CAPITOLO XI

«Il re dell’Armenia non fugge da nessun uomo, malgrado quello che si aspetta mia zia». Radamisto non guardò Vespasiano mentre faceva questa dichiarazione ma fissò dritto davanti a sé un busto che lo raffigurava come Ercole, sistemato accanto all’entrata della tenda. Seduto eretto su un pesante trono, l’unica concessione che fece alla presenza di Vespasiano fu un noncurante e molle gesto della regale mano nella sua direzione.

Aveva, con ostentata magnanimità, degnato di concedergli un’udienza nel suo accampamento, a guardia del ponte est-ovest sul Kentrites, mentre i romani erigevano il proprio per proteggere quello nord-sud sul Tigri.

«Tu non sei il re dell’Armenia, Radamisto», gli rammentò Vespasiano, tenendo a bada la voce malgrado la rabbia crescente. «Non fino a quando non lo dice Roma. E se vuoi che Roma ti confermi sul trono, allora farai quello che Roma ti dice di fare. E Roma dice che ti ritirerai nell’entroterra».

«Ah, sì? Ho sentito Roma dire il contrario». Radamisto rivolse su Vespasiano gli occhi, scuri come quelli di un lupo in una notte senza luna, e si accarezzò la barba, rigirandone la punta come assorto nei pensieri. «Perché dovrei fuggire da un esercito che è già stato sconfitto una volta? Ero pronto alla ritirata strategica che Trifena aveva consigliato, per attirare un esercito più forte nell’entroterra, dove potevamo farli morire di fame e poi sgominarli. Ma adesso le cose sono cambiate: ho già sconfitto l’armata che hanno mandato a difendere la strada settentrionale; il resto dei parti può essere fermato qui. È una richiesta di Roma; ho sentito la sua voce proprio come l’ho sentita quando ha detto che sono re». Il profumo dolciastro con cui le strettissime trecce, simili a tante code nere di ratto, erano abbondantemente cosparse, rivoltò lo stomaco di Vespasiano, che fece un passo indietro. «Proprio così. Dovresti temere il re».

«Tu non sei re, Radamisto», ripeté Vespasiano.

«Lo sono! E non permetterò che il secondogenito di una famiglia di basso rango mi insulti insinuando il contrario. La tua insolenza nel rifiutarti di chinare il capo davanti a me è insopportabile e se continui con la tua impudenza, dovrò farti tagliare quella testa».

Vespasiano si chiese come mai Radamisto fosse a conoscenza delle sue origini. «Non provare a minacciarmi, Radamisto, soprattutto con qualcosa che sai fin troppo bene non essere alla tua portata».

«Sua maestà ha tutto il diritto di fare una simile minaccia, Vespasiano», disse una voce sgradevolmente familiare alle sue spalle.

Vespasiano si girò e vide un ometto gobbo entrare nella tenda. «Peligno! Cosa ci fai ancora qui? L’esercito partico è a solo un miglio di distanza e c’è solo un fiume che vi separa».

Il procuratore sorrise malevolo e poi si inchinò con ostentazione a Radamisto, rivoltando ancora di più lo stomaco di Vespasiano con la scena di un romano che omaggiava un arrampicatore orientale. «Tua maestà».

Radamisto accolse quell’inchino esagerato con appena un cenno del capo. «Spiega la situazione a questo illuso, procuratore».

«È un piacere, tua maestà». Peligno si esibì in un nuovo spropositato inchino, con la schiena curva che gli faceva dolere la testa quasi in posizione verticale, prima di rivolgersi a Vespasiano. «Come procuratore della Cappadocia, la provincia romana più vicina all’Armenia, ho confermato sua maestà nella posizione di re. Scriverò all’imperatore per informarlo dell’azione, che so sosterrà, perché è nell’interesse di Roma avere un re forte in questo regno così essenziale alla nostra sicurezza in Oriente».

«E cosa ha dato in cambio a Roma questo re, Peligno?»

