CAPITOLO VIII
Anche se le sue mura non erano intatte, Tigranocerta era imponente, adagiata com’era su un alto contrafforte montuoso del Masio. Incorniciata da cime innevate che svettavano alle sue spalle, la città era edificata in cerchi concentrici, ciascuno più alto del precedente, fino alla sommità della collina, sormontata da un palazzo reale degno di Caligola. Era stata fondata da re Tigrane il Grande, più di cento anni prima, quando l’Armenia era all’apice dello splendore. Era situata sulla riva occidentale del Tigri, di fronte alla confluenza del fiume con uno dei suoi tributari, il Kentrites. Era stata costruita per sorvegliare la Via Reale che costeggiava la riva orientale del Tigri, attraverso lo stretto valico di Sapphe Bezabde sul Masio; la strada poi passava sul Kentrites e si dirigeva a ovest, continuando il suo viaggio fino al Mar Egeo. Tuttavia, un esercito poteva lasciare la strada prima del ponte e seguire il Kentrites verso nord, nel cuore dell’Armenia. Per difendersi dalle incursioni del più grande ma frammentario vicino, il regno seleucide, Tigrane aveva fatto costruire altri due ponti che collegavano Tigranocerta con la strada, entrambi sul Tigri: uno che portava sulla riva est, prima che il fiume si unisse al Kentrites e curvasse di novanta gradi verso ovest, e uno dopo l’ansa che portava sulla riva nord. Dal punto di vista strategico, questo costringeva un’eventuale forza di invasione seleucide a prendere entrambi i ponti e poi la città stessa, se desiderava procedere senza una costante minaccia all’unica via di rifornimento tramite il valico di Sapphe Bezabde. L’inevitabile e prolungato processo d’assedio dava a Tigrane il tempo di mettere insieme il suo esercito e marciare a sud per respingere gli invasori seleucidi. Ma quelle vestigia dell’impero di Alessandro erano state dilaniate da Roma e dalla Partia, sin dalla nascita di quelle due superpotenze, e Tigranocerta era passata di mano più volte, occupata sia dall’una che dall’altra fino all’insediamento più recente, che l’aveva restituita all’Armenia, a condizione che le sue difese restassero in rovina. Condizione che ormai era venuta meno, con grande sollievo della sua ridotta popolazione.
«Questa mattina Peligno si è lagnato con me del fatto che le sue preziose truppe vengono usate per quello che definisce lavoro “da schiavi”», disse Vespasiano mentre insieme a Magno faceva un giro dei lavori il quinto giorno dopo il loro arrivo. Ausiliari lavoravano fianco a fianco con tutti i cittadini abili, mentre donne e bambini si occupavano di rifornire gli uomini di cibo e acqua.
«Questo dimostra quanto poco sa di vita militare», replicò Magno masticando una cipolla. «Cosa gli hai risposto?»
«Gli ho suggerito di rivolgere i suo reclami all’ufficiale in comando e ho osservato che tra tutti lui probabilmente era quello a cui avrebbe dato più ascolto».
Magno rise, spruzzando cipolla sui polpacci di un ausiliario che lavorava in ginocchio. L’uomo si girò, pronto a inveire, ma la protesta morì sulle sue labbra quando vide il responsabile. Sin dal sacco di Amida, dieci giorni prima, Vespasiano e Magno erano diventati oggetto della curiosità degli ausiliari. Era risaputo che Vespasiano aveva impedito a Peligno di dare agli uomini due giornate di riposo – uno dei centurioni doveva aver parlato – ed era anche risaputo che aveva raccomandato alcune esecuzioni per riportare gli uomini all’ordine. Più di venti avevano perso la vita. Questo aveva reso Vespasiano temibile: un uomo che apparentemente non deteneva alcun comando eppure poteva mandare a morte e prevalere sul loro comandante. Essendo ausiliari cresciuti in Cappadocia, nessuno di essi riconosceva Vespasiano, che a Roma era diventato un volto familiare nel Foro grazie al mandato di console, anche se per solo due mesi. Qui, però, tra le colline pedemontane meridionali dei monti del Masio, tra il Tigri e l’Eufrate, era diverso. Perciò i soldati semplici non conoscevano l’identità di Vespasiano e gli ufficiali, se la conoscevano, la tenevano per sé, essendo stati avvertiti in tal senso.
