CAPITOLO XII

«Cosa mi consiglieresti di farne, Anania?».

Vespasiano era inginocchiato sul pavimento con le mani legate dietro la schiena. Il sapore metallico del sangue gli riempiva la bocca malconcia; il sangue gocciolava sul marmo da un taglio sopra l’occhio destro gonfio e chiuso. Il suo aguzzino, un muto barbuto dai muscoli impressionanti, con indosso solo un pezzo di stoffa attorno ai fianchi, stava davanti a lui, massaggiandosi le nocche, rosse dopo le percosse che aveva appena inflitto.

«Sembra porgere l’altra guancia».

Se non avesse fatto così male, Vespasiano avrebbe sorriso alla descrizione del modo in cui aveva affrontato la punizione impartitagli. Alzò lo sguardo su chi parlava; era seduto su un trono di legno con intarsi d’oro e argento di strani animali esotici. Sulla cinquantina, con una lunga barba grigia, i capelli trattenuti da un copricapo bianco avvolto attorno alla testa e un mantello a motivi bianchi e neri sulle spalle, non aveva l’aspetto del re di Adiabene. Tuttavia lo era; e soprattutto, adesso Vespasiano lo sapeva fin troppo bene, era un ebreo convertito.

Ma non era alla religione tradizionale che il re aveva aderito, bensì al nuovo culto promosso dai rivali di Paolo a Gerusalemme.

«Re Izate, il nostro padrone Yeshua», rispose l’uomo di nome Anania, «predicava di porgere l’altra guancia. Ma quest’uomo non è un ebreo e gli insegnamenti di Yeshua si applicano solo agli ebrei, non ai cani gentili come questa feccia infedele». Spiegando la pergamena con le mani macchiate dall’età e strizzando gli occhi umidi, Anania consultò un rotolo. «Ho una testimonianza di quanto disse qui, lasciata dal suo discepolo, Tommaso, mentre si recava a predicare agli ebrei e ai timorati di Dio dell’Oriente; ed è chiaro che i Giusti sono solo coloro che temono Dio, che siano ebrei in piena regola o timorati che aderiscono a gran parte della religione. Quest’uomo, Vespasiano, non può essere uno dei Giusti».

«Molto bene, se lo dici tu». Re Izate studiò Vespasiano per qualche momento prima di rivolgersi a una donna seduta accanto a lui su un trono più piccolo. «Dimmi, con il cuore di una donna, Symacho, cosa ne faresti di questo ostaggio per onorare Radamisto, re dell’Armenia? Adesso che quel bugiardo iberiano ha infranto il suo giuramento di lealtà al mio padrone, il Grande Re Vologase i, e che Ummidio Quadrato, governatore della Siria romana, ha inviato una legione in Armenia, quest’uomo dovrebbe essere privato della vita». Indicò Vespasiano. «Tuttavia Babak gli aveva detto che sarebbe solo stato gettato nella prigione più buia per il resto della vita se il patto fosse stato spezzato».

«Allora fa’ così, mio re». La donna guardò Vespasiano e sorrise. Nei due mesi che era stato tenuto in ostaggio ad Arbela, la capitale dell’Adiabene, Vespasiano aveva diviso diversi pasti con la coppia reale e trovato la compagnia dell’anziana regina molto più divertente di quella del marito ossessionato dalla religione o di uno dei suoi ventiquattro figli , tutti di madri diverse. Izate mostrava tutto il cieco fanatismo di un convertito, sempre a pontificare sulla sua nuova religione e a cercare di applicarla a tutti gli aspetti del suo governo, con l’evidente dispiacere, aveva notato Vespasiano, di un buon numero di cortigiani che, come Babak, restavano fedeli alle vecchie divinità dell’Assiria. Symacho, d’altro canto, non sbandierava il suo nuovo credo e, di conseguenza, era molto più rilassata e gioviale. Vespasiano quasi la perdonò per aver incoraggiato il marito a tenerlo in carcere per il resto della vita; avrebbe preferito una morte rapida.

Un altro colpo alla testa lo stordì momentaneamente. Izate doveva aver ordinato che il pestaggio continuasse mentre rifletteva sulla questione da una prospettiva religiosa.

Era una situazione lontanissima da quella che aveva trovato all’arrivo ad Arbela; allora non c’era stata una vera e propria accoglienza, ma era comunque stato trattato con una certa cortesia.

«Sono lieto che il Signore ti abbia mandato a me», gli aveva detto Izate il giorno in cui era arrivato.

Si trovavano sugli immensi spalti che sormontavano la collina ovale di quattrocentocinquanta per trecentocinquanta passi sulla quale Arbela esisteva da più di seimila anni. La collina si ergeva ripida, cento piedi su tutti i lati, con una cima quasi piatta che sembrava un’enorme base in attesa di una possente colonna da innalzare agli dèi. Una colonna che avrebbe raggiunto i cieli e li avrebbe sostenuti.