«Si è impegnato a scacciare i parti dalla regione, cosa che, date le mie vittorie sulla loro fanteria e i loro catafratti, sarà facilmente ottenibile».

«Le tue vittorie? Non ricordo di averti visto da quando sono apparsi i parti la prima volta».

«Io comando il mio esercito perciò mi prendo il merito, ricordi?». Peligno fece un sorriso maligno, scoprendo i denti storti. «Domani i nostri eserciti congiunti torneranno al di là del Tigri e sconfiggeranno la feccia malridotta di Babak davanti alle porte di Tigranocerta».

«Non sconfiggerete Babak; gran parte dei suoi catafratti sono sopravvissuti, come sapresti se fossi stato veramente lì».

«Re Radamisto ha portato con sé duemila soldati di cavalleria pesante armeni e iberiani, oltre a quattromila arcieri a cavallo e la metà a piedi; un’armata del genere unita ai miei ausiliari sarà invincibile. Dirò all’imperatore di questa famosa vittoria, la terza in due giorni, nella lettera in cui lo informo delle mie azioni riguardanti il trono armeno. Sono sicuro che mi tributerà un’ovazione come ha fatto con Aulo Plauzio per la sua impresa simile in Britannia».

Vespasiano fissò l’ometto in muto stupore non essendosi mai trovato in presenza di un delirante visionario di tal fatta, con la possibile eccezione di Caligola in un giorno no. Scuotendo la testa accigliato, girò i tacchi e, senza neanche un’occhiata a Radamisto, uscì a grandi passi dalla tenda.

«Il problema è che tecnicamente sta facendo la cosa giusta, ovvero confermare Radamisto in cambio della sua rapida azione nel respingere i persiani», Vespasiano informò Magno più tardi, davanti a una tazza di vino nella loro tenda. «Perciò non posso criticarlo per questo senza destare sospetti».

«Ma cosa c’è di male in quello che sta facendo?».

Vespasiano sospirò, sentendo di non avere più il pieno controllo della situazione. «Be’, immagino niente a parte rischiare e probabilmente sacrificare la vita di una buona parte dei suoi ausiliari. Se domani attacca Babak, finirà conciato male mentre attraversa il ponte; gli arcieri a cavalli parti interromperanno le sue manovre e non avrà tempo di schierare un ordine di battaglia prima che i catafratti colpiscano. Come saprebbe, se avesse la minima esperienza militare».

«E Radamisto?»

«Cosa? Si vede bene che è un idiota in cerca di gloria con lo stesso buonsenso del suo piccolo amico».

Magno contemplò pensieroso il contenuto della sua tazza. «A quanto pare sarà un macello».

«Sarà un macello mortale ma porterà lo stesso risultato. Radamisto ripiegherà verso nord con quanto resta del suo esercito e, dopo aver presidiato Tigranocerta e assicurato le linee di rifornimento, Babak lo seguirà, rendendo la guerra inevitabile. Stavo solo cercando di ottenere la stessa cosa con la minima perdita di vite».

Magno vuotò la tazza mentre Hormus entrava con la pentola fumante della loro cena. «Spero che stavolta tu ci abbia messo la dose giusta di levistico, Hormus».

Sorridendo, Hormus quasi incrociò lo sguardo di Magno. «Credo di sì, Magno». Posò la pentola sul tavolo. «Mezza manciata per ogni quattro manciate di ceci e maiale».

Magno annusò il contenuto della pentola e poi guardò soddisfatto lo schiavo di Vespasiano. «Ha davvero un buon odore, ben fatto, figliolo».

Il sorriso di Hormus si fece ancora più largo. «Grazie, Magno», replicò, tornando a occuparsi del resto della cena sul fuoco di cottura all’esterno.

Vespasiano era sorpreso. «Da quand’è che ha cominciato a chiamarti per nome?»

«Da quando gli ho detto di farlo. È un bravo ragazzo. È venuto fuori che il giovane che si porta a letto fa un po’ troppe domande ed è chiaramente stato mandato per introdursi nella nostra piccola cerchia, se capisci cosa voglio dire».