Tuttavia, gli ausiliari avevano preoccupazioni più pressanti dell’identità dell’uomo che esercitava potere di vita o di morte: per quale motivo stavano fortificando una città, dietro le cui mura ricostruite dovevano aspettare un esercito partico che si diceva fosse diretto lì e che avrebbe senza dubbio superato la piccola forza romana con una proporzione nell’ordine delle decine di migliaia? Ma la domanda non riceveva risposta mentre centurioni e optiones vessavano loro e i civili perché lavorassero più sodo, più veloce e più a lungo, trascinassero pietre, modellassero pietre, sollevassero pietre, posizionassero pietre e facessero con le pietre tutto quello che poteva essere concepito perfino dai centurioni più fantasiosi.
Nel giro di cinque giorni, i quattromila uomini delle cinque coorti e più o meno altrettanti cittadini avevano riparato in modo discreto gran parte delle grosse brecce nelle due miglia di mura, che ancora una volta si ergevano per venti piedi e ininterrotte attorno all’intera città. Adesso gli uomini si stavano dedicando ai danni minori nella speranza di riportare le difese a uno stato di perfezione quasi assoluta, così che l’orda in arrivo da sud si sarebbe infranta sulle mura.
«Poi ha detto», continuò Vespasiano, «che dovremmo almeno ridurre il numero di ore passate ogni giorno a riparare le difese da dodici a sei».
Magno alzò lo sguardo sul palazzo reale che dominava l’intera città. «Perciò Peligno sta ancora cercando di rendersi popolare tra gli uomini? Proprio non capisco perché si prenda il disturbo. Nessuno di loro mostrerà mai al gobbo più rispetto di quanto è dovuto al suo rango. Vuole comprarne il favore allentando la presa sulla disciplina, cosa che, naturalmente, li renderà soldati più deboli e negligenti. E sono quelli che in genere finiscono per morire. Chi vuole essere popolare con i morti?»
«Giusto. Penso che se non ci fossi stato io, Peligno avrebbe quattromila uomini ubriachi e torvi con cui difendere Tigranocerta dai parti».
Magno aggrottò la fronte, perplesso. «Da quello che riesco a capire, se tu non fossi qui, allora non ci sarebbe nessuno di noi. E comunque sto ancora cercando di comprendere perché siamo qui».
Vespasiano si fermò e guardò a sud, schermandosi gli occhi dal sole di mezzogiorno, verso il valico di Sapphe Bezabde, con il Tigri che riluceva in basso, la Via Reale parallela alla sua sponda orientale; dall’altro lato, a una distanza di circa trenta miglia, il valico si apriva nella satrapia di Adiabene, in quella che un tempo era l’Assiria. «Siamo qui perché vogliamo che i parti ci attacchino. Si è mai sentito di una guerra senza che qualcuno attacchi qualcun altro?»
«Sì, ma perché vogliamo che i parti ci attacchino? E a questo punto perché non abbiamo portato abbastanza uomini per combattere una vera battaglia?»
«Noi non vogliamo una vera battaglia. Nelle battaglie vere un sacco di uomini rischiano di essere uccisi».
«Oh, quindi se siamo in inferiorità numerica di dieci a uno vengono uccisi meno ragazzi dei nostri che non in uno scontro alla pari. È questo che vuoi dire?»
«Proprio così».
«Quindi ne sai ancora meno di Peligno di tattiche militari».
«Lo vedremo molto presto», replicò adagio Vespasiano stringendo gli occhi.
Magno seguì il suo sguardo verso l’orizzonte sud e poi, dopo qualche momento, vide anche lui cosa aveva attirato l’attenzione dell’amico. «Che mi fottano!».
«Penso che saremo tutti fin troppo occupati per accettare la tua gentilissima offerta». Vespasiano distolse lo sguardo dalla nuvola di polvere che offuscava l’orizzonte.
«Direi che hai ragione», convenne Magno, anche lui con lo sguardo fisso sulla macchia marrone nel limpido cielo azzurro.
