CAPITOLO XVIII

Il popolo di Roma interruppe le sue attività e acclamò l’imperatore che passava, a bordo di una lettiga preceduta da dodici littori, lungo la Via Sacra dal Palatino al Foro romano. Esultarono e applaudirono e poi, non appena fu passato l’ultimo lettighiere, tornarono immediatamente ai loro più urgenti affari, lasciando le acclamazioni a quelli più avanti lungo il tragitto, così che le lodi rimbalzarono per la strada frammentarie e palesemente carenti dell’entusiasmo con cui avevano salutato Claudio all’inizio del suo regno.

Claudio, da parte sua, non notò, o finse di non farlo, la mancanza di fervore con cui era accolto dal popolo; rimase disteso sulla lettiga, salutando la folla con un braccio tremante, dovuto sia dell’eccessivo bere che alla sua malattia, mentre la testa si muoveva a scatti e dalla bocca semiaperta colava saliva che si asciugava di tanto in tanto con un fazzoletto.

Due centurie di guardie imperiali germaniche circondavano l’imperatore, alte e muscolose, barbe e capelli lunghi ma ben curati; la mano destra stringeva l’elsa della spada, pronta a un’azione immediata. Avanzavano a grandi falcate e i calzoni barbari e gli strani tatuaggi ricordavano al popolo di Roma quanto l’imperatore fosse lontano da loro. Ma continuavano a esultare, anche se il minimo indispensabile perché Claudio non si offendesse e decidesse di spendere meno denaro nei Ludi Augustales, i dieci giorni di giochi che culminavano negli Augustalia, la celebrazione delle conquiste del primo imperatore, previsti il giorno seguente, tre giorni prima delle idi di ottobre.

Vespasiano stava accanto a Gaio in mezzo agli altri circa cinquecento senatori al momento presenti in città sui gradini della Curia, pronto ad accogliere l’imperatore. Il cielo si era rannuvolato e adesso cadeva una leggera pioggia, inumidendo la lana delle toghe da cui si levava l’odore dell’urina con cui erano state trattate.

Il corteo entrò nel Foro e le transazioni lungo le arcate e l’umido processo all’aria aperta si interruppero educatamente, per continuare una volta passato l’imperatore.

«Dimostra la sua età», osservò Vespasiano con l’angolo della bocca quando la lettiga di Claudio venne posata ai piedi della gradinata. La accompagnavano sia Pallante che Narciso, quest’ultimo aiutandosi con un bastone da passeggio per via delle caviglie gonfie.

«Sembra che abbia ottantaquattro anni, non sessantaquattro», mormorò Gaio. «Ha la stessa età mia e di Magno, eppure sembra nostro padre; il suo problema è che non fa abbastanza astinenza».

Vespasiano guardò in modo eloquente la corpulenza dello zio. «Perché, tu la fai, zio?».

Gaio si sfregò affettuosamente l’ampio ventre, affatto nascosto dalle generose pieghe della toga. «Un fisico arrotondato non necessariamente è segno di smodatezza; mentre invece occhi gonfi e iniettati di sangue che mancano di concentrazione e una carnagione florida, per usare un eufemismo, indica un eccessivo consumo del frutto di Bacco. Quello, insieme alla quasi totale calvizie, natiche e mammelle cascanti, lo fanno sembrare vent’anni più vecchio di me e mi aiutano a farmi sentire molto meglio con me stesso».

Vespasiano non poté ribattere poiché la descrizione dell’anziano imperatore fatta dallo zio era molto accurata; sembrava ancora più devastato di Tiberio all’età di settantatre anni, quando Vespasiano era stato portato al suo cospetto sull’isola di Capri, ventiquattro anni prima.

«Inoltre», continuò Gaio in un sussurro, «gli ha colpito la mente; la sua comprensione dei dettagli si è affievolita e adesso le sue fatiche letterarie sono così farneticanti da essere quasi incomprensibili».

Pallante aiutò Claudio ad alzarsi sulle gambe malferme; si capiva che quella mattina aveva preso i Meditrinalia molto sul serio. Claudio guardò i senatori con gli occhi rossi e umidi e leggermente spioventi come la bocca e si inerpicò su per i gradini, affondando ripetutamente sulle ginocchia deboli e costringendo così i suoi littori a salire più in fretta di quanto esigesse la dignità.

