CAPITOLO XIV

Il Tigri fu benigno con loro. Scorreva placido, con la superficie liscia, portandoli verso sud con la velocità di un cavallo al trotto. Vespasiano era disteso sulla prua della loro barca e guardava il cielo senza nuvole al di là della vela triangolare, chiedendosi come avesse fatto a vivere due anni senza vedere un colore così meraviglioso. L’intensità dell’azzurro gli paralizzava gli occhi e poté fare ben poco per trattenere le lacrime che sentiva gonfiarsi dentro di sé. Adesso che aveva tempo per pensare, il sollievo scorreva in tutto il suo essere; sollievo che l’oscuro supplizio fosse ormai finito; sollievo per sentire di nuovo la compagnia di un altro essere umano.

Nei due giorni da quando si erano imbattuti nella barca tirata in secca sull’argine e coperta di vegetazione, Vespasiano era rimasto disteso a prua mentre solcavano l’affluente fino alla confluenza con il Tigri. Aveva preso parte a qualche conversazione con Magno e Hormus, ma era stato uno sforzo; aveva così scoperto che preferiva lasciare i pensieri liberi di vagare e godersi l’euforia di non avere niente sulla testa che gli impedisse di vedere il cielo.

Aveva ascoltato il racconto dei compagni di come Magno, fattosi amico il carceriere, gli aveva venduto Hormus con un ragionevole sconto dopo che avevano assassinato il suo schiavo; aveva saputo del calvario sessuale che Hormus aveva subito per mano di quell’uomo nei sei giorni in cui lo aveva servito prima della fuga. La gratitudine di Vespasiano nei confronti dello schiavo per essersi sacrificato allo scopo di salvare il suo padrone era profonda; capiva che Hormus gli era del tutto devoto e lo serviva in un tale modo che gli si poteva affidare qualsiasi cosa. Hormus sedeva a poppa, tenendo il timone, mentre la corrente e la piccola vela, gonfia di vento, li spingevano alla volta di Ctesifonte; gli occhi fissi sul fiume davanti a sé e l’espressione concentrata sotto la barba che gli nascondeva il mento sfuggente. Vespasiano studiò l’uomo e si chiese cosa avesse fatto per meritare una tale lealtà incondizionata, animalesca. Si ripromise che avrebbe ripagato quella lealtà affrancando Hormus allo scoccare del tempo consentito dalla legge: quando, di lì a pochi anni, avrebbe raggiunto l’età di trenta.

Magno sedeva sotto l’albero, la testa sul petto, e russava; il braccio steccato era riverso sul grembo. Quella vista fece sorridere Vespasiano. In tutti quei giorni bui, non aveva mai osato cedere alla speranza che l’amico lo trovasse e venisse a salvarlo; ma c’era sempre stata una fiammella nei più profondi recessi della sua mente che quella fosse una possibilità. Adesso che era libero, poteva permettersi di confessare a se stesso che la ragione per cui era sopravvissuto relativamente illeso era perché si era aggrappato a quel minuscolo barlume di speranza, alimentandolo ma non facendovi affidamento. Sapeva di essere estremamente fortunato con i suoi compagni e, mentre procedevano verso sud, rivolse una preghiera di ringraziamento a Marte per aver vegliato su di lui e gli promise il toro più bello al suo ritorno nell’impero.

Si tenevano al centro del fiume, centocinquanta passi da ciascuna sponda, entrambe punteggiate di fattorie, piccoli insediamenti e cittadine più grandi. La terra era ricca, in gran parte coltivata e le comunità che incontravano sembravano floride. Di tanto in tanto approdavano a valle di uno di essi e Hormus scendeva a terra per comprare cibo; non destavano sospetti e le altre imbarcazioni che incrociavano li salutavano allegramente e continuavano a navigare senza problemi.