Da sempre Arbela aveva dominato la pianura assira che si estendeva in tutte le direzioni, irrigata e fertile, una terra che aveva dato potere agli antichi sovrani assiri prima che venissero assoggettati prima dai Medi, poi dai Persiani e infine da Alessandro. La sua vittoria su Dario iii a Gaugamela, ad appena ottanta miglia di distanza, aveva instaurato quasi trecento anni di governo ellenico, durante il quale l’Adiabene era riuscito a diventare un regno autonomo. Ora questa città, una delle più antiche sulla terra, era assoggettata alla Partia ed era la Partia che Vespasiano aveva osservato, prestando solo metà dell’attenzione all’ospite reale che sembrava avere quasi un unico argomento di conversazione, la teologia.

«Mi ha offerto un modo per risolvere un problema», aveva continuato Izate.

«Se posso essere utile, ne sarò fin troppo lieto», aveva replicato distrattamente Vespasiano. Era stato indotto a pensare che il suo stato fosse qualcosa al di sopra dell’ostaggio dal modo in cui era stato accolto dopo il mese di viaggio verso sud con il corpo principale dell’esercito di Babak. Non era stato imprigionato né messo sotto sorveglianza, ma il re lo aveva invitato a fare un giro degli spalti. Ben presto aveva annoiato Vespasiano a morte con i suoi discorsi sul dio ebraico e le farneticazioni sul profeta che aveva mandato per salvare gli ebrei e coloro che temevano il loro dio, liberandoli dai sacerdoti e da tutte le tracce di controllo umano sulla più pura delle religioni, o qualcosa del genere. Vespasiano non aveva afferrato bene i particolari.

«Puoi, Vespasiano, con la grazia di Dio, puoi».

«In che modo?»

«Pensi che Radamisto manterrà la parola? Dopo tutto, ha giurato su Ahura Mazda che chiaramente non esiste».

Vespasiano aveva continuato a guardare la vastità dell’impero partico. «Cosa te lo fa dire?»

«C’è un solo dio, di conseguenza gli altri non esistono».

«Io ho visto gli dèi manifestarsi. Ho visto la dea Sulis e il dio Heylel impadronirsi dei corpi dei vivi e dei morti».

«Heylel? Colui che fu scacciato dalla grazia di Dio per la sua arroganza? Non era un dio ma un angelo».

Vespasiano era annoiato da quella infinita discussione teologica che il re gli stava infliggendo. «È la stessa cosa: un essere soprannaturale che ha più potere di uno umano esige venerazione. Definisci Heylel come vuoi ma io lo definisco un dio e dovrei saperlo bene visto che l’ho incontrato».

Izate aveva emesso un verso di disapprovazione e gli aveva sorriso benevolo, come farebbe un paziente grammaticus con un allievo talentuoso ma purtroppo poco assennato.

Vespasiano aveva ignorato il gesto paternalista, conscio di essere stato forse un po’ più brusco nei suoi commenti di quanto si convenisse a un ostaggio. Mitigò il tono di voce. «Il punto è che Radamisto non ha alcuna intenzione di prestare fede al suo giuramento. Non si tratta del fatto che creda o meno in Ahura Mazda. È convinto che il re dell’Armenia non sia vincolato ad alcun accordo raggiunto con un semplice satrapo di Ninive».

«Ah! Allora siamo d’accordo su cosa farà Radamisto?»

«Sì, ma non sul perché lo farà». Si era morso il labbro, lottando per mantenere a bada la crescente irritazione.

«Perciò il mio signore mi ha dato un modo per dimostrare al mondo quanto sono giusto, un modo per dimostrare ai nobili come Babak che restano aggrappati ai vecchi dèi dell’Assiria, che posso essere misericordioso ma forte nella mia religione. Dandoti a me, posso dimostrare ai miei nobili che dovrebbero smetterla di tramare contro di me e condividere invece il culto dell’unico vero dio e del suo profeta Yeshua».

A quel punto l’attenzione di Vespasiano era totale. Non gli piaceva la piega che stavano prendendo. «In che modo puoi farlo con me?». La sua voce era bassa e le parole lente quando aveva guardato il re negli occhi, che risplendevano della felicità di un bambino innocente.

«Quando Radamisto romperà il giuramento, la tua vita sarà perduta. Potrò dimostrare pubblicamente il mio dispiacere e ideare per te un’esecuzione sgradevole e lunga, a metà della quale potrò concederti la grazia se riceverai il battesimo della fede. Cosa che ovviamente accetterai perché, dopo tutto, chi non lo farebbe? Quando i miei nobili verranno a saperlo, accorreranno in massa al fiume per l’immersione nel nome di Yeshua. Capisci? Semplice».