Rimasero entrambi a guardare in lontananza perché, anche se erano circa trenta o quaranta miglia, capivano che la nuvola non era causata da una mandria di bestiame o una carovana commerciale; no, era troppo grande, fin troppo grande per essere una legione o addirittura due. Quella era la nuvola di polvere sollevata da un esercito immenso.
I parti erano arrivati e lo avevano fatto in massa.
«Dovremmo andarcene immediatamente!», strillò Giulio Peligno, ritraendosi, come se l’avessero preso a pugni, alla vista dell’orda in arrivo.
«E dove?», chiese Vespasiano. «Anche se distano ancora due giorni di marcia, se volessero, ci raggiungerebbero in campo aperto. E sono sicuro che lo vorrebbero; la loro cavalleria è in grado di muoversi molto più veloce della nostra fanteria. Siamo più al sicuro qui dentro; la cavalleria pesante è inutile in un assedio, poco importa quanti siano, e i loro arcieri a cavallo scoccheranno frecce solo da lontano. Per quanto riguarda la loro fanteria, saranno per lo più coscritti che non vengono trattati meglio degli schiavi e che preferirebbero trovarsi ovunque fuorché qui».
Peligno guardò Vespasiano, battendo rapidamente le palpebre come per scacciare granelli di polvere dagli occhi. «Ma ci travolgeranno».
«Come? Abbiamo uomini in abbondanza per presidiare le mura adesso che sono state ricostruite. I loro numeri ci importano poco. Anzi, ci sono d’aiuto».
Peligno rise di scherno. «D’aiuto?»
«Certo, Peligno. In che modo sfameranno quell’enorme esercito, eh? I raccolti non sono neanche spuntati. Non saranno in grado di restare qui per più di mezza luna. Ora, ti suggerisco di usare il tempo prima che arrivino per mandare fuori squadre di approvvigionamento perché trovino tutto ciò che è commestibile nel raggio di dieci miglia e lo portino entro le mura. E controlla anche che tutte le cisterne siano piene».
«Continuo a pensare che dovremmo andarcene».
«E io ti suggerisco di restare, se ci tieni a vivere, s’intende».
Lo sguardo di Peligno guizzò sulle facce dei suoi prefetti, ciascuno con un bagaglio di esperienza in Oriente, e tutti annuirono concordi con l’analisi della situazione di Vespasiano. «Molto bene. Ci prepariamo a un assedio. Prefetti, mandate le squadre di approvvigionamento, tutti gli uomini che possiamo sottrarre agli ultimi lavori sulle mura. E che il consiglio cittadino arresti chiunque sia sospettato di sentimenti filo-partici o antiromani».
«Questa è una decisione molto saggia, procuratore», osservò Vespasiano senza traccia di ironia.
Due giorni dopo, l’intera lunghezza del passo di Sapphe Bezabde era piena di uomini e cavalli; ma questa enorme orda non era un’ombra scura sul paesaggio bensì una profusione di colori vivaci. Vivide tonalità di ogni sfumatura adornavano sia uomini che cavalli, come se tutti ambissero a spiccare in un esercito in cui farsi notare era equiparato al valore militare. Stendardi col disegno di strani animali sventolavano tra la moltitudine, aggiungendo ancora più colore e dando a Vespasiano, che a suo tempo aveva visto l’abbigliamento militare di numerosi popoli, l’impressione di trovarsi davanti a una cultura totalmente sconosciuta.
Gli ausiliari, squallidi in contrasto con il nemico in arrivo, erano allineati lungo le mura di Tigranocerta in ordinate file con tuniche color ruggine e brunita cotta di maglia, l’espressione arcigna e fissa mentre guardavano un gruppo di circa dodici cavalieri attraversare il ponte da est a ovest e poi farsi strada senza fretta su per la collina, diretti all’ingresso principale chiedendo una tregua. Ciascun cavaliere aveva uno schiavo che si affannava per stargli al passo reggendo un ampio parasole sulla testa del padrone, anche se il sole doveva ancora penetrare la coltre di nuvole.