Non c’era più distinzione dei giorni, il fiume si fece più ampio e la temperatura più calda. Poco per volta, Vespasiano sentì che il peso della prigionia lo abbandonava; riusciva a dormire senza la paura di ritrovarsi al risveglio nella sua cella e così per la prima volta in due anni cominciò a sentirsi riposato, forte e in grado di affrontare un arduo viaggio in carovana nel deserto, per raggiungere la Giudea o la Siria. Con le forze tornarono anche le sue ambizioni: in qualche modo era sopravvissuto a un’esperienza che avrebbe ridotto a ruderi farneticanti la maggior parte delle persone; c’era riuscito con la forza di volontà e, ne era ben consapevole, con l’aiuto degli dèi. Adesso era sicuro che ci fosse sostanza dietro tutti gli auspici della sua nascita e i successivi segni e profezie. Marte lo stava proteggendo: in quale altro modo alla sua mente era stato impedito di spezzarsi?

«Non dovrebbe mancare molto», osservò Magno, schermandosi gli occhi e scrutando davanti a sé. «Guardando una mappa in Siria, da quello che sono riuscito a capire, sembravano due o trecento miglia da Arbela a Ctesifonte. Questo è il nostro quinto giorno sul fiume».

«Come sapremo che siamo a Ctesifonte?», domandò Hormus.

Vespasiano si tirò su a sedere e guardò a sud. «Perché sarà la città più grande che tu abbia mai visto, a parte Roma e Alessandria. È ancora più grande se consideri la città greca di Seleucia sulla sponda occidentale del Tigri».

Magno era sorpreso. «Vuoi dire che c’è un’intera città piena di greci nel bel mezzo dell’impero partico?»

«Sì, e gran parte delle città hanno una discreta minoranza greca o macedone. Migliaia di coloni vennero qui seguendo Alessandro e la maggior parte di loro rimase. C’è gente che parla greco fino in India. La Partia non è un impero che comprende solo persiani, medi e assiri; ci sono tanti popoli diversi e tutti alleati del Re dei Re che, si dà il caso, è il figlio del precedente in carica, Vonone, e di una concubina greca».

«Arrivano ovunque, i greci», disse Magno, scuotendo la testa con aria critica.

«Cos’hai contro i greci?»

«A parte il fatto che sono bugiardi e infidi con un desiderio fuori dal comune di farsi fottere e un debole per andare a letto con i parenti stretti?»

«Sì, a parte tutto questo».

«Be’, niente, immagino, a parte il fatto che sia Pallante che Narciso sono greci e guarda quanti guai continuano a scaricarci addosso. Guarda caso, Trifena è greca e a quanto pare è colpa sua se ci troviamo, senza apparenti alleati, nel bel mezzo dell’impero partico, che è governato da un bastardo che, guarda un po’, è mezzo greco. Vuoi che vada avanti?»

«No, no, va bene così. Fottuti greci, eh? A ogni modo, quello che dobbiamo tenere a mente è che la maggior parte dei greci sono assolutamente fedeli al regime…».

«Fedeli quanto può esserlo un greco, intendi?»

«Sì e pertanto sarebbe meglio non farci sfuggire che siamo romani neanche con un greco».

«Specialmente con un greco. Andrebbe a vendersi l’informazione più in fretta di quanto si venderebbe sua sorella dopo averle tolto la verginità. Sai di quel greco che ha riportato indietro la moglie alla famiglia dopo aver scoperto la prima notte di nozze che era vergine?».

Vespasiano aggrottò la fronte. «No».

«Be’, l’ha fatto e ha detto loro che se non andava bene per i suoi fratelli allora non andava bene neanche per lui».

Vespasiano rise, una risata lunga e sonora; all’inizio era per via della battuta ma poi fu sempre più per la gioia della libertà.