Vespasiano aveva guardato a bocca aperta il re, rendendosi conto che il senso della realtà di Izate non era solido quanto doveva. «Io sono un proconsole di Roma; non puoi minacciarmi di morte e poi costringermi a ripudiare la religione dei miei antenati senza provocare un serio incidente».

Izate gli aveva dato una cordiale pacca sulla spalla. «Sciocchezze, Vespasiano. Quando Radamisto rinnegherà il giuramento, potrò fare di te quello che voglio».

«Babak mi ha detto che, quando accadrà, verrò gettato in una prigione e lasciato lì fino a che Roma non si ritirerà».

Izate era parso sorpreso. «Ha detto questo?»

«Sì».

«Non ha detto che saresti stato giustiziato?»

«No».

«Ma è terribile».

«Davvero?»

«Certo. Se ti ha detto che saresti rimasto vivo, allora devi restare vivo. Dio non approverebbe se dessi ai miei nobili una dimostrazione basata sul disonore. E, a loro volta, i nobili mi additerebbero per non aver mantenuto una promessa come un seguace di Assur, il vecchio dio dell’Assiria, che afferma di continuare a lottare per kettu, la Verità. Direbbero che l’unico vero dio rappresenta hitu, il Falso. Questa è una calamità, è terribile. Ha davvero detto che saresti rimasto in vita?».

Vespasiano l’aveva guardato completamente sbigottito.

«Sì, temo di sì».

Izate aveva posato la mano sulla spalla di Vespasiano e gli aveva rivolto uno sguardo comprensivo. «Non scusarti, non è colpa tua. Non puoi farci niente. Per quanto estremamente grave, irritante e snervante sia». Aveva continuato a borbottare tra sé, lasciando Vespasiano a guardarlo, attonito dal suo comportamento.

Un dolore lancinante colpì Vespasiano e una luce bianca gli offuscò la vista; si sentì accasciare al suolo e sperò che gli fosse concesso di restare lì mentre il re, chiaramente confuso, si affannava a capire come sfruttare la situazione di Vespasiano per dimostrare una sorta di legame con il suo dio e quindi distogliere i cortigiani da Assur. Rimase deluso; tenendo gli occhi chiusi, si sentì sollevare per una rapida serie di colpi allo stomaco e alle costole che lo lasciarono senza fiato. Le ginocchia crollarono di nuovo e, nel cadere, ebbe solo una vaga eco della voce del re che urlava. Le percosse cessarono e Vespasiano fu lasciato a contemplare il dolore sempre più forte delle costole rotte e della faccia gonfia e ammaccata.

«Non otterrò niente al cospetto di Dio facendolo scegliere tra una cella di prigione e il battesimo», annunciò Izate. «Come posso dargli la vita se non gliela tolgo? Cosa penseranno i nobili che rifiutano di unirsi a me nell’unica vera fede? Non vedranno magnanimità da parte mia né la potenza dell’amore di Dio, ma la mia debolezza e la disperazione di un uomo che farebbe qualsiasi cosa per riottenere la sua libertà. Portatelo via e mandate un messaggio all’imperatore Claudio per informarlo che Tito Flavio Vespasiano resterà imprigionato fino a che il mendace usurpatore Radamisto non verrà rimosso dal trono armeno e Ummidio Quadrato, il governatore della Siria romana, non richiamerà le sue legioni da quella terra. Fino a quel momento, sarà tenuto sotto chiave e un esercito dell’Adiabene difenderà l’onore del Grande Re di Partia dall’aggressione romana. Ci sarà guerra in Armenia».

Quindi alla fine Trifena avrebbe visto realizzato il suo desiderio, pensò Vespasiano mentre veniva trascinato via sul liscio pavimento di marmo, e non avrebbe insistito per la pace allo scopo di salvarlo anche se ne avesse avuto il potere. Era ben consapevole che a Roma a nessuno sarebbe importato granché della sua situazione: Agrippina ne avrebbe gioito come un effetto collaterale delle manovre per assicurare suo figlio sul trono imperiale; Pallante non avrebbe fatto niente per mettere a repentaglio tale successione; e Narciso probabilmente avrebbe scorto troppo tardi il sottile pericolo di una guerra partica per la sua posizione, quando ormai, con Nerone imperatore, lui sarebbe stato giustiziato.

No, si ritrovò a pensare Vespasiano, calma, dovrò restare qui per qualche tempo. Non posso aspettarmi di essere salvato perciò non ci spero e non resterò deluso. Non sperare nulla perché dalle speranze infrante viene la disperazione.

