimostra nei tuoi confronti assicurerebbe la sua totale sicurezza».
Vespasiano non poté fare a meno di sorridere. «È chiaramente inutile cercare di tenerti segreto qualcosa. Immagino che tu sappia di cosa parleremo, anche se io non ne ho idea».
«Questo non lo so ma voglio che ne parli a Cenis dopo l’incontro. La troverai ad aspettarti. Mi informerà domattina».
«E se non lo facessi?»
«Allora Agrippina avrà campo libero e tutte le prospettive di carriera per te saranno solo un ricordo. Aiutami, spia il mio nemico e io convincerò l’imperatore e l’imperatrice che sei l’uomo perfetto per un compito delicato che potrebbe farti guadagnare grande considerazione. Credimi quando dico che è l’unica occasione che avrai di servire Roma una volta conclusosi il tuo consolato. La sfiducia di Agrippina nei tuoi confronti è tale che questa offerta è l’unica cosa che potrà accettare».
«Cosa ho fatto?»
«È ciò che non hai fatto. Non hai ucciso Messalina».
«Ma l’ha fatto Burro». Vespasiano ricordò la notte nei Giardini di Lucullo, quando aveva accompagnato l’allora tribuno Burro per giustiziare l’infedele imperatrice.
«Sì, l’ha fatto, ma solo dopo che tu le hai offerto l’onore del suicidio. Burro è un uomo molto ambizioso e se può svilire qualcuno per trarne beneficio, allora non si farà sfuggire l’opportunità. Ha approfittato molto della tua debolezza nei Giardini di Lucullo quella notte, insinuando con Agrippina che avevi mostrato tanta pietà per Messalina che forse non desideravi la sua morte. Agrippina lo considera un chiaro segnale che tu non la vuoi come imperatrice. Non perdona sentimenti del genere, anche se ho cercato di persuaderla del contrario».
Gaio era indignato. «Ma ha offerto la spada a Messalina non per pietà ma per il desiderio di vederle fare ciò a cui aveva costretto tanti altri per invidia e rancore».
«Burro non lo descrive in questi termini».
Vespasiano scosse il capo, sospirando per l’ingiustizia della situazione. «E svilendomi con l’imperatrice, Burro ha ottenuto grandi benefici».
Pallante annuì. «È diventato immediatamente il candidato ideale per il ruolo di prefetto pretoriano».
«Molto bene, Pallante. Ti farò da spia, malgrado il fatto che tu non mi abbia dato una solida garanzia di promozione ma abbia solo promesso di tentare di convincere imperatore e imperatrice ad affidarmi un compito non precisato».
«È una decisione molto saggia e non devi preoccuparti, sono sicuro che l’imperatrice acconsentirà alla mia proposta».
«Perché, Pallante? Se diffida così tanto di me, come speri di riuscire a ottenere il suo consenso?».
Pallante inarcò un sopracciglio e sfoggiò un raro mezzo sorriso. «Quando sentirà cosa propongo che tu faccia per Roma, ne sarà più che entusiasta. Approverà senz’altro perché si aspetterà che tu muoia».