Era davvero magnifica. Mura di pietra, dipinte di azzurro e giallo, decorate con motivi di animali e costellate di torri svettanti, racchiudevano una città grande quasi quanto Roma. E quello era solo sulla sponda orientale del Tigri. Su quella occidentale, poco prima che il fiume si dividesse in due per aggirare un’isola fortificata, c’era un’altra città, meno antica, che seguiva uno schema a griglia: Seleucia, l’ex capitale del regno seleucide di Macedonia, costruita appena tre secoli prima. Altrettanto impressionante nelle dimensioni ma senza le mura dipinte, le strade ordinate di Seleucia davano la sensazione che fosse stata costruita con metodo; invece il caotico dedalo della pianta di Ctesifonte mostrava una città cresciuta lentamente dal nulla nel corso dei secoli. Questi due monumenti all’ingegno umano erano separati da mezzo miglio, a ciascun lato del Tigri, e pullulavano di vita, traendo nutrimento dal grande fiume che al tempo stesso le univa e le separava. Imbarcazioni di tutte le dimensioni solcavano le acque placide, scurite dai canali di scolo, facendo la spola tra le due città, che si sostenevano a vicenda in un simbiotico rapporto commerciale.

Ed era per via degli scambi commerciali che Vespasiano, Magno e Hormus erano venuti o, per lo meno, per seguire una pista basata sul commercio. Mentre entravano nel porto appena a sud delle mura di Ctesifonte, Vespasiano si rese conto che cercare la famiglia di Atafane sarebbe stata un’impresa scoraggiante; neanche a Ostia aveva visto così tante navi mercantili. Il molo era una massa di mercanti e schiavi; i primi contrattavano e tiravano sul prezzo, gli altri sgobbavano. Sacchi, borse, casse, ceste, anfore e balle, tutti contenenti i prodotti di decine di paesi esotici, venivano caricati e scaricati in un infinito ciclo di commercio alimentato dall’avidità e dal denaro.

«Da dove cominciamo a cercare?», disse Vespasiano quando Hormus ormeggiò la barca a un attracco libero.

«I mercanti di spezie devono riunirsi da qualche parte», osservò Magno, lanciando una cima a un ragazzo di tredici anni o quattordici anni che sembrava essersi assunto il compito di aiutarli nell’ormeggio.

«Annusa l’aria, è satura di spezie. Ci saranno migliaia di mercanti di spezie qui».

«Ah, ma quanti di loro fanno affari con gli ebrei di Alessandria?». Magno studiò l’attività per qualche momento, osservando una fila di schiavi trasportare ceste di vimini da una nave a uno delle decine di magazzini allineati lungo il porto. «Immagino che tutto questo provenga dall’Oriente perché, in base a quella mappa, so che il Tigri sfocia nel mare e quel mare arriva fino in India. Quello che dobbiamo fare è trovare i mercanti che commerciano nell’altra direzione; i mercanti che portano le merci fuori dai magazzini e le spediscono a ovest con le carovane».

A Vespasiano, che scendeva dalla barca, parve un ragionamento sensato nonché un punto d’inizio buono quanto un altro. Hormus lo seguì a terra, ansioso di accettare l’aiuto del ragazzo, che sembrava non badare al fatto che le mani dello schiavo si posassero su parti del suo corpo non di grande utilità per aiutare la gente a scendere dalle barche.

«Parla aramaico?», si informò Vespasiano quando il ragazzo guardò con gli occhi sgranati la moneta d’argento che Hormus aveva tirato fuori dalla borsa alla cintura.

Dopo una breve e incomprensibile conversazione, Hormus confermò che il suo nuovo amico parlava l’aramaico, cosa che, a giudicare dalla sua espressione, faceva immenso piacere allo schiavo.

«Chiedigli se i mercanti di spezie che esportano merci in Occidente hanno una corporazione o un posto in cui si incontrano regolarmente».

Seguì un’altra breve conversazione, durante la quale Hormus parve ritenere necessario sottolineare un punto accarezzando delicatamente il braccio del ragazzo. Lo schiavo si girò a guardare il suo padrone. «Bagoas dice che ci sono molte associazioni di mercanti in tutta la città e anche a Seleucia».