E, mentre i suoi carcerieri lo trascinavano nei sotterranei dell’antica capitale dell’Adiabene, nei profondi luoghi bui scavati millenni prima, nel profondo di un regno in cui il tempo aveva un diverso significato, Vespasiano si rifugiò nella sua mente, così pensieri e ricordi lo avrebbero protetto. Nel profondo delle viscere di Arbela, Vespasiano fu rinchiuso in una cella che aveva visto innumerevoli anni di sofferenza; un posto in cui comandavano ratti e creature senza nome e il tempo non faceva altro che consumare. Un regno di disperazione, e Vespasiano sapeva che la disperazione era ciò da cui doveva proteggersi.

Aveva poco senso tenere gli occhi aperti quando non c’era quasi luce per poter vedere. Di tanto in tanto, Vespasiano sentiva il grattare di una chiave nella toppa e poi il cigolio e lo schianto di una pesante porta che si apriva e si chiudeva, segno che era in arrivo il chiarore dorato della torcia dal fumo nero usata da un carceriere per guidare i propri passi e quello del suo compagno giù per i viscidi gradini. Vespasiano lo sapeva perché c’era una griglia sulla sua porta e riusciva a vedere a un angolo obliquo lungo lo stretto corridoio. Quanto spesso i carcerieri scendessero laggiù non sapeva dirlo. Potevano essere due volte al giorno, una volta al giorno o una volta ogni qualche giorno. Non faceva differenza perché aveva perso il conto dei giorni, delle notti, delle ore o dei mesi. Nelle profondità di Arbela c’era solo un momento e quel momento era il presente.

L’arrivo dei carcerieri non portava solo luce ma anche suono. Bassi lamenti o implorazioni di perdono, gemiti di dolore o semplici farneticazioni accompagnavano sempre il cammino dei carcerieri lungo il corridoio, per controllare in che condizioni fossero i prigionieri rinchiusi dietro ciascuna porta. Vespasiano, tuttavia, non faceva mai un suono, neanche quando la griglia della sua porta veniva sganciata e aperta. Aveva capito la trafila dopo il primo paio di visite e perciò non aveva bisogno di comunicare. Consegnava il secchio con gli escrementi, che veniva vuotato nel canale di scolo aperto lungo il corridoio, finendo chissà dove. Il recipiente veniva restituito sporco e puzzolente. Poi, a turno, doveva passare attraverso la griglia due dei suoi altri effetti personali: il primo, una brocca di legno, veniva restituito pieno d’acqua che, a giudicare dal sapore, non doveva essere affatto pulita se Vespasiano si fosse preso il disturbo di esaminarla. Poi veniva la scodella di legno, che ritornava contenente una polenta di granaglie e l’occasionale boccone di cartilagine o osso che vi galleggiava dentro. Una pagnotta rafferma veniva poi spinta attraverso la griglia prima di essere richiusa. Con il sostentamento ben stretto in ciascuna mano, Vespasiano tornava all’unico altro bene che possedeva: una coperta che ospitava più vita dei capelli impiastricciati sulla sua testa e dei peli di inguine, petto e volto. Di tanto in tanto della paglia umida veniva spinta dal buco per integrare il mucchio marcio su cui poggiava il suo quarto effetto personale, ma quella era l’unica differenza nella trafila. Non poteva esserne sicuro ma riteneva che la paglia arrivasse una volta al mese, dal momento che l’intervallo tra la seconda consegna e la prima era così lungo da sorprenderlo, essendosene ormai dimenticato. Non aveva la mente lucida ma pensava di ricordare almeno qualche consegna del genere. Ma che importanza aveva? L’unica certezza in quella buca sotterranea, schermata dal sole da così tanta pietra antica, era che adesso faceva più freddo e quindi all’esterno l’inverno doveva essere alle porte. Se l’esterno esisteva ancora.

E quella era una delle tante cose con cui teneva impegnata la mente al ritmo più lento possibile. Non erano i pensieri di fuga o di vita dopo la liberazione a tenerlo occupato, ma i ricordi di vita goduta e domande astratte a cui poteva non esserci risposta o che avevano una moltitudine di risposte. Intingeva adagio pezzetti di pane nella polenta e li mescolava con infinita cura nel buio assoluto, mentre rivedeva scene della sua vita, masticando il cibo metodicamente e alla velocità di un bovino narcotizzato; la sua espressione, se fosse stata visibile, cambiava con l’atmosfera di ciascun ricordo.