Vespasiano era accanto a Magno, insieme a Peligno e i suoi prefetti, sulle mura al di sopra delle porte quando la delegazione si fermò a un tiro di sasso: una linea di uomini barbuti, nobili, in sella a destrieri dalle favolose bardature, la cui ricchezza era superata dagli abiti dei cavalieri. Spille di grande valore, con pietre preziose incastonate in oro lavorato, chiudevano vivaci mantelli bordati d’argento su tuniche decorate di ricchi ricami che uno schiavo esperto avrebbe impiegato mesi a realizzare. Calzoni di colore contrastante erano infilati in stivali a metà polpaccio di cuoio rosso o grigiastro che sembravano elastici quanto la pelle che proteggevano. Occhi scuri scrutavano solenni sotto sopracciglia tinte come le barbe ricciolute e appuntite che scendevano da ciascun mento. Il sontuoso aspetto della delegazione era completato da un appariscente copricapo costellato di perle e ambra e poi venato di fili d’oro.
«Non può alzarsi di corsa dal letto ogni mattina», borbottò Magno quando un uomo, dall’abbigliamento ancora più elaborato dei suoi compagni, la barba di un rosso brillante, spronò il cavallo e andò ad apostrofare la guarnigione in attesa.
«Io sono Babak», esclamò il nobile in fluente greco, «il satrapo di Ninive; gli occhi, le orecchie e la voce del re Izate di Monobazo dell’Adiabene, leale vassallo di Vologase, il Grande Re di tutti i re dell’impero partico. A chi mi sto rivolgendo?».
Peligno gonfiò il petto e si fece avanti, lanciando un’occhiata involontaria a Vespasiano, che annuì concorde.
«Io, Giulio Peligno, procuratore della Cappadocia, comando qui», gridò Peligno in un greco sgrammaticato. «Cosa tu vuoi, Babak, Ninive di satrapo?».
Se pure Babak rimase sorpreso dal livello del greco di Peligno, era fin troppo educato per darlo a vedere. Adesso Vespasiano capiva perché il procuratore si era rivolto in latino ai suoi soldati.
Babak indicò le mura ricostruite. «Le notizie che mi sono state riferite non erano infondate».
Peligno parve momentaneamente confuso mentre cercava di tradurre mentalmente; poi i suoi occhi si illuminarono. «Quale notizia da portare hai trovato?».
Babak aggrottò la fronte e poi alzò la mano per zittire il mormorio dei nobili che erano con lui. «Io non porto alcuna notizia, Peligno, solo una richiesta. Smantellate quanto avete ricostruito e tornerete vivi in Cappadocia».
Si capiva che quella frase era troppo complicata per Peligno e, mentre si affannava a capirne il significato, Vespasiano venne avanti per subentrare nella trattativa prima che ci fosse un disastroso errore di traduzione. «Onorato Babak, satrapo di Ninive, posso parlare per tutti senza timore di incomprensioni. Noi siamo qui per salvaguardare il confine del regno cliente dell’imperatore, l’Armenia, fino a che prevarrà uno stato di incertezza».
«Avete ricostruito le mura di Tigranocerta. Questo è certo. Allo stesso modo, è certo che avete contravvenuto al nostro trattato. Devo chiedervi di disfare ciò che avete fatto e andarvene».
«E se noi lo facciamo, Babak, andrai via anche tu col tuo esercito o resterai a imporre la volontà del tuo padrone su questo regno legandolo di più alla Partia?»
«Anche se il mio padrone Izate ha di recente abbracciato il giudaismo, io resto un seguace di Assur, il legittimo dio dell’Assiria, e continuo a combattere hitu, il Falso, con kettu, la Verità. Non disonorerò il Signore Assu né me stesso o te, romano, con una menzogna: no, non ce ne andremo. Presidieremo Tigranocerta e poi partiremo per Artaxata, dove solleveremo questo Radamisto, sostituendolo con Tiridate, il fratello più giovane del Re dei Re Vologase, come egli stesso ha ordinato».
Vespasiano sorrise tra sé, colpito dall’accurata previsione degli eventi fatta da Trifena. «Ti ringrazio per la tua onestà, Babak. Sono sicuro che comprenderai la nostra posizione: se voi non andate via, non possiamo farlo neanche noi. Non fino a che l’onore non sarà stato soddisfatto. Tuttavia, Babak, non saremo noi a lanciare il primo giavellotto né a scoccare la prima freccia».