Vespasiano rifletté per qualche momento. «Atafane era persiano, credo, non medio, babilonese o assiro. Chiedigli dove dovrei cominciare a cercare un mercante di spezie persiano».

Seguì un’altra conversazione piena di contatti visivi, alcuni sorrisi timidi e, a parere di Vespasiano e Magno, una superflua quantità di carezze.

«Dobbiamo andare all’agora nei pressi del palazzo reale», tradusse Hormus, staccando per un momento gli occhi dal suo informatore.

«Bene, digli che gli spetta una dracma se ci mostra la strada e poi ci fa da guida per il resto della giornata». Vespasiano fece una pausa prima di aggiungere con un sorriso: «E della notte».

«Non dovresti incoraggiarlo», brontolò Magno mentre Hormus traduceva le richieste di Vespasiano. «Ecco cosa intendevo: non riesce a trattenersi. Ovunque siamo andati, è stato così; non ci avrei badato troppo se tutti i grugniti e i gemiti non mi avessero tenuto sveglio parecchie notti».

Bagoas fischiò e un altro paio di ragazzi emerse dalla folla sul molo; entrambi erano uno o due anni più giovani di lui e, a giudicare dal loro aspetto, erano suoi fratelli o cugini.

Hormus adocchiò i ragazzi con interesse quando Bagoas li indicò e ne spiegò la presenza. «Dice che baderanno alla barca per una dracma ciascuno adesso e un’altra al nostro ritorno domattina».

Vespasiano scosse il capo. «Di’ a Bagoas che se ci aiuta a trovare le persone che cerchiamo, non avremo bisogno della barca e lui e i ragazzi potranno tenerla».

Dopo aver regolato i conti con l’inevitabile funzionario del porto che esigeva una tariffa per l’ormeggio più una piccola donazione a favore della sua borsa in base al numero di persone arrivate con la barca, che sembrava una specie di pegno per quegli effetti personali che valesse la pena rubare, Bagoas li condusse verso la città.

Uno sguardo agli edifici lungo l’ampia strada carrabile che andava, dritta come una freccia, dall’ingresso del porto, dividendo in due il dedalo di strade, al centro della città, bastava a rendersi conto che Ctesifonte era il cuore del potere. Solo le dimore dei nobili o degli immortali potevano occupare una posizione del genere; di conseguenza era una serie di palazzi e templi dipinti in colori vivaci intervallata da paradisi, curate aree verdi la cui bellezza superava i Giardini di Lucullo. Ampia, splendida, ricca e bordata da così tante varietà di alberi e cespugli fioriti, la strada era stata progettata per camuffare il caotico sviluppo urbano e l’inesistente impianto fognario del resto dell’antica città, in modo che il Grande Re vedesse solo bellezza e magnificenza e respirasse solo aria fresca quando si recava al suo palazzo principale, al centro di Ctestifonte. Ma quell’oggi il Grande Re non stava usando la sua via d’accesso e uscita dalla città, perciò alla popolazione era graziosamente consentito passeggiare su e giù e di ammirarne le meraviglie.

Assuefatti com’erano alle glorie delle grandi civiltà, provenendo da Roma e avendo visitato Alessandria, Vespasiano e Magno si ritrovarono comunque a osservare ammirati l’architettura, la portata e la fatica umana che ci era voluta per creare quel viale.

«Quella è una stalla!», esclamò Magno, guardando un edificio di tre piani costruito attorno a tre lati di un cortile nel quale venivano addestrati i cavalli. Una rampa conduceva a un’ampia balconata che girava attorno al primo piano, dando accesso alle decine e decine di stalle individuali; un’ulteriore rampa saliva al secondo piano, uguale al primo. Le stalle al pianterreno, tuttavia, erano grandi il doppio rispetto a quelle superiori. «Quei cavalli hanno più spazio di moltissime famiglie a Roma, o altrove, se per questo».