Mentre Claudio passava, avvolto in una nebbia di fumi alcolici, lo sguardo di Vespasiano intercettò quello di Narciso, che seguiva il suo patrono su per i gradini accanto a Pallante. Il greco tradì un raro accenno di sorpresa nel rendersi conto che l’uomo mandato in Oriente a verificare i suoi sospetti sulla delegazione partica non solo era tornato a Roma ma aveva anche omesso di informarlo della cosa.

«Senatore?», tubò Narciso quando si fermò accanto a Vespasiano. «Verrai naturalmente a trovarmi non appena ti sarà più comodo?»

«Senz’altro, segretario imperiale», rispose Vespasiano, incapace di prevedere un momento adatto.

Narciso annuì e poi riprese a zoppicare dietro Claudio mentre i senatori affollavano la scalinata nella loro scia, parlando a voce alta di quanto fossero ansiosi di sentire il discorso dell’imperatore e pensando invece come avrebbero fatto a restare svegli durante quello che di norma era un paio d’ore di tedio pedante e soporifero.

«Gli auspici del sacrificio sono positivi per le attività di Roma. Il Senato invita il nostro amato imperatore, Tiberio Claudio Cesare Augusto Germanico, a tenere il suo discorso», declamò il console giovane Marco Asinio Marcello, in piedi accanto a Claudio seduto. Alle sue spalle, in quello che era un oltraggio ormai divenuto così comune che nessuno ci faceva più caso, sedevano Pallante e Narciso.

«Ne sono g-g-grato, consciole», disse Claudio, restando sulla sedia curule e srotolando quello che sembrava un rotolo insolitamente grosso; perfino il morale del più fervente sicofante crollò a quella vista, poiché un lungo e balbettante discorso di Claudio non era cosa per i deboli di cuore, soprattutto quando era così chiaramente ubriaco. «Padri c-c-cosh-critti, sono q-q-qui per parlarvi d-d-della quesss-tione dell’eredità».

Vespasiano assunse la sua espressione più attenta mentre la mente cominciava a filtrare il fiume di precedenti legali, farneticante pedanteria e tronfi e compiaciuti riferimenti agli usi degli antenati, intervallati da una breve pausa per tamponare l’eccesso di saliva che colava da entrambi i lati della bocca e il costante flusso di muco dalla narice sinistra.

Vespasiano scrutò le quattro file di senatori, seduti sugli scranni pieghevoli dall’altro lato della Curia. C’era più di qualche volto nuovo come risultato del perpetuo trafficare da parte di Claudio con le nomine senatoriali, ma ce n’erano anche tanti che riconosceva: il genero di Sabino, Lucio Giunio Peto, era seduto accanto all’ex tribuno laticlavio di Vespasiano nella ii Augusta, Gaio Licinio Muciano; entrambi inclinarono il capo verso di lui quando si accorsero del suo sguardo. Che fossero seduti insieme non fu una sorpresa per Vespasiano; la cosa sorprendente era chi sedeva all’altro lato di Peto: Marco Valerio Messalla Corvino, fratello della defunta imperatrice Messalina. Corvino mantenne lo sguardo distolto da Vespasiano; il suo vecchio nemico continuava a tenere fede alla promessa di comportarsi come un uomo morto in presenza di Vespasiano, il quale gli aveva risparmiato la vita durante la caduta della sorella.

Vespasiano, mormorando parole di assenso e annuendo a tempo con il resto del Senato mentre sopportavano il discorso di Claudio, si chiese cosa avesse mai portato i due senatori, entrambi in debito con lui, così vicini al suo nemico giurato. Una cosa era certa: un uomo veniva giudicato in base a chi gli sedeva accanto in Senato. Mentre rifletteva sulla questione, i suoi occhi si posarono su un altro improbabile terzetto: Servio Sulpicio Galba seduto tra i due fratelli Vitellio, Lucio e Aulo. Aulo salutò Vespasiano con studiata noncuranza; le loro strade si erano incrociate la prima volta a Capri, quando il padre di Aulo aveva concesso il figlio a Tiberio, che lo aveva elogiato tanto per i suoi favori orali. Adesso non c’era più traccia dell’agile adolescente; Aulo era ingrassato negli ultimi anni, così come suo fratello Lucio. Galba si limitò a guardare dritto davanti a sé, con lo scarno volto patrizio che si sforzava di nascondere il disgusto per il fatto che l’antica istituzione del Senato venisse apostrofata da uno sciocco bavoso e balbuziente.