Vespasiano capiva bene. «Da Peligno, direi, visto che è comparso quando abbiamo lasciato Melitene».

«Sì, a quanto pare si è vantato con Hormus di avere amici molto importanti in Cappadocia».

«Come hai scoperto tutto quanto?»

«Interrogando Hormus sulle loro chiacchierate a letto mentre aspettavamo di attraversare il ponte questa mattina».

«E?»

«E Hormus ha ammesso che il ragazzo gli ha chiesto più volte se avesse origliato qualche conversazione interessante e l’ha sempre fatto con la bocca piena, se capisci cosa intendo».

«Non si dovrebbe mai parlare con la bocca piena».

«È quello che ho detto a Hormus e penso che fosse parecchio turbato quando si è accorto delle pessime maniere del suo amante. Tornando a lui, ha acconsentito a propinargli tutte le bugie che vogliamo».

«Potrebbe essere un grande aiuto».

Vespasiano aveva l’aria pensierosa quando Hormus tornò con una pentola più piccola e del pane azzimo.

Lo schiavo poggiò il resto della cena accanto allo stufato di maiale e ceci e poi sistemò piatti, coltelli e cucchiai; non essendoci divani, Vespasiano e Magno mangiarono seduti.

«Come si chiama il tuo ragazzo, Hormus?», domandò Vespasiano mentre lo schiavo gli riempiva il piatto.

«Mindos, padrone».

«Mindos?». Vespasiano spezzò in due del pane e vi mise sopra un boccone di stufato. «Bene, di’ a Mindos che hai origliato una conversazione tra me e i prefetti delle cinque coorti ausiliarie questa sera. Digli che non sei riuscito a sentire molto bene, ma sembrava che stessi dicendo che al mattino avrei riportato i loro uomini in Cappadocia e lasciato Peligno con Radamisto. Di’ a Mindos che pensi che tutti abbiano acconsentito».

«Sì, padrone».

Vespasiano diede un morso e masticò pensieroso prima di inghiottire. «È davvero molto buono, Hormus».

«Te l’avevo detto che gli avrei insegnato a cucinare in modo decente, no?», disse Magno con la bocca piena. «È proprio la quantità giusta di levistico».

«Pensavo avessi detto che consideravi maleducato parlare con la bocca piena».

«Dipende dalla carne che stai mangiando». Magno ghignò e prese a masticare rumorosamente.

Vespasiano indicò con la testa i lembi aperti della tenda. «Va’ a portare la cena a Mindos, Hormus; speriamo che sia maleducato quanto Magno».

Hormus sembrava confuso quando se ne andò.

«Pensi che lo farà?», chiese Vespasiano.

«Certo».

«Credo che tu abbia ragione. Sembra aver guadagnato molta più sicurezza da quando siamo venuti in Oriente. Alla fine potrebbe perfino diventare utile».

«Io direi che lo è già. Cosa ti aspetti che accadrà quando Peligno verrà a sapere della tua piccola bugia?»

«Mi aspetto che all’improvviso si trasformi in verità».

Vespasiano fu svegliato dalle buccine che suonavano non la levata ma l’allarme.

Balzato fuori dal basso letto da campo con indosso la tunica mentre Hormus entrava di corsa negli alloggi notturni, cominciò ad agganciarsi la corazza aiutato dallo schiavo che si occupò di cintura e sandali. Con la fascia del rango attorno alla vita e la bandoliera in spalla, irruppe dalla tenda, legandosi la cinghia dell’elmo con un nodo ben saldo, e trovò Magno che lo aspettava mangiando una scodella di stufato freddo per colazione con aria distaccata.

«Cosa sta succedendo?», domandò Vespasiano senza fermarsi.

«Chi cazzo lo sa. Sentinelle nervose?».