«Gli orientali hanno sempre amato i cavalli», osservò Vespasiano, «e dopo aver visto il modo in cui frustano i coscritti della fanteria per mandarli a morte quasi certa, ti sorprende davvero che i cavalli del Grande Re abbiano per lui più valore del suo popolo?»

«Immagino di no. A quanto pare ne ha in abbondanza per rimpiazzare quelli che perde e di tanti tipi diversi».

«Questo è un eufemismo», disse Vespasiano mentre Bagoas li guidava tra la folla. La gente era per lo più abbigliata alla maniera persiana e media ma erano presenti molti altri stili che riflettevano la diversità dell’immenso impero di cui quello era lo snodo: le tuniche fluenti e i copricapi degli abitanti del deserto a sud, il cuoio dei cavalieri dei settentrionali mari d’erba, indiani dalla pelle scura provenienti dall’est con le tuniche a maniche lunghe e i calzoni larghi, bactriani e sogdiani in zuccotti di pelle, giacche di pelle di pecora e calzoni ricamati, greci, ebrei, sciti, albanesi, tutto ciò che si poteva immaginare. Ma in mezzo a loro non c’era una sola toga. Pur sapendo che con i loro indumenti orientali non davano nell’occhio, Vespasiano si sentiva appariscente, forestiero, e si chiese cosa aveva pensato il capotribù britanno, Carataco, quando era stato portato in catene a Roma, nel vedere un luogo e gente così diversi per la prima volta. Si rese conto che quella che vedeva era la Roma d’Oriente: l’impero che aveva assoggettato altrettante razze, se non di più. Ricordò le parole di Carataco a Claudio: Se voi romani, nelle vostre sale di marmo, voi che avete così tanto, scegliete di diventare padroni del mondo, allora noi, nelle nostre capanne di fango, misere al vostro confronto, dovremmo accettare la schiavitù?

Era un ragionamento che valeva per i popoli d’Oriente tanto quanto per quelli d’Occidente. Questo, perciò, era l’antagonista di Roma; questo era l’impero che l’avrebbe sempre contrastata, l’avrebbe combattuta senza mai dominarla perché nessun impero poteva mai racchiudere sia l’oriente che l’occidente. Entrambi sarebbero rimasti forti per paura uno dell’altro; entrambi avevano bisogno della guerra per distogliere la mente dei popoli dal loro asservimento; entrambi sapevano che distruggere l’altro significava la morte perché un super impero senza niente da temere sarebbe crollato sotto il proprio peso.

E l’Armenia era il naturale campo di battaglia sul quale Roma e la Partia potevano cimentarsi circa ogni generazione, certe che non si sarebbe rivelato fatale per nessuna delle due. Trifena aveva scelto bene la sua guerra. Vespasiano sorrise tra sé; la Partia non era una minaccia, anzi, una causa da sposare. Il conflitto con questo impero era il naturale stato delle cose; l’abilità era sapere come trarne vantaggio.

Cominciò a rilassarsi e a sentirsi meno straniero adesso che aveva capito che questo impero era una parte necessaria all’esistenza di Roma; intrecciati in una simbiotica danza di guerra, al pari di Ctesifonte e Seleucia con i loro scambi commerciali, i due imperi si rafforzavano a vicenda.

Con la mente che vagava, notò appena il palazzo reale, immerso in un paradiso circondato da alte mura, quando svoltando a destra dalla strada principale, presero a percorrere alcune strade più strette e fetide di fogna, una delle quali si apriva in un’agora, al cui confronto il Foro romano sembrava un mercato provinciale di qualche luogo remoto dell’impero. Almeno il doppio della sua controparte romana, era altrettanto affollato; migliaia di mercanti che si arricchivano con il commercio compravano, vendevano e contrattavano in una lotta agguerrita per ricavare il massimo profitto perfino dal più piccolo articolo.