Tutti gli interrogativi riguardanti Galba seduto tra i due Vitellio sparirono dalla mente di Vespasiano quando, poco dopo, il suo sguardo si posò sull’uomo responsabile dei suoi due anni di esclusione dalla razza umana: Peligno. Quell’omuncolo di un procuratore quasi strillò di sorpresa quando i loro occhi si incrociarono; evidentemente Peligno non aveva idea che Vespasiano fosse vivo, men che meno a Roma, e il modo in cui i suoi occhi guizzarono in giro per la sala portò un sorriso sulla faccia di Vespasiano. Gli rivolse un cortese cenno del capo, con il sorriso che adesso mostrava tutti i denti, e agitò l’indice nella sua direzione un paio di volte, come per ammonire un bambino discolo. Se la sarebbe goduta, decise Vespasiano; l’avrebbe fatto soffrire prima di ucciderlo.

Un collettivo verso strozzato riportò di scatto Vespasiano alla realtà del discorso di Claudio.

L’imperatore aveva fatto una pausa e quei pochi presenti che avevano prestato una sorta di attenzione lo stavano fissando con espressione incredula, mentre la maggioranza del Senato cercava di capire dai vicini la causa dello sbigottimento.

Vespasiano si rivolse a Gaio, seduto accanto a lui. «Cos’ha detto, zio?»

«Non ne ho idea, caro ragazzo, ma un’occhiata all’espressione di Pallante e Narciso dovrebbe bastare a dirti chi ci ha guadagnato».

Narciso aveva a un angolo della bocca la parvenza di un sorriso compiaciuto, mentre l’occhio destro di Pallante era scosso da tremiti irregolari.

«Tuttavia, mi s-s-spingerò oltre», proseguì Claudio. «Ringrazio p-p-pubblicamente mio figlio adottivo, Nerone, per essere stato pr-pr-pronto ad accollarsi le responsabilità del mio incarico se il T-t-traghettatore mi avesse chiamato a sé; ma ora, poiché il mio figlio naturale, Britannico, si avvicina al tempo in cui prenderà la toga virile, Nerone non deve più preoccuparsi di assumere il gravoso incarico di P-p-princeps. Lo libero dal quel dovere con la mia riconoscenza e so che come mio figlio adottivo e genero sosterrà Britannico al momento opportuno e sarà per lui una forte spalla a cui appoggiarsi».

Claudio fece un’altra pausa, ritenendo senz’altro che dovesse esserci una sorta di riconoscimento dei bei e giusti sentimenti che aveva espresso. Tuttavia non ci fu altro che il basso mormorare degli uomini che si consultavano con i rispettivi vicini, assicurandosi di aver sentito bene.

«Penso che quel momento sia molto, molto vicino», borbottò Gaio.

Vespasiano si limitò a fissare lo sciocco sulla sedia curule mentre continuava ad affrettare la propria morte con uno sconsiderato discorso da ubriaco; Gaio non aveva esagerato il declino mentale di Claudio.

«P-p-pertanto sento che sarebbe giusto da parte mia d-divorziare da mia moglie Agrippina e sostituirla con qualcuno meno p-p-parziale che faccia anche da guida per Britannico dopo che non ci sarò più. Perciò chiedo a voi, padri c-c-coscritti, di pensare a una candidata adatta; p-p-preferirei qualcuno di alti natali, dotata di intelligenza, femminilità e b-b-bellezza».

«Riesco quasi a sentire Agrippina che mescola le sue pozioni», mormorò Vespasiano.

«Questo deve essere il messaggio di un suicida più lungo della storia», azzardò Gaio, fissando Claudio con malcelata incredulità.

«Vi chiederei inoltre, padri c-c-coscritti, di considerare quali riconoscimenti tributare a Nerone e Agrippina per il servizio reso all’impero. Statue di b-b-bronzo nel Foro, forse? O forse il dono di un terreno in una delle province? O magari entrambi. Nel frattempo, fino al quattordicesimo compleanno di Britannico, dovreste trattare Nerone come mio erede e onorarlo come onorereste me. Padri coscritti, vi ringrazio per la vostra c-c-cortese attenzione e non vedo l’ora di ascoltare il risultato delle vostre d-d-deliberazioni». Detto questo, ripiegò il rotolo e si guardò attorno come se si aspettasse un tonante applauso per uno dei più abili e lungimiranti atti politici mai annunciati nell’antica sala.