A un occhio poco esperto, il campo romano sarebbe sembrato nel caos ma, guardando le file di tende inondate dalla luce delle torce, Vespasiano vide solo l’ordinato radunarsi dei quasi quattromila soldati delle cinque coorti ausiliarie, con ciascun uomo che si avviava al suo punto di incontro dopo essersi vestito in metà del tempo. Le buccine continuarono a suonare inutilmente l’allarme mentre centurioni e optiones urlavano agli uomini di schierarsi attorno ai signiferi. Gli schiavi correvano in giro ad accendere altre torce così ben presto il mezzo miglio quadrato circondato da una palizzata di legno divampò di luce tremolante. Quando Vespasiano e Magno arrivarono al praetorium, il posto di comando al centro del campo, videro che gran parte delle centurie delle due coorti che si stavano formando lungo la Via Praetoria erano al completo, con solo qualche ritardatario messo al suo posto dal bastone di vite dei centurioni. Non sapeva se le truppe armene o iberiane nel loro campo a est di quello romano fossero nello stesso stato di preparazione, anche se, per il loro bene, sperava che lo fossero dal momento che Radamisto aveva respinto l’idea di erigere un campo recintato sulla base del fatto che il re dell’Armenia non si nasconde da nessun uomo.

E poi, proprio quando era in procinto di entrare nel praetorium, al di sopra del ruggito degli ufficiali e le note stridule dei corni, si levò un suono ancora più stridulo. Un suono che Vespasiano riconobbe all’istante e seppe con certezza che la lealtà di Hormus era assoluta.

«Non cercate di negarlo, traditori! Rinnegati! Disertori! Codardi! Siete sollevati dal vostro comando. Guardie, prendeteli e poi portatemi Tito Flavio Vespasiano in catene!», ansò Peligno, con gli occhi sporgenti più strabuzzati del solito; quando Vespasiano entrò nella tenda lasciando fuori Magno, stava fissando a turno ciascuno dei suoi prefetti ausiliari. I soldati di guardia non avevano dato cenno di obbedire allo starnazzato ordine di Peligno.

«Ho sentito che chiedevi di vedermi, procuratore», disse Vespasiano, come se la richiesta di Peligno fosse stato il più gentile e cortese degli inviti.

Peligno guardò torvo Vespasiano, con gli occhi quasi fuori dalle orbite, il petto ansante e la lingua penzoloni come quella di un cane, mentre faceva una serie di rapidi respiri irregolari. «Prendetelo!», riuscì finalmente a esclamare con la gola serrata dalla rabbia. Un tremante dito curvo fu puntato su Vespasiano per aiutare le guardie a identificare il malfattore meritevole di arresto. Ancora una volta, i soldati non fecero niente. «Prendetelo! Ve lo ordino!».

«Qual è il problema, procuratore?», domandò Vespasiano con il tono di chi cerca di accertare la causa del comportamento ribelle di un bambino capriccioso.

«Hai tramato alle mie spalle. Tutti voi l’avete fatto. Ora che vi ho sollevato dal vostro comando, vi farò giustiziare tutti quanti».

«Ah, sì? Forse ti piacerebbe dirci perché ritieni necessaria un’azione tanto estrema».

«Volete portarmi via i miei soldati».

«Chi te lo ha detto?»

«Lo so. C’è stato un incontro nella tua tenda ieri sera, Vespasiano. I prefetti hanno accettato di tornare con te in Cappadocia e disertare me, il vostro legittimo comandante».

Vespasiano guardò i prefetti, i quali sembravano confusi quanto lui dai vaneggiamenti del farfugliante procuratore.

«Qualcuno di voi ricorda un simile incontro, signori?».

Fregallano guardò Peligno disgustato. «Io non ricordo un incontro simile, Peligno, perché non ce n’è stato nessuno. Siamo uomini d’onore e tramare contro il nostro comandante, qualunque sia la nostra opinione su di lui, sarebbe come cospirare contro l’imperatore stesso».