Vespasiano diede un’occhiata e ogni speranza di successo avvizzì. «Come faremo a trovare qualcuno in mezzo a quella folla?».

Magno sembrava altrettanto sconfortato. «Ho la sensazione che un’offerta a Fortuna sarebbe appropriata».

Hormus posò il sacco, rise e poi disse qualcosa a Bagoas, che parve non condividere la sua ilarità ma sembrava confuso.

«Ebbene?», domandò Vespasiano. «Sa da dove cominciare a cercare, Hormus?».

Un’altra conversazione in aramaico si concluse con lo schiavo che scuoteva il capo. «Dice che l’unico modo per cercare queste persone è fare il giro dell’agorà e chiedere alla gente; ma se le persone che stiamo cercando mandano carovane a ovest, questo è il posto in cui conducono i loro traffici».

Vespasiano fiutò l’aria. «Be’, per lo meno l’odore delle spezie tiene lontano la puzza di fogna».

Ma era un’impresa disperata.

Sudavano e imprecavano mentre si facevano largo nella turbinante massa mercantile con Hormus che faceva la stessa domanda riguardante una famiglia con un figlio minore di nome Atafane ogni pochi passi. E tutte le volte, quando l’interpellato capiva che Hormus non aveva intenzione di vendere né di comprare, lo schiavo riceveva sguardi annoiati e parole e gesti sdegnosi.

Il sole tramontò, gli scambi diminuirono e la folla si diradò; ma anche in tal caso alla gente non interessava aiutare tre forestieri e un ragazzo a trovare una famiglia con solo il nome di un figlio morto da tempo come indizio, e quando la luce cominciò a calare, restare nell’agora fu inutile.

«Chiedi a Bagoas se sa di qualche locanda pulita nei paraggi», ordinò Vespasiano a Hormus.

Gli occhi dello schiavo si illuminarono alla prospettiva di un letto e, obbediente, si rivolse al ragazzo. «Dice che un suo cugino ha un posto a qualche strada da qui. Possiamo trovare stanze e cibo. Dice che ci farà un prezzo particolare».

«Ne sono certo», borbottò Magno, «particolarmente alto».

«Non possiamo farne a meno», replicò Vespasiano, indicando al ragazzo persiano di fare strada. «Meglio che andarcene in giro senza sapere dove cercare. Almeno se è un membro della famiglia di Bagoas potrebbe rivelarsi più affidabile di un completo sconosciuto».

«Eh? Nel senso che ci farà pagare solo il doppio e ci darà le stanze più piccole e la cartilagine più dura nella più trasparente delle zuppe?».

Vespasiano aveva il brutto presentimento che l’amico non fosse lontano dalla verità.

Lo scalpiccio di stivali su per le scale e il legno che si spezzava svegliarono Vespasiano da un sonno agitato. Si tirò su a sedere, guardandosi intorno nel buio e chiedendosi per un momento dove fosse. Le urla di Hormus dalla stanza accanto gli ricordarono all’istante che si trovavano nella locanda del cugino di Bagoas, dove l’accoglienza era stata falsamente amichevole e tutte le previsioni di Magno si erano avverate. Fece per prendere la spada e poi si ricordò che era rimasta nascosta nel sacco di Hormus; imprecando, balzò fuori dal letto nel momento in cui la porta della sua stanza si spalancava di schianto e tre figure in controluce facevano irruzione.

Senza un posto in cui rifugiarsi, Vespasiano si fiondò con una spallata contro il primo uomo, atterrandolo e lasciandolo senza fiato, mentre spingeva il pugno nell’inguine dell’aggressore sulla sinistra, il quale si piegò in due con un grugnito strozzato. La sorpresa per la ferocia del contrattacco della loro preda, che avrebbe dovuto essere, se non addormentata, almeno colta alla sprovvista, spinse il terzo assalitore a indietreggiare e lanciare un grido di aiuto. Fu il momento di indecisione che serviva a Vespasiano. Con il piatto della mano, colpì il mento dell’uomo, chiudendogli con violenza la mascella e facendogli scattare la testa all’indietro con un fiotto di sangue: i denti avevano mozzato la lingua nel bel mezzo dell’urlo. L’uomo cadde a terra, gorgogliando agonizzante, serrandosi la bocca ferita mentre Vespasiano lo superava e usciva sul pianerottolo in penombra.