Fu accolto solo da totale e silenzioso sbigottimento.

E poi, un senatore, meno sconcertato degli altri, cominciò lentamente ad applaudire per poi fermarsi all’improvviso, resosi conto che dimostrare sostegno per l’annuncio di Claudio equivaleva ad attirarsi una condanna a morte da parte di Nerone, che adesso sicuramente sarebbe diventato imperatore, se non nel giro di poche ore ma senz’altro di lì a un paio di giorni.

Di questo tutti i presenti erano certi. Perfino Narciso, che adesso fissava il suo patrono con evidente orrore. Pallante, accanto a lui, aveva un’espressione risoluta: la sua tabella di marcia aveva subito un’accelerata considerevole.

Scambiatisi una rapida occhiata, i due liberti balzarono su dalle loro sedie e uscirono dalla Curia, uno a sinistra e l’altro a destra, così che se ne andarono nello stesso momento ma non insieme. Confuso e scosso dai suoi tic, Claudio li guardò andarsene e infine si alzò in piedi, reggendosi al bracciolo della sedia mentre faceva profondi respiri. Poi li seguì barcollante.

I senatori, contenti finalmente di poter fare qualcosa che non rischiava di essere interpretato come favorevole o contrario all’annuncio dell’imperatore, si alzarono e salutarono la partenza di Claudio intonando a gran voce “Ave, Cesare”, ciascuno convinto che quella sarebbe stata l’ultima volta che vedevano quell’imperatore nella Curia.

Mentre Claudio lasciava l’edificio, il console giovane mise fine alla seduta dal momento che era impossibile pensare di occuparsi di altre questioni quel giorno: la priorità dei senatori sarebbe stata quella di consolidare la propria posizione durante il trasferimento di potere.

«Straordinario», fu il commento di Gaio mentre ripiegava il suo scranno. «Deve aver bevuto più vino di quanto ne ha versato per le libagioni questa mattina. È l’unica spiegazione per un simile comportamento suicida».

«Non è mai stato un politico neanche in tempi migliori, zio, figuriamoci da ubriaco», osservò Vespasiano. «Si accorgerà di ciò che ha fatto solo quando sentirà il veleno bruciargli la gola. Suppongo che faremmo meglio a passare il resto della giornata a scrivere i nostri discorsi in onore di Nerone».

Raggiunsero il fiume di senatori che si avviava alle porte e, come i loro pari, si lanciarono in un’entusiasta ma futile conversazione su questioni di scarsa importanza, come se niente di rilevante fosse accaduto quell’oggi in Senato.

«Immagino che tu sappia perché volevo parlare con te, Lucio», disse Vespasiano, seduto alla sua scrivania nel tablinum l’indomani mattina presto. Hormus era al consueto posto al suo fianco e prendeva appunti.

«Sì, patrone. Magno mi ha detto tutto dell’equipaggio di cavalli», rispose Lucio, «e so per certo che il capo fazione dei Verdi sarebbe molto interessato a vederli e, se approva, sarebbe felice di prenderli tutti e cinque nelle stalle dei Verdi. Ha un accordo simile con un paio di altri proprietari privati».

«A quale prezzo?»

«Temo di non essere al corrente dell’aspetto finanziario, signore. Io mi occupo solo della sicurezza delle stalle».

Vespasiano studiò per qualche momento il suo cliente, più vecchio di lui di qualche anno. I duri venticinque anni di Lucio nella iv Scythica e poi la vita come scagnozzo della squadra dei Verdi avevano avuto il loro peso: era malandato e calvo ma ancora muscoloso. Doveva a Vespasiano la vita quando, come tribuno militare della iv Schythica, il suo patrono aveva trovato un modo conveniente per far giustiziare solo uno dei due uomini accusati di aver colpito un ufficiale superiore durante un tumulto nel campo; Lucio era stato il fortunato che aveva estratto la pagliuzza più lunga. «Chi è il caposquadra dei Verdi al momento?».

La sorpresa fu evidente sul volto di Lucio. «Eusebio, signore».

«Non ho alcun interesse per le gare», disse Vespasiano, spiegando la propria ignoranza. «Porta un messaggio a Eusebio; digli che vorrei incontrarlo e chiedigli quando gli fa più comodo».

«Sì, patrone, avrai la risposta alla salutatio di domani mattina».

«Grazie, Lucio. Resti ad assistere alla cerimonia della maggiore età di mio figlio?»