Mannio sputò a terra. «Se ci fosse stato tale incontro, non avrei acconsentito a disobbedire ai tuoi ordini e a riportare la mia coorte in Cappadocia, nonostante il mio giudizio sulle tue doti militari. Neanche se avessi avuto intenzione di rischiare le nostre vite in un attacco sconsiderato. Ma adesso? Mi offende essere definito codardo da un uomo che non ho visto una sola volta sulle mura mentre eravamo sotto attacco ieri. Non ho mai prestato servizio sotto un uomo talmente inadeguato al comando; un uomo che, potendo scegliere, prenderà invariabilmente la decisione sbagliata. Ci hai sollevati dal nostro comando, moscerino. Noi adesso ce lo riprendiamo. Guardie, prendetelo!».

Stavolta gli uomini reagirono all’ordine e vennero avanti a grandi passi.

Peligno strillò e sfrecciò via dalla scrivania. Vespasiano osservò con rapita incredulità l’ometto che si abbassava e si tuffava, schivava e correva in giro per la tenda mentre le due guardie tentavano di acchiapparlo come nell’inseguimento di una commedia teatrale. Malgrado la sua deformità, era veloce quanto un ratto e ben presto superò in astuzia gli inseguitori sgusciando via dalla tenda.

«Lasciatelo andare!», ordinò Vespasiano alle due guardie imbarazzate. Poi si rivolse ai prefetti. «Senza dubbio correrà da Radamisto».

«Quell’arrogante pezzo di merda orientale è degno di lui», commentò Cotta, a nome di tutti i presenti a giudicare dai mormorii di consenso. «Allora, cosa facciamo adesso?».

La domanda era diretta ai colleghi prefetti ma fu Vespasiano che tutti guardarono per avere risposta.

«A quanto pare avete una scelta tra ritirarvi in Cappadocia o ritirarvi a nord, in Armenia con Radamisto; a meno che, ovviamente, non preferiate combattere qui una battaglia che non potete vincere».

Mannio pose la domanda che tutti avevano in mente. «Innanzitutto, perché siamo venuti qui? È impossibile difendere un regno come l’Armenia con solo cinque coorti».

Vespasiano fece spallucce. «Questo dovete chiederlo a Peligno, è stata una sua idea. Io sono venuto solo per offrire suggerimenti in caso di necessità». Non era una bella bugia, pur essendo convincente alla luce del comportamento del procuratore. Tuttavia, ora che le coorti ausiliarie erano servite al loro scopo, era ansioso che tornassero alla base senza ulteriori perdite. «Personalmente penso che possiate tirarvene fuori, adesso che il vostro comandante si è rivelato un instabile imbecille. Se dovrete ritirarvi di fronte a una forza superiore, allora, invece che addentrarvi a nord in un territorio sconosciuto, io tornerei a casa e manderei un messaggio al governatore della Siria, sperando che venga con una o due delle sue legioni a dare una mano contro i parti».

Mentre i prefetti cominciarono a discutere tra loro, prendendo in considerazione le diverse opzioni, le buccine esplosero in un’altra serie di squilli. Era ancora una volta l’allarme. Vespasiano uscì dalla tenda con i prefetti al seguito. «Cosa succede, Magno?»

«Non ne ho idea, signore. Ma se davvero si tratta di guai, allora è un bene che i ragazzi siano tutti in piedi, vestiti e disposti in questi bei ranghi a cui i centurioni tengono tanto».

Vespasiano guardò da una parte all’altra della Via Praetoria, costeggiata da soldati che, senza dubbio come lui si chiedevano cosa stesse succedendo. Un cavaliere apparve al galoppo, in aperta contravvenzione agli ordini di qualsiasi i campo; anzi, cavalcare in un accampamento veniva condannato come atto portatore di sfortuna.

«Dov’è il procuratore?», urlò l’uomo mentre tirava le redini per frenare il cavallo.

«Scomparso», rispose Vespasiano. «Perché l’allarme?»

«I parti hanno sorpreso la guarnigione sul ponte. Adesso sono loro a controllarlo e stanno attraversando in massa».

«Ma è impossibile, c’era mezza coorte a guardia».