Con una smorfia, rievocava in dettaglio le odiose vessazioni e le percosse a cui Sabino l’aveva sottoposto da bambino. Un sorriso tenero nel ricordare l’amorevole tutela della nonna paterna, Tertulla, la donna che lo aveva allevato nella sua tenuta di Cosa, mentre i genitori erano stati in Asia per sette anni. Rimpianto mentre il declino dell’amico Caligola da giovane pieno di vita a folle despota guizzava in episodi immorali nella sua mente. Quando i tre figli balenavano nella memoria, provava un crescente orgoglio che culminava con il volto di Tito, così simile al suo, che gli sorrideva, solo per essere infranto quando appariva Flavia con l’ennesima richiesta. L’appagamento giungeva sotto forma di palpiti quando la passione per Cenis divampava dentro di lui, anche se sapeva di dover dosare quei ricordi poiché sentiva che masturbarsi in quelle circostanze poteva diventare una droga e prosciugargli quel po’ di forza vitale che gli restava.

Tuttavia, poteva ricordare senza ardore le lezioni imparate da Cenis dall’alto della sua privilegiata posizione nel cuore della politica imperiale. Come segretaria della matrona Antonia, sua benefattrice prima che la delusione per il nipote Caligola la spingesse a togliersi la vita, Cenis aveva acquisito la capacità politica per farsi abilmente strada nell’intrico di interessi personali che prevalevano nelle sfere del potere. Comprendeva l’importanza di legarsi a una fazione senza prendere le distanze dalle altre. Per lei non era mai una questione personale ma sempre e solo affari e così aveva conservato una posizione di influenza dopo che, secondo le ultime volontà di Antonia, era stata affrancata. Era sopravvissuta al resto del regno di Caligola, al subbuglio successivo al suo assassinio e all’ascesa al potere di Claudio. Negli anni seguenti, la sua capacità di rivelarsi utile sia a Pallante che a Narciso le aveva consentito di cavalcare la lotta tra i due e, come segretaria prima di Narciso e poi di Pallante, aveva guadagnato una fortuna vendendo udienze presso i due. Nessuno aveva accesso alla sede del potere se non tramite lei. Forse Vespasiano aveva sorriso nel buio nel ricordare il trauma che aveva provato quando Cenis gli aveva detto in che modo usava la propria posizione per arricchirsi; forse aveva riso nel ripensare ai modi in cui aveva applicato quella lezione sin da allora. Il denaro era molto importante per lui e tramite Cenis aveva imparato a… di nuovo la luce. Quanto era passato dall’ultima visita che ricordava?

Stavolta erano di più ma non si prese il fastidio di contarli. In una delle celle esplosero le urla mentre la sua griglia veniva aperta. Si accinse alla trafila delle ciotole e della brocca, accorgendosi a malapena di un sonoro tonfo bagnato, come se la mannaia di un macellaio avesse reciso un’articolazione. Il lamento e le urla strazianti che seguirono quasi non scalfirono la sua coscienza; quasi non notò l’odore di carne bruciata che le accompagnava, concentrato com’era sulla paglia che veniva spinta attraverso la griglia. Quindi era passato altro tempo nel mondo esterno…se ancora esisteva, s’intende.

Si trattenne dallo sprofondare la faccia nella paglia perché, malgrado fosse umida e vecchia, era la cosa più fresca che poteva annusare e gli ricordava… No, non avrebbe più commesso quell’errore. L’unica e ultima volta che l’aveva fatto, la disperazione gli aveva sorriso, fredda e cupa, una falsa amica che incombeva su di lui nel vuoto della cella, e Vespasiano aveva sentito arrivare lacrime che, se non fossero state fermate, lo avrebbero spinto nelle braccia avide di quella truffatrice.

Mescolò la polenta per ammorbidire il pane; le urla si erano calmate, diventando gemiti lamentosi, ma adesso sembravano provenire dall’altro lato del corridoio, notò apaticamente Vespasiano. Diede un morso e masticò con lentezza. Un altro compagno di prigionia in un’altra cella? In un altro momento, forse? Possibile, poiché l’ultima consegna di paglia sembrava lontana. Ma di certo non era un posto diverso, dal momento che era ancora buio e la polenta aveva ancora lo stesso sapore. Ma l’aria sembrava più calda, come se ci fosse calore nel mondo esterno…se esisteva ancora.

Annuì piano nel ricordare che quando la polenta era arrivata stava pensando alla reazione di suo zio alla bizzarra teoria riguardante ciò che gli era stato predetto. Era consapevole che non era la prima volta da quando era stato imprigionato che ripensava a quella conversazione e rimuginava sul significato di ogni segno, prodigio o auspicio collegato a quello che un tempo avrebbe potuto essere il suo destino. Quella parola non significava niente: dov’era il destino in quel singolo momento? Che spazio poteva esserci per il destino? Era quasi certo che quando aveva pensato a quei segni durante la sua esistenza fuori da quella cella, aveva messo insieme tutti gli indizi per poi rigettarne la conclusione, perché aveva significato guardare al futuro. Era una cosa che voleva ma non poteva fare.