«Ne sono onorato, signore. E posso dirti quale piacere è rivederti a Roma; non ho dubitato una volta sola che saresti tornato».

Vespasiano inclinò il capo al suo cliente, ringraziandolo e congedandolo con un unico gesto. «A quanto pare si mostra ancora riconoscente; si è recato da mio zio quasi ogni giorno mentre io ero via. Fammi dare un’altra occhiata alla lista di Ewald».

Hormus gli consegnò l’elenco di clienti che si erano dileguati durante la permanenza di Vespasiano in Oriente.

Vespasiano la studiò e poi la restituì allo schiavo. «Sette di loro si sono presentati questa mattina, implorando perdono, cosa che sono stato lieto di concedere. Ne resta solo uno, Lelio. Non tollero l’ingratitudine, Hormus».

«Specialmente l’ingratitudine nei confronti di un uomo tanto generoso come te, padrone», disse Hormus con sincerità.

«Scrivi una lettera per mio fratello; raccontagli la situazione e fa’ annullare a Sabino il contratto per i ceci con quello stronzo ingrato. Inoltre, se il figlio presta ancora servizio come tribuno militare in una delle sue legioni, chiedigli di rimandarlo a casa immediatamente senza dargli spiegazioni. Questo dovrebbe dare a Lelio una lezione di gratitudine».

Hormus esibì un cupo ghigno. «Sì, è la cosa da fare, padrone».

«Firmerò la lettera dopo la cerimonia di Tito. Manda anche un messaggio a Cenis per dirle che sarò da lei al tramonto». Vespasiano si alzò in piedi. «E scopri a chi Lelio è andato a offrire la sua dubbia lealtà».

Hormus brandì la lista di Ewald. «È scritto qui, padrone». Fece scorrere il dito sui nomi. «Marco Valerio Messalla Corvino».

Vespasiano prese una piega della toga, se la drappeggiò sulla testa e poi si inchinò al lararium, l’altare che conteneva le immagini dei lari domestici, le divinità della casa. Si girò poi verso il figlio, fermo accanto a lui. «Questa è l’ultima volta che verrai chiamato ragazzo». Sfilò dalla testa di Tito il cordino di cuoio della bulla, l’amuleto fallico che il ragazzo indossava sin dalla nascita per tenere lontano il malocchio. «Dichiaro che d’ora in poi, figlio mio, tu, Tito Flavio Vespasiano, sei un uomo. Accetta il dovere, la dignità e l’onore di un uomo, va’ per il mondo e raggiungi il successo con i tuoi mezzi per la tua gloria e la gloria della casa di Flavio».

Tito chinò il capo per prendere atto dei desideri del padre.

Vespasiano posò poi la bulla sull’altare e vi dispose attorno cinque statuine d’argilla che prese da una credenza accanto. Allargò le braccia con i palmi rivolti verso l’alto, mormorò una breve preghiera e poi riempì una ciotola con del vino della brocca sull’altare. Con la ciotola nella mano destra, versò una libagione sull’altare, di fronte alla più grande delle statue, il lare famigliare, che rappresentava il fondatore della famiglia. Fece poi segno al figlio di raggiungerlo accanto all’altare e gli diede un sorso di vino, prima di vuotare egli stesso la ciotola e posarla.

Scopertosi di nuovo il capo, si girò per rivolgersi alla folla di clienti che assistevano alla cerimonia, in mezzo ai quali c’erano anche Gaio, Magno con tre dei suoi vecchi confratelli, Tigran, Sesto e Cassandros. Flavia sedeva davanti a loro, gli occhi pieni di lacrime e un braccio attorno alle spalle della figlia – Domiziano era stato ritenuto troppo discolo per partecipare – e Britannico era in piedi accanto a loro. «Chiedo a tutti voi di essere testimoni della mia decisione di concedere lo stato di adulto al mio figlio maggiore».

Ci fu un coro di consensi.

Vespasiano fece segno a Hormus, il quale venne avanti con una semplice toga virilis, simbolo di un cittadino adulto, e cominciò a drappeggiarla attorno al corpo di Tito. Quando Hormus ebbe finito, Tito si coprì il capo con una piega della toga e, assumendo la posizione di preghiera con i palmi rivolti al cielo, dedicò se stesso alla casa di Flavio e al suo dio protettore, Marte.