Vide di sfuggita Hormus che veniva trascinato giù per le scale a sinistra mentre, alla sua destra, Magno veniva tirato fuori dalla sua stanza, impossibilitato a difendersi a causa del braccio steccato. Senza fermarsi, Vespasiano sferrò una ginocchiata nella coscia del più vicino degli assalitori di Magno, addormentandogli il muscolo così che l’uomo incespicò allentando la presa. Magno usò la mano libera per afferrare alla gola l’altro aggressore mentre Vespasiano prendeva a pugni l’uomo zoppicante con una rabbia che si manifestò in un gutturale ruggito animalesco. Con le membra che si muovevano veloci quanto quelle di un atleta durante una gara podistica, ridusse la vittima a un’urlante sottomissione mentre Magno sottraeva aria ai polmoni del suo aggressore tenendogli il collo in una spietata stretta. Con le dita simili a una morsa che continuava a stringersi, imprecava e sputava sul volto paonazzo dell’uomo in fin di vita, che ormai aveva le gambe zuppe di urina e le cui viscere svuotate avevano appestato l’aria.

«Basta!», urlò Vespasiano, balzando verso le scale.

Magno udì l’urgenza nella voce dell’amico e si lanciò dietro di lui, lasciando la vittima ansimante e insozzata.

Facendo i gradini tre alla volta, scesero rumorosamente nella sala comune al pianterreno. Il locandiere si nascose dietro al bancone ma non c’era traccia di Hormus o Bagoas. Senza curarsi se l’uomo c’entrasse o meno con l’attacco a sorpresa, Vespasiano corse dritto alla porta, spingendo via tavoli e sedie. Con l’unico obiettivo di liberare il suo schiavo prima che scomparisse in una città in grado di inghiottire una legione intera, spalancò la porta e finì in un semicerchio di uomini armati di randello.

Quasi non si accorse di Magno che urlava quando una sagoma scura si lanciò verso la sua testa, precedendo un dolore lacerante e un lampo di luce, seguiti a ruota dall’oblio.

La testa gli pulsava a ogni rimbombante battito del cuore quando Vespasiano riprese i sensi.

Si accorse di essere disteso sulla fredda pietra.

Aprì gli occhi e all’inizio non vide nulla; la stanza era buia. Poi, abituandosi all’oscurità, riuscì a distinguere una luce fioca a non più di due passi di distanza. Filtrava da una finestrella quadrata.

Si sforzò di guardare meglio e vide che la finestra era in realtà lo spioncino di una porta. Uno spioncino con sopra delle sbarre.

Era in una cella.

Era di nuovo in una cella.

Vespasiano tirò le ginocchia contro il petto e le strinse a sé. Forte.

Il lamento cominciò dalla bocca dello stomaco e crebbe fino a che parve scuotere il suo intero essere; fu lungo, pieno di vuoto e disperazione.

Da quanto tempo giaceva lì, Vespasiano non lo sapeva, ma alla fine la porta si aprì e qualcuno lo tirò su di peso. Gemette, poco più di un mugolio. Senza opporre resistenza, fu trascinato lungo una serie di corridoi in penombra, passando davanti all’occasionale torcia, e poi su per dei gradini. Infine, si aprì una robusta porta e fu gettato dall’altro lato, atterrando su un mucchio di paglia puzzolente.

«Sei gentile a unirti a noi, signore, anche se sono convinto preferiremmo circostanze più piacevoli, se capisci cosa voglio dire».