Tuttavia il ricordo dello zio, incapace di finire le frasi, di dire “imperatore” o “porpora”, perché sentiva che quelle parole l’avrebbero automaticamente reso oggetto di attenzione, anche se nessuno poteva udirle, gli fece piacere mentre mescolava la polenta e mangiava bocconi di pane senza fretta, immerso nei pensieri.

E il pensiero si dipanava nella sua mente come un’unica sensazione, fino a che, con un sobbalzo, si sentì bussare sulla spalla destra. Aprì gli occhi e guardò davanti a sé, cieco nell’oscurità, confuso dalla provenienza di quel contatto. Poi lo sentì di nuovo, ma stavolta fu doppio. Girò adagio la testa ma non vide niente; udì, invece, un suono lontano, un suono che sembrava provenire dal mondo esterno…se ancora esisteva. Poi si spense, come se non ci fosse mai stato. Ma aveva costretto Vespasiano a mettersi in ascolto, a essere consapevole del mondo, a uscire dalla sua quiete interiore. Si irrigidì nel buio, provando una strana calma, come nei momenti che precedono una tempesta. Poi si sentì toccare di nuovo, ma stavolta era lui a battere: la spalla destra sbatteva contro il muro e stava sbattendo contro il muro perché il terreno si muoveva. Il suono dall’esterno si levò di nuovo, ma stavolta non si spense. Crebbe e crebbe proporzionalmente al tremore della terra, fino a che tutti i sensi di Vespasiano furono pieni solo di suono e movimento. E poi le cose cominciarono a cadere rumorosamente dall’alto, crollando sul pavimento di pietra tutt’intorno a lui; ma rimase accovacciato dov’era, sulla coperta sul mucchio di paglia marcia; dove si accovacciava sempre mentre dalle celle lungo il corridoio giungevano urla e il mondo intero tremava per la collera degli dèi degli inferi che urlavano la propria ira.

La quiete arrivò improvvisa e per un momento fu tutto silenzioso, perfino i lamenti disperati dalle altre celle. Ma il silenzio non durò a lungo e il suono successivo sorprese Vespasiano: era un grido di euforia, un grido non distante. E poi ricordò la storia che Sabino gli aveva raccontato, quella sul terremoto che aveva buttato giù le porte della prigione in cui Paolo di Tarso era stato rinchiuso, e si chiese vagamente se il suo dio protettore, Marte, gli fosse venuto in soccorso nello stesso modo in cui si diceva avesse fatto il dio di Paolo. Con quel pensiero, si guardò attorno e vide qualcosa che non vedeva da quando era stato scaraventato lì: vide un rettangolo grigio scuro nel nero altrimenti assoluto, vide il fioco profilo di una porta aperta. Lo fissò incredulo fino a che riuscì a formulare nella mente una preghiera a Marte per la sua liberazione.

Vespasiano si alzò sulle gambe malferme e, con le mani tese davanti a sé, si mosse verso quello che gli sembrava un faro di luce. Varcò la soglia, calpestando la porta caduta, e uscì nel corridoio nel quale alcune figure in penombra correvano verso i gradini sul lato opposto. Le grida degli sfortunati che il terremoto non aveva liberato dalla prigionia furono ignorate dai pochi fortunati che fuggivano su per le scale, oltrepassavano la porta rotta in cima e uscivano nel buio al di là.

Vespasiano avanzava strisciando i piedi più veloce che poteva lungo un corridoio scuro e disseminato di detriti, non sapendo in che direzione fosse il mondo esterno. Sapeva però da dove era venuto e considerava con diffidenza l’idea di tornarvi.

La polvere gli bruciava gli occhi e la muratura caduta minacciava le sue caviglie; ma le scosse erano terminate e sentì un barlume di speranza, una cosa che si era negato per così tanto tempo, crescere dentro di sé. Osò pensare al di là del momento. Osò pensare alla fuga.

Sospettando che i compagni di fuga avessero poca conoscenza della geografia sotterranea di Arbela quanto lui, decise di non seguirli su per una stretta scala a spirale e di usare, invece, l’istinto.

Proseguì girando a sinistra e poi a destra, servendosi del naso come guida, fiutando aria più fresca, prendendo sempre rampe di scale che salivano se si imbatteva in esse e se non erano bloccate.

E poi ci fu altra vita, altre persone e Vespasiano si rese conto che doveva evitarle perché sapeva vagamente che il proprio aspetto e la puzza l’avrebbero marchiato per quello che era. Avanzò con cautela, assicurandosi di non avvicinarsi mai troppo a nessuno, in quello che doveva essere il caos seguito all’impressionante scossa, continuando verso l’alto, verso livelli più luminosi e profumati.