Mentre la preghiera veniva recitata, Vespasiano lanciò un’occhiata a Britannico; lacrime gli rigavano il viso lungo, ereditato dal padre, nel guardare l’amico portare a termine la cerimonia che per ragioni politiche mai avrebbe potuto avere per sé e, nonostante la giovane età, aveva la maturità per capirlo.

Vespasiano si chiese per un momento che tipo di imperatore sarebbe stato lo sventurato ragazzo e poi si ricordò che era il prodotto di uno sciocco e di una puttana assetata di potere. Si capiva che Britannico non era affatto uno sciocco e perciò, se la natura avesse seguito il suo normale corso, una volta sessualmente maturo, avrebbe mostrato tutta la licenziosità della madre, Messalina; forse aveva addirittura il potenziale per far apparire Caligola come semplicemente un uomo dalla libido un tantino iperattiva.

Quando Tito giunse al termine della preghiera, Vespasiano scacciò quel pensiero dalla mente come irrilevante: a nessuno era dato sapere che tipo di imperatore sarebbe stato Britannico.

C’era aria di festa a Roma, pronta a celebrare gli Augustalia. Ghirlande di fiori e alloro ornavano le numerose statue di Augusto in tutta la città e folle di leali sudditi della dinastia giulio-claudia erano in attesa per offrire ringraziamenti per il vittorioso ritorno del fondatore della dinastia dalla guerra civile in Oriente, sessantatre anni prima. Tutti erano diretti alla Porta Capena, la porta che conduceva alla via Appia. Lì, nel tempio di Fortuna Redux, sul fianco del Celio, appena sopra la porta e all’ombra dell’Acquedotto Appio, avrebbero guardato il loro imperatore, nella sua veste di flamen augustales, guidare le preghiere e i sacrifici al suo divinizzato predecessore. Ma quello era solo il preludio agli eventi principali della giornata: le corse e i banchetti.

«Non hai più bisogno di preoccuparti, Vespasiano», disse Britannico mentre scendevano dal Quirinale seguiti dai clienti di Vespasiano e Gaio. «Tito non ha niente da temere dal suo rapporto con me adesso che è diventato un uomo».

Vespasiano non capiva in che modo la differenza di rango avrebbe protetto il figlio che gli camminava accanto, dritto e fiero nella sua toga virilis. «Agrippina è una donna perfida».

«Lo è. Ma Seneca, precettore mio e di Domizio, non è un uomo perfido». Britannico non riusciva ancora a riferirsi a Nerone con il suo nome adottivo.

«Ma che potere ha?», domandò Gaio mentre Magno e i suoi ex confratelli, aprendo un varco tra la folla, rallentavano davanti allo stretto ingresso del Foro di Augusto, intasato di cittadini che deponevano piccoli doni ai piedi delle sue statue.

Britannico alzò lo sguardo su Gaio. «Non si tratta del potere che ha, bensì dell’influenza. E sta usando quell’influenza per fare in modo di conservare i lussi che la accompagnano il più a lungo possibile. Seneca conosce fin troppo bene il carattere di Domizio; a chi sfuggirebbero i suoi eccessi?»

«A tuo padre, tanto per cominciare», osservò Tito.

«Mio padre è un idiota e per questo domani a quest’ora sarà morto». Britannico parlava senza traccia di emozione. «Ma Seneca è riuscito a convincere Domizio che, se vuole regnare per il resto della sua vita naturale, invece che per soli cinque anni come Caligola, allora dovrà contenersi quando si tratta della vita dei suoi sudditi, mogli e risorse. Se lo farà, allora sarà libero di condurre una vita di indolenza artistica, visto che ha iniziato a credere che il suo mediocre talento artistico sia il più grande mai concesso a un uomo. Nel frattempo, Seneca, Pallante e Burro prendono le decisioni politiche, cosa che sono molto più qualificati a fare di un diciassettenne che non ha il permesso di allontanarsi dalle gonne della madre perché lui è l’unica risorsa politica che le rimane ed è legato a lei dall’incesto». Il gruppo riprese a muoversi quando l’ingresso del Foro di Augusto fu sgombrato; tutt’intorno, la gente urlava lodi all’uomo che aveva dato inizio al più lungo periodo di pace, libero dai conflitti civili che continuavano da più di centocinquanta anni. «Quando Domizio mi avrà assassinato, il gesto non verrà condannato perché sarà fatto apparire come necessario per il bene di Roma. Ma se uccide Tito o un altro dei figli di Roma insieme a quello già perduto, allora apparirà come qualcuno che ha agito con perfidia, come sua madre, invece che spinto, suo malgrado, dalla necessità. Seneca farà in modo che Domizio lo capisca; perciò Tito è al sicuro».