«Non il nostro ponte, signore; ma quello sorvegliato dagli armeni. Hanno riparato il ponte per poterlo attraversare e seguire l’esercito di Radamisto».

Vespasiano si sforzò di non mostrarsi sconvolto e guardò i prefetti riuniti. «Bene, signori, vi suggerisco di schierare delle difese a est, nel caso i parti riescano a superare Radamisto, per proteggerci mentre leviamo le tende il più in fretta possibile. A quanto pare la decisione è già stata presa per voi: la strada per il Nord è bloccata».

Vespasiano spronò il cavallo più veloce che osava nella crescente mezza luce dell’alba; più avanti, l’accampamento non fortificato di Radamisto era in subbuglio, soffocando il rumore degli ausiliari che levavano le tende e dei corni della coorte che si schierava come una cortina. Ma anche se c’erano centinaia di migliaia di voci alzate, ancora non aveva sentito il clangore delle armi o le urla dei feriti o dei moribondi.

Entrò indisturbato nel perimetro del campo armeno, che era un caos di uomini che montavano a cavallo e si schieravano senza alcun evidente senso dell’ordine. Si fece strada nella confusione il più veloce possibile senza causare danni a uno dei tanti che sembravano correre in tondo all’unico scopo di farsi vedere impegnati in qualcosa. Finalmente raggiunse la tenda di Radamisto dove trovò il re, risplendente con l’alta corona armena e una tunica di armatura a piastre, che saliva su un cocchio cerimoniale trainato da quattro cavalli.

«Cosa stai facendo, Radamisto?», urlò Vespasiano, fermandosi accanto all’usurpatore.

Radamisto ignorò la domanda mentre le sue guardie a cavallo si chiudevano attorno a lui spingendo via Vespasiano. Poi il re si fermò per un momento e lo guardò, aggrottando la fronte come se riflettesse. Apostrofò qualcuno nell’ombra nella propria lingua e ne ricevette una risposta che a Vespasiano parve affermativa. Il conducente del cocchio fece crepitare la frusta sulla groppa del suo equipaggio e il veicolo partì, circondato da guardie del corpo, in direzione del ponte che l’esercito di Radamisto avrebbe dovuto difendere.

«Il re negozierà», disse Peligno, uscendo dall’ombra. Conduceva un cavallo ed era accompagnato da una mezza dozzina di guardie reali. «Ora che i miei uomini mi hanno abbandonato, abbiamo solo la metà degli effettivi che pensavamo di avere e siamo circondati».

Vespasiano guardò dall’alto il procuratore. «Cos’ha intenzione di fare? Arrendersi?».

Peligno rise di scherno. «Il re dell’Armenia non si arrende a nessun uomo. Combatterà se necessario».

«Lui non è il re».

«Lo è. Forse avrai notato la corona che portava sulla testa. L’ho messa io lì nel nome di Roma proprio adesso, per confermarlo come sovrano. Questo gli darà l’autorità nelle trattative con i barbari».

«Razza di piccolo idiota. Deve guadagnarsela, non ottenerla senza condizioni».

Una delle guardie di Peligno incrociò le mani; il procuratore vi salì e si affannò a montare in sella in modo sgraziato. Guardò Vespasiano mentre anche le guardie montavano a cavallo. «Vieni con me a vedere il risultato dei negoziati. Anzi, Radamisto ha chiesto la tua presenza. Penso che resterai colpito dalla formula del suo giuramento di lealtà alla Partia. Naturalmente il re dell’Armenia non avrà problemi a infrangere il giuramento fatto a un uomo così umile quanto il satrapo di Ninive. La Partia si ritirerà, Radamisto si rimangerà il giuramento e resterà sul trono con una corona offerta da Roma, e io avrò ottenuto la più grande vittoria diplomatica e militare da quando Augusto ha negoziato il ritorno delle aquile perdute da Crasso a Carre. Non vedo l’ora di essere ampiamente ricompensato da un imperatore riconoscente».