Tendendo i muscoli per tirare l’anello di una porta, ebbe d’un tratto la straziante consapevolezza di non poter proseguire oltre. All’improvviso era in trappola. Il corridoio terminava con una porta chiusa di cui lui non aveva la chiave. Cominciò a farsi prendere dal panico, si era concesso di pensare alla fuga e adesso era in trappola. Sapeva che doveva calmarsi, era solo una porta chiusa a chiave. Doveva pensare, sì, pensare. E poi fu chiaro: doveva tornare indietro. E così cominciò a ripercorrere i suoi passi, trovando un altro corridoio che non aveva in fondo una porta chiusa a chiave. Adesso gli sembrava di andare contro la marea di persone ma non gli importava, poiché sapeva che lui si stava allontanando dalla porta chiusa mentre loro stavano andando verso di essa. Fece un’altra svolta a sinistra e procedette adagio lungo un passaggio in cui ardeva una torcia tremolante; passò attraverso il suo chiarore schermandosi gli occhi e proseguì fino a trovare un’altra porta: anch’essa era chiusa a chiave. Vespasiano sentì il panico crescere ancora di più e, giratosi, cominciò a correre verso la luce della torcia, tornando da dove era venuto. Cercò di pensare ma non ci riuscì; ogni pensiero che aveva sembrava terminare con una porta chiusa a chiave. Provò con un’altra e un’altra ancora: sembravano tutte bloccate. Si fece prendere sempre più dalla frenesia mentre correva di porta in porta, su e giù per corridoi che sembravano familiari e poi, quando il grido “Eccolo” penetrò il suo panico, seguito qualche istante dopo da un pugno che volava verso di lui, capì che erano senza dubbio familiari perché erano sempre gli stessi due corridoi.

Vespasiano aprì gli occhi, incerto se fosse stato appena apostrofato “proconsole” o se si trattasse di un sogno.

Era disteso a faccia in giù su un pavimento di marmo.

«Proconsole?».

Ancora, e stavolta sembrava abbastanza reale. Alzò gli occhi, strizzandoli per via della luce.

«Ah, proconsole, sei tornato con noi».

Adagio, Vespasiano mise a fuoco e l’artefice del suo tormento, re Izate, si materializzò, sorridendo allegramente malgrado le colonne crollate attorno a lui.

«Questa è una circostanza davvero provvidenziale», continuò il re, guardando raggiante la stanza gravemente danneggiata. «Immagino tu abbia pensato che il terremoto facesse parte del piano del tuo presunto dio per liberarti».

Era così ma Vespasiano non l’avrebbe ammesso con quell’uomo; non voleva che la sua prima conversazione fosse di argomento religioso. Perciò non rispose.

«Ma non sei fuggito, vero? Il carceriere dice che ti ha trovato che correvi avanti e indietro lungo due corridoi. Ma l’unico vero Dio ha il potere di aiutare coloro che lo venerano e coloro che seguono le sue leggi. Diglielo, Anania, digli di Paolo, l’uomo che battezzasti a Damasco».

Un uomo apparve ai margini del campo visivo di Vespasiano; gemette quando Anania cominciò a raccontargli la stessa storia di Sabino, quella del terremoto che aveva aperto le porte della prigione di Paolo, ma con molti più abbellimenti ed esagerazioni. Vespasiano non era dell’umore adatto.

«Perciò, vedi, proconsole», disse Izate con irritante buonumore una volta finito il racconto, «quanto provvidenziale questo terremoto è stato per te e per me. Tu non devi fare altro che accettare il battesimo in Yeshua e io potrò dire ai miei nobili che Dio ha mandato questo terremoto per liberarti da una profondissima prigione in modo che potessi seguirlo. Pensaci: i miei nobili accorrerebbero in massa al fiume battesimale se sapessero di poter avere un potere del genere dalla loro parte. E tu saresti libero, libero di vivere qui come testimone permanente della potenza dell’unico vero Dio e di suo figlio, Yeshua. Libero, proconsole, libero e salvo».

Vespasiano chiuse gli occhi; non voleva la libertà del frastornato vecchio imperatore al prezzo di rinnegare Marte. Se Marte davvero aveva in serbo un destino per lui, allora sarebbe stato Marte a condurvelo e non un dio geloso che non accettava nessun altro e insisteva perché gli uomini si mutilassero il pene. Sentì il re gridare ma non vi fece caso mentre scivolava nuovamente nella quiete che l’ira degli dèi degli inferi aveva disturbato. Ben presto si sentì trascinare via e seppe con certezza cosa avrebbe visto una volta riaperti gli occhi: sarebbe stata la stessa cosa che vedeva sempre nel momento.

E così fu, quando il martellare alla porta della sua cella, che tornava a imprigionarlo, disturbò la sua pace e lo costrinse a riaprire gli occhi. Era tornato nel momento presente; il breve barlume di speranza era infranto. Respinse l’offerta di consolazione della disperazione, l’aspirante compagna che era stata chiusa fuori dalla cella una volta riparata la porta, lasciata nel corridoio a sussurrare attraverso la griglia. Vespasiano tornò alla sua coperta e alla sua polenta, vietandosi tutte le immagini della breve incursione nel mondo esterno; riviveva sempre più scene del passato, masticando adagio il pane e succhiando le ossa, annuendo di tanto in tanto nel buio quando certe immagini gli davano piacere.

Venne la paglia, poi venne altra paglia e poi, forse, ancora altra paglia. Gli ultimi granelli di polenta furono lappati dalla lingua che li inseguiva metodicamente sul fondo della ciotola. Accertatosi di aver ingerito ogni briciolo di nutrimento del suo pasto, cominciò a succhiare l’osso che aveva lasciato per ultimo. Ancora una volta i suoi bambini – o era per la prima volta? – sfilarono davanti ai suoi occhi chiusi. Aveva progettato di fare qualcosa che poteva mettere in pericolo Tito, ne era certo. Doveva avere a che fare con Trifena. Sì, era Nerone; in qualche modo stava aiutando la causa di Nerone, ecco perché si trovava lì. Sì, era quello il motivo. Era per via dell’amicizia con Britannico che Tito sarebbe stato in pericolo se… ma era certo di aver pensato al modo di proteggerlo prima di imbarcarsi nella missione che aveva portato a quel momento.

Di nuovo la luce.

Ma non aveva ancora finito.

Aprì gli occhi e mise i resti di osso non commestibili su un mucchio di frammenti simili nell’angolo, adesso appena visibile nella fioca ma crescente luce della torcia sempre più vicina. Notò con vaga curiosità che era piuttosto grande. Il mucchio era sempre stato così? No, era impossibile; doveva essere cresciuto e lui doveva averlo alimentato con altre ossa.

Fissò il mucchio. Così tante ossa.

Un’ondata di panico lo travolse.

Quante?

Non voleva contare.

Provò un senso di oppressione al petto nel guardare la prova fisica della lunghezza di quell’unico momento. Si avventò sul mucchio con tutte e due le mani, sfasciandolo, mandando a finire le ossa sul pavimento della cella, spargendole nello sporco così che non si potessero contare.

Aveva bisogno di respirare; cercò di inspirare ma non ci riuscì.

E poi udì se stesso: stava urlando.

Un urlo incontrollato e proveniente dalla sua essenza; dal profondo di una consapevolezza che era stata sepolta nelle più profonde viscere delle prime fondamenta create dall’uomo. Era alimentata dai millenni di infelicità che avvolgevano quella fossa e risucchiava quel poco di vita di chi vi era imprigionato.

Un urlo primordiale.

Un urlo alimentato da grida all’esterno della sua cella. Grida di rabbia. Il carceriere gli urlava e lui rispondeva urlando. Non aveva comunicato con nessuno per tutto il momento in cui era stato in quelle tenebre; nel tempo che c’era voluto perché il mucchio di ossa apparisse. Nessuno aveva parlato con lui dopo Izate e anche allora non aveva risposto perché aveva chiuso fuori il mondo per conservare la sua pace. Ma adesso gli stavano urlando contro e lui rispondeva urlando. Adesso stava avendo una conversazione, stava interagendo con un altro essere umano, stava urlando e il carceriere gli stava urlando contro per questo motivo: il carceriere stava ammettendo la sua esistenza.

Così Vespasiano urlò ancora di più.

E mentre urlava, rideva. Alzò il viso al soffitto e urlò e rise, e non voleva fermarsi perché sapeva che a quel punto ci sarebbe stato solo un’amica a confortarlo.

E quell’amica era falsa perché il suo nome era disperazione.

E perciò continuò a urlare; anche quando la porta si aprì; anche quando le braccia gli vennero immobilizzate; anche quando i primi colpi si abbatterono sul suo stomaco rinsecchito e mani rozze gli tirarono i capelli. Urlò mentre il vomito gli risaliva in gola e poi urlò ancora dopo averlo spruzzato addosso ai suoi interlocutori, poiché continuavano a urlargli e lui era felice di quell’attenzione. Voleva che quella conversazione non finisse, anche se sentiva la testa esplodere di dolore quando il secchio dei liquami la colpì, inzuppandolo con il suo contenuto. E poi urlò quando vide il pavimento avvicinarsi a tutta velocità, come se fosse un amico ansioso di stringerlo in un abbraccio dopo una lunga assenza. Urlò quando lo baciò e sentì le braccia dell’amico attorno a sé e poi lanciò un urlo che sapeva che nessun altro poteva sentire; era un urlo che riecheggiava solo nella sua testa. Era un urlo che non poteva fare parte di nessuna conversazione perché era un urlo riservato solo a un uso esclusivo.

Era l’urlo della disperazione.