«Messa così, potresti avere ragione, caro ragazzo», disse Gaio, dimenticando esattamente con chi stava parlando. «Ma come possiamo credere che Agrippina si atterrà alla stessa disciplina?»

«Perché lei non ha alcuna presa sul potere se non tramite Domizio e, anche se la farà infuriare, anche lei comprenderà il bisogno di autocontrollo. Dopo che sarò morto, avrà portato a termine il compito di consolidare il potere del figlio e perderà di utilità per Domizio; dovrà stare molto attenta alle richieste che gli fa. Se diventa troppo dominante, Domizio potrebbe rendersi conto di non avere più bisogno di lei».

Vespasiano provò ammirazione per il giovane in grado di parlare in modo così spassionato della propria inevitabile morte e sembrava non averne paura. «Perché non fuggi?»

«E dove? In qualche puzzolente tribù fuori dall’impero? O magari in Partia? La prima cosa che chiunque farebbe una volta scoperta la mia identità è vendermi a Domizio e a quel punto avrebbe ogni diritto di farmi giustiziare per tradimento». Britannico fece spallucce con aria rassegnata. «No, la mia sfida è accettare spontaneamente il destino a cui mi ha condannato quello sciocco di mio padre. Mi consolo con il fatto che morirà prima di me e che Narciso, l’uomo che ha ordinato l’esecuzione di mia madre, sarà ad aspettarmi sull’altra riva dello Stige quando arriverò».

Vespasiano comprese la deprimente logica del ragionamento di Britannico: era condannato sotto qualsiasi punto di vista. Ma forse aveva ragione riguardo a Tito. Adesso che era tornato a Roma, Vespasiano decise che la persona che aveva bisogno di coltivare era l’uomo in grado di tenere le redini del prossimo imperatore. «Credi, zio, che sarebbe indegno della nostra famiglia se diventassi cliente di Seneca?»

«Senza dubbio, caro ragazzo. Ma quando mai questo ha impedito a qualcuno di tentare di mettere al sicuro la propria posizione?».

Per la prima volta, Vespasiano si divertì a guardare gli equipaggi dei cocchi procedere a gran velocità attorno alla pista di sabbia del Circo Massimo; si scoprì perfino a sperare nella vittoria dei Verdi, anche se non lo espresse in vero e proprio tifo. Cominciò a considerare con autentica trepidazione la prospettiva di vedere il suo equipaggio di bellissimi arabi che si lasciava dietro il resto del campo mentre si aggiudicavano una strepitosa vittoria. Ma più di questo, aspettava con ansia di vedere Cenis quella sera. Il suo corpo nudo gli balenò nella mente, insieme al sorriso che lo seduceva con la prospettiva di estenuanti ore d’avventura nella sua camera da letto. Tuttavia, il sogno a occhi aperti fu interrotto dalle vicende quasi surreali nel palco imperiale, appena a dieci passi alla sua destra. Claudio era arrivato in lettiga al tempio di Fortuna Redux e questo non solo per via delle gambe deboli; mentre scendeva, era parso chiaro a tutti che fosse ancora ubriaco, addirittura più ubriaco del giorno prima. La vergogna dei colleghi sacerdoti – di Galba in particolare – era visibile a tutti quando aveva pronunciato farfugliante le preghiere di rito e combinato poi un pasticcio con il sacrificio, schizzandosi la toga di sangue, in quello che tutti sapevano essere il peggiore degli presagi. Tuttavia, i senatori che erano stati presenti al suo discorso il giorno prima non erano affatto sorpresi che fosse il destinatario di un prodigio di morte. Nerone, ormai quasi del tutto sviluppato dall’ultima volta che Vespasiano l’aveva visto, gli splendenti capelli color tramonto a cui ora era abbinata una morbida barba, era rimasto fermo sui gradini del tempio, facendo esagerati gesti di preoccupazione e allarme per il padre adottivo. Aveva con ostentazione articolato ogni parola delle preghiere come per aiutare Claudio a ripeterle. Ogni volta che l’imperatore riusciva a completare un intero verso senza biascicare né balbettare, il Principe della Gioventù fingeva di tirare sospiri di sollievo che i creduloni nella folla, una grande maggioranza, prendevano per autentici e sinceri.