Babak annuì come se non fosse sorpreso della risposta ricevuta e si rigirò la punta della barba. «E sia, allora. Diamo soddisfazione al nostro onore. Mi preparerò per la battaglia». Con un abile colpo di redini, girò il cavallo e ripartì al piccolo trotto giù per la collina; i nobili lo seguirono lasciando gli schiavi con il parasole a correre in tutta fretta dietro ai loro padroni tra le grida di scherno degli ausiliari lungo le mura di Tigranocerta.
«Be’, gliel’hai cantata», osservò Magno quando striduli squilli di corno risuonarono dall’orda partica. «L’hai mandato via con la coda tra le gambe a cambiarsi d’abito, sicuramente per la quarta volta oggi».
«Onore da soddisfare? Cosa significa, Vespasiano? A cosa ci hai condannati?», sibilò Peligno. Evidentemente il suo greco era sufficiente a comprendere quell’espressione.
«Niente che non possiamo affrontare. Ti suggerisco di ordinare ai tuoi prefetti di far preparare gli uomini, radunare la milizia urbana e distribuire loro archi e giavellotti».
«Fallo tu, visto che tutto questo sembra essere un tuo suggerimento». Con un’occhiataccia sospettosa, Peligno se ne andò via impettito.
Vespasiano chiamò a sé i prefetti. «Signori, il nostro stimato procuratore ha lasciato a me il compito di dare disposizioni, cosa che ritengo, date le circostanze, una decisione molto saggia e previdente».
«Nel senso che non ha idea di cosa fare?», domandò il prefetto Mannio.
«È lui quello che può meglio giudicare le sue capacità». Vespasiano soffocò un sorriso. «Mannio, la tua i Bosporanorum prende questo settore meridionale di mura». Guardò gli altri quattro prefetti. «Scapula, quello a est, Basso a ovest, Cotta quello a nord e tu, Fregallano, terrai i tuoi ragazzi come riserva. Tutti quanti monterete le baliste sulle mura; fissatele bene, non avremo bisogno di smantellarle poiché non le porteremo con noi quando ce ne andremo».
«Quando ce ne andremo?», domandò Mannio.
«Sì, Mannio, quando ce ne andremo». Il tono di Vespasiano dichiarava chiusa ogni ulteriore discussione a tale proposito. «Dividetevi in modo uguale la milizia urbana fino a che non ci faremo un’idea su quale parte delle mura i parti rivolgeranno la loro attenzione».
«Con un esercito di quelle dimensioni, le attaccheranno tutte quante contemporaneamente», commentò aspro Fregallano, un veterano dall’aria vissuta con un naso che sembrava prendergli metà della faccia.
Vespasiano gli rivolse un sorriso benevolo. «Allora dividerli equamente tra le mura adesso è la decisione giusta». Lanciò un’occhiata a sud, al nemico. C’era molto movimento tra i ranghi mentre unità di cavalleria leggera e pesante si staccavano da ciascun lato, seguite da decine e decine di carri coperti. «Vi suggerisco, signori, di tenere una metà dei vostri uomini a riposo e l’altra metà di guardia, a rotazione ogni quattro ore. Disponete che le donne installino le cucine ogni duecento passi e dite loro di tenere accesi i fuochi di cottura giorno e notte. Non voglio che nessuno dei ragazzi si lamenti di andare a combattere a stomaco vuoto. Voglio inoltre squadre di ragazzi e uomini più vecchi pronti con attrezzature per spegnere gli incendi, poiché immagino che Babak cercherà di infiammare la situazione. Sarebbe sgarbato non ricambiare il favore, perciò fate scaldare quanto più olio e sabbia possibile nel caso tentino di scalare le mura».
I cinque prefetti salutarono con vari livelli di entusiasmo, anche se Vespasiano ritenne che avrebbero fatto il proprio dovere, e si separarono per eseguire gli ordini ricevuti. Vespasiano raggiunse Magno che osservava lo svolgersi delle manovre dell’esercito partico. La cavalleria stava ancora dividendosi a destra e sinistra, ma i parti non stavano facendo alcun tentativo di accerchiare la città. Una colonna stava attraversando il ponte per la riva occidentale, per poi smontare, allestire le tende e fermare i carri coperti su una collina erbosa mezzo miglio a sud della città; un’altra colonna invece si dirigeva a nord, oltre Tigranocerta, seguendo il Kentrites verso il valico per la successiva catena montuosa, a una cinquantina di miglia di distanza, che portava al lago Thospitis e al cuore dell’Armenia.