«La Partia non tollererà mai una violazione di quel giuramento; saranno di ritorno entro un mese dalla ripulsa di Radamisto», replicò Vespasiano. Detto questo, girò il cavallo, felice nel sapere che se Radamisto aveva intenzione di prestare giuramento alla Partia per poi romperlo, allora la guerra sarebbe stata inevitabile e la sua missione compiuta. «Ma, no, grazie. Non mi unirò a voi malgrado il gentile invito di Radamisto. Torno in Cappadocia, ho visto abbastanza di come si fa politica in Oriente».

«E invece no, Vespasiano. C’è ancora una cosa che dovresti vedere». Peligno atteggiò il volto scarno in quello che doveva essere un sorriso gradevole ma a Vespasiano parve si trovasse in avanzato rigor mortis. «Quello del re non era un invito». Fece segno alle sue guardie. «Era un ordine».

Sei lance furono immediatamente puntate su di lui; era circondato.

«Prendetegli la spada», ordinò Peligno, avviandosi dietro a Radamisto, «e legategli le mani».

Vespasiano era sul suo cavallo, i polsi legati e assicurati ai corni della sella in modo che non potesse fuggire. Peligno gli rivolgeva di tanto in tanto oblique occhiate compiaciute, come se pregustasse un momento piacevole. Dieci passi avanti a loro, Radamisto era nella sua carrozza, di fronte a Babak, con il quale stava avendo una lunga conversazione, punteggiata da tanti gesti cortesi, in quello che Vespasiano riteneva fosse un linguaggio molto elaborato dal momento che ogni frase nell’incomprensibile lingua sembrava non finire mai. Anche se neanche Peligno aveva idea di cosa si stessero dicendo, Vespasiano lo vide di tanto in tanto annuire concorde e poi notò che le guardie del corpo dall’altro lato gli sussurravano una traduzione all’orecchio. Dietro di lui, l’esercito armeno si era schierato per la battaglia, mentre alle spalle di Babak una piccola forza di cavalleria partica teneva il ponte. Non erano sufficienti ad attaccare e sconfiggere l’orda armena ma di certo lo erano per impedirne il passaggio.

Vespasiano era fiducioso che Babak avrebbe ceduto alle condizioni di Radamisto, lasciandolo libero di dirigersi a nord. Babak sarebbe rimasto a Tigranocerta fino a che non gli fosse giunta la notizia del tradimento di Radamisto. A quel punto avrebbe condotto il suo esercito nel cuore dell’Armenia e Trifena avrebbe avuto la sua guerra.

Le trattative parvero giungere a una conclusione. Vespasiano tirò le corde che gli legavano i polsi. «Slegami, Peligno».

«Sarai liberato quanto prima».

Quando il procuratore finì di parlare, Radamisto si girò e fece segno alla guardia che tratteneva le redini del cavallo di Vespasiano; l’uomo condusse avanti la bestia. Tuttavia non si fermò quando raggiunse il suo padrone ma continuò fino a Babak, che fece segno a uno del suo seguito di prendere le redini.

«Cosa significa?», pretese di sapere Vespasiano.

Babak lanciò un segnale ai suoi uomini sul ponte, i quali cominciarono a ritirarsi per consentire il passaggio dell’esercito armeno.

Mentre attraversava il ponte con Babak al suo fianco, Vespasiano ripeté la domanda.

«Nel mio regno è abitudine concludere gli affari con una garanzia», lo informò Babak. «E tu sei qualcosa del genere. Se Radamisto viene meno alla sua parola e Roma manda i suoi eserciti a sostenerlo, allora, fino a che non se ne andranno, tu passerai il resto della vita nella più buia prigione di Adiabene».

«Ma tu sai che verrà meno alla sua parola».

«Ah, sì? Ha giurato su Ahura Mazda, per lui non c’è dio più potente».

«Ma l’ha giurato a te, e lui ti considera di rango troppo inferiore perché si senta in dovere di mantenere il giuramento».

Babak si irritò all’implicito insulto. «Allora pare che le cose non si metteranno molto bene per te come ostaggio della Partia».