Completato il rituale, Claudio era stato quasi letteralmente tirato su di peso da Pallante e Burro, rimesso sulla lettiga e dotato di sufficiente succo di Bacco da bastargli per il tragitto di quattrocento passi fino al Circo Massimo. Malgrado la brevità del viaggio, la brocca era vuota al suo arrivo, ma Agrippina, che lo aspettava nel palco imperiale, si era occupata delle sue esigenze e da allora non aveva quasi smesso di fornire al marito beone vino concentrato.

Agrippina, Nerone, Pallante e Burro si comportavano come se niente fosse mentre Claudio, avendo convocato Peligno nel palco imperiale per giocare a dadi tra una gara e l’altra, era a malapena in grado di restare dritto sul suo posto e sembrava essere in considerevole difficoltà ogni volta che tentava di fare un lancio.

La folla, tuttavia, badò poco all’ubriaco nel palco imperiale, impegnata com’era a incitare gli equipaggi equini che giravano sette volte attorno alla spina, la barriera posta quasi al centro dell’arena e sulla quale erano montati i delfini di bronzo che segnavano il passaggio di ogni giro. Dodici gare con dodici squadre, tre per ciascuna fazione, furono acclamate quel pomeriggio e i festeggiamenti per i vincitori furono chiassosi; tuttavia furono più entusiasti per una squadra, quando i neutrali e i sicofanti nel circo si unirono al Principe della Gioventù nelle sue eccessive dimostrazioni di gioia la quarta volta che i suoi amati Blu furono i primi a rovesciare il settimo delfino.

Con teatrale flemma, l’affascinante attuale erede alla porpora offrì i ricchi premi ai trionfanti cocchieri dei Blu, crogiolandosi nella loro gloria come fosse stato lui stesso a guidare l’equipaggio vincente. Dal fondo del palco, il ragazzo con cui Claudio, nella sua mente ottenebrata, aveva intenzione di sostituire il raffinato commediante, guardava inosservato dalla folla mentre la sua legittima posizione gli veniva usurpata senza vergogna.

Quando Nerone finì di conferire il premio finale ai vittoriosi Blu, sia sua madre che Pallante andarono a parlargli. Lanciò un’occhiata a Claudio, poi alla tribuna dei senatori e infine, con un gesto di studiata melodrammaticità, chiese il silenzio. Quasi un quarto di milione di persone obbedirono alla richiesta.

«Popolo di Roma», declamò con voce rauca e affatto robusta, «mio padre», fece una pausa e indicò con enfasi il confuso ubriacone ignaro di cosa stesse accadendo mentre si affannava a leggere i puntini sui dadi del suo ultimo lancio, «invita tutti voi a banchettare a sue spese questa sera. Tavoli sono stati allestiti in tutta la città e saranno riforniti di cibo e bevande per quattro ore. Egli vi augura la gioia degli Augustalia!». Mettendosi di lato, Nerone si portò una mano sul cuore e tese l’altra in fuori e in alto, per poi girare lentamente e mostrarsi all’intera folla urlante. Con un guizzo del polso e abbassando il braccio, li ridusse al silenzio e si rivolse alla tribuna dei senatori. «Come favore personale a lui, mio padre richiede la compagnia di tutti i senatori di rango pretoriano o consolare, perché si uniscano a lui in una cena intima a palazzo. Vi aspetta lì non appena possibile».

Vespasiano imprecò tra sé adesso che il suo primo incontro con Cenis dopo quasi tre anni sarebbe stato posticipato.

Nerone si girò nuovamente verso la folla e assunse una posa eroica, mani sui fianchi, un piede in avanti, testa alta e occhi che guardavano valorosamente in lontananza mentre il padre adottivo veniva aiutato a raggiungere l’uscita, lasciando Peligno, per una volta, davanti a due grossi mucchi di vincite, uno d’argento e l’altro d’oro.

«Non credo proprio che fosse nelle condizioni di fare quell’invito», osservò Gaio, guardando Claudio che veniva trattenuto mentre barcollava per andare ad abbracciare il figlio naturale.

«No, zio», replicò Vespasiano, «è opera di Pallante e Agrippina».

Gaio lanciò un’occhiata ad Agrippina, la quale adesso teneva in aria il braccio destro del figlio come se avesse vinto una gara. «Oh cielo, caro ragazzo, oh cielo».