«Babak non sembra molto interessato a usare la cavalleria», osservò Magno mentre sempre più soldati sparivano a nord.
«Penso che lo capiremo molto presto», replicò Vespasiano, scrutando oltre il passo di Sapphe Bezabde. «Anzi, adesso».
Magno si schermò gli occhi e li strizzò mentre gli ultimi cavalieri abbandonavano il passo, lasciandosi dietro un corpo di fanteria che doveva superare i difensori di Tigranocerta in una proporzione di almeno cinque o sei a uno e, alle loro spalle, altrettanti schiavi. «Che mi fottano!».
Vespasiano, ancora una volta, declinò l’offerta.
Per il resto della giornata, la fanteria coscritta dei parti e gli schiavi attraversarono il ponte diretti alla sponda occidentale e sciamarono come formiche attorno alle mura di Tigranocerta, appena nel raggio d’azione degli archi e ben addentro quello delle carrobaliste che, per metà pomeriggio erano tutte pronte. Vespasiano, tuttavia, mantenne la parola data e non diede l’ordine di lanciare; sapeva che era essenziale per il piano di Trifena che Roma non fosse vista come l’aggressore, e più aveva pensato al suo piano più era cresciuta la determinazione a portarlo a una conclusione vittoriosa.
Quando gli ultimi soldati parti ebbero superato il ponte, le due campate centrali furono distrutte per rendere impossibile la ritirata.
«Be’, questo rende ben chiare le intenzioni di Babak», rifletté Vespasiano. «Non vuole dare ai suoi coscritti la possibilità di fuggire. Eccellente».
Magno sembrava cupo. «Avresti dovuto proteggere il ponte».
Vespasiano era irriducibile. «Sto cercando di fare questa cosa con una perdita minima di vite. Prima o poi, la loro cavalleria pesante avrebbe forzato un attraversamento e infine la cavalleria leggera avrebbe travolto i nostri in ritirata prima che raggiungessero la città. Quello che abbiamo adesso è il medesimo risultato: un assedio ma senza aver perso uomini. E sono molto felice di guardarli mentre si mettono in posizione».
E così i parti disposero le loro linee d’assedio indisturbati. Quando scese la notte, furono accese migliaia di torce così che le grandi opere potessero continuare alla luce dorata che circondava la città come un alone. Con lavoro indefesso e pungolate dalle vessazioni dei loro ufficiali o dalle fruste dei supervisori, le figure in controluce spianavano il terreno, scavavano trincee ed erigevano parapetti, sotto lo sguardo delle sentinelle di turno sulle mura, i cui volti illuminati dalla guizzante luce delle torce apparivano determinati a rendere vano tutto il lavoro del nemico.
Vespasiano si ritirò in una stanza nel palazzo in cima alla città e dormì, sapendo che nei giorni a venire avrebbe avuto pochissimo tempo per farlo. Quando all’alba Hormus gli portò una fumante tazza di vino, si alzò e indossò la sua armatura, sentendosi fresco e pronto per la prova imminente. Sorseggiando la bevanda mattutina, scostò le tende che si gonfiavano delicatamente e uscì su un terrazzo rivolto a sud. Il suo sguardo vagò giù per il pendio di tetti piatti punteggiato di strade transitabili e vicoli, al di là delle mura con artiglieria e sentinelle, fino al frutto del lavoro di un giorno e una notte realizzato con incessante fatica dei parti. E la vista gli mozzò il fiato: la città era circondata da una cicatrice marrone impressa nella verdeggiante erba delle colline pedemontane del Masio; ma non fu l’entità delle opere né la velocità con cui erano state completate o le migliaia di soldati in attesa al loro interno a lasciarlo attonito, bensì quello che c’era dietro. Decine e decine di macchine d’assedio che erano state smontate per la marcia venivano riassemblate dagli schiavi nella luce crescente. Ma non si trattava delle leggere carrobaliste montate su carri trainati da muli con cui viaggiavano gli ausiliari; queste erano molto più pesanti. Tozze e possenti, con una capacità di scalciare come i muli da cui prendevano il nome, i bracci degli onagri erano in grado di scagliare enormi rocce per fracassare mura e, stando alle informazioni di Trifena, di lanciare un’arma di gran lunga più spaventosa. Un’arma tipica dell’Oriente di cui Vespasiano aveva sentito parlare ma mai visto usare. Un’occhiata alle pile di vasi di terracotta, accanto ai mucchi di sassi tondi dietro ai temibili macchinari, gli disse che presto avrebbe assistito alla potenza distruttrice di quella strana sostanza, che aveva preso il nome da Apam Napat, la terza e meno importante divinità della trinità della religione zoroastriana dei parti. Mitra e Ahura Mazda, il creatore non creato, erano le altre due.