Vespasiano alzò lo sguardo e vide Magno e Hormus, seduti con la schiena contro la parete; sopra di loro la luce del giorno si riversava da una finestra con le sbarre. «Da quanto tempo siamo qui?»

«Due giorni», rispose Magno.

«Cosa è successo?».

All’improvviso, il corpo di Hormus fu scosso dai singhiozzi.

Magno lanciò un’occhiata accusatrice allo schiavo e poi si rivolse a Vespasiano. «Ho intenzione di concedermi un “te l’avevo detto”».

Vespasiano capì. «Bagoas?»

«Così pare. L’avevo detto che la sua passione per i ragazzi l’avrebbe cacciato nei guai un giorno. Non pensavo che ci avrebbe fatto finire tutti nella fottuta merda».

«Mi dispiace tanto, padrone», pianse Hormus, gettandosi in ginocchio e stendendo le braccia, implorante. «Ti supplico, perdonami».

«Cosa hai fatto?».

Hormus singhiozzò un paio di volte prima di riuscire a riprendere il controllo di se stesso. «Dopo che abbiamo… be’, io mi sono addormentato. Poi, tutt’a un tratto stavano facendo irruzione nella mia stanza e Bagoas non c’era. Come non c’era il nostro sacco».

Magno scosse la testa. «Immagino che abbia rubato il sacco e poi, trovando le spade e altra roba chiaramente romana, abbia tratto la giusta conclusione. Così lui e i suoi cugini devono aver deciso di guadagnare un piccolo extra oltre alla barca e al nostro denaro e ci hanno denunciati alle autorità della città».

Hormus si torse le mani. «È tutta colpa mia, padrone. Ho tradotto a Bagoas il commento di Magno sull’offerta a Fortuna».

Vespasiano capì tutto. «E lui deve essersi insospettito non appena ha saputo che veneriamo una dea romana; soprattutto perché solo tu parlavi aramaico. È stato un errore da sciocchi, Hormus».

Lo schiavo annuì afflitto, senza mai staccare gli occhi dal pavimento.

«Quel che è fatto è fatto». Vespasiano diede un buffetto sul braccio dello schiavo per confortarlo e guardò Magno. «Allora, cos’hanno in mente per noi?»

«Speravo che potessi dircelo tu, signore».

«Temo di no». Si alzò in piedi e andò alla porta. «A ogni modo, poiché sanno che siamo romani, tanto vale che dica loro che hanno in custodia un uomo di rango consolare. Speriamo che questo renda le nostre vite un po’ più preziose».

«Potrebbe anche renderci più scomodi e far propendere i nostri ospiti per una rapida eliminazione, se capisci cosa voglio dire».

«Capisco, ma hai una proposta migliore?».

Magno fece di no con la testa. «Credo che qui vada per la maggiore impalare la gente».

Vespasiano cominciò a tempestare di pugni la porta e a chiamare a gran voce i carcerieri.

Alla fine, lo spioncino si aprì e una faccia barbuta sorprendentemente elegante sbirciò con aria interrogativa, per poi stupire Vespasiano con il suo fluente latino. «Ci sono problemi?»

«Sì, sono un uomo di rango proconsolare e causerete un incidente diplomatico trattenendomi qui».

«Sappiamo esattamente chi sei, Tito Flavio Vespasiano. Abbiamo trovato il mandato imperiale tra i tuoi effetti personali nella sacca, insieme alle spade con cui avevate intenzione di assassinare il nostro Grande Re».

Vespasiano guardò sbigottito l’uomo. «Assassinare il Grande Re?»

«Certo. Per quale altra ragione arrivare in incognito a Ctesifonte il giorno prima del ritorno di Vologase?»

«Avevamo faccende personali da sbrigare».

«Lo vedremo. La decisione spetta al Grande Re in persona».

«Cosa vuoi dire?»

«Voglio dire che sarà lui a decidere per quale motivo eravate qui e sarà sempre lui a decidere la vostra sorte quando domani vi presenterete al suo cospetto per essere giudicati».