«Non disfare i bagagli, Hormus», disse Vespasiano, provando a sorseggiare la bevanda bollente. «Con quanto hanno messo in campo, l’onore potrebbe essere soddisfatto prima del previsto».
«Padrone?»
«Potremmo dover partire in fretta e furia». Vespasiano alzò lo sguardo e scrutò le montagne che svettavano maestose dai contrafforti e creavano la barriera naturale tra l’Armenia e l’impero partico. «Un vero peccato; è una bellissima regione, non credi, Hormus?».
Hormus si grattò l’accenno di barba, con cui cercava invano di mascherare il mento sfuggente, mentre contemplava il paesaggio; non sapeva bene come replicare, dal momento che di rado il padrone gli chiedeva la sua opinione su qualcosa che non fosse l’ordine di precedenza con cui dovevano essere ricevuti i clienti. «Se lo dici tu, padrone».
Vespasiano guardò accigliato lo schiavo. «Certo che lo dico. Ma tu dovresti avere un’opinione tua sull’argomento e non semplicemente accettare la mia». Indicò quella bellezza naturale che dominava la vista, sminuendo lo sfregio, relativamente insignificante, che la bellicosità umana aveva provocato sul terreno. «Questo dovrebbe dirti qualcosa, Hormus; dopo tutto, è da qui che proveniva la tua famiglia. Mi hai parlato dell’Armenia, giusto?».
Il sorriso di Hormus fu stentato sotto l’accenno di barba. «Da qualche parte nei pressi dell’Armenia, ma non so dove. Mia madre me lo disse nel suo idioma ma, quando lei morì, dimenticai quella lingua, dal momento che non aveva più alcuna utilità, e con essa ho dimenticato il nome della mia terra».
«Ti ritornerà alla mente se lo sentirai di nuovo», gli assicurò Vespasiano, sperando poi di sbagliarsi. Non voleva risvegliare un senso di appartenenza in Hormus, preferendo che lo schiavo fosse docile e mite; no, forse neanche la mitezza era qualcosa da desiderare per lui.
Si sentì grattare alla porta e Hormus attraversò la stanza; i suoi passi erano attutiti dai sontuosi tappeti rosso carico, blu e color terra d’ombra disseminati sul pavimento.
«Farai meglio a venire in fretta, signore», disse Magno quando la porta si aprì. Indossava la cotta di maglia di un ausiliario. «Peligno ha visto che i parti hanno a disposizione l’artiglieria seria e non vuole più giocare, se capisci cosa intendo».
«Capisco. Dov’è?»
«Mannio l’ha beccato mentre cercava di sgattaiolare dalle porte. Lo tiene in stato di arresto nel corpo di guardia».
«Non avete alcun diritto di trattenermi!», strillò Peligno quando Mannio fece entrare Vespasiano e Magno nella piccola stanza in cui era detenuto il comandante nominale della spedizione.
Senza fermarsi, Vespasiano schiaffeggiò Peligno come se stesse punendo una schiava recalcitrante. «Adesso ascolta, avido verme, ti farò qualsiasi cosa vorrò se cerchi di andare di nuovo dal nemico. Potrei perfino appenderti a una croce e vedere se serve a raddrizzarti la schiena».
«Non puoi farlo, sono un cittadino romano».
«Forse dimenticherò quel particolare proprio come sembra tu abbia dimenticato a chi sei leale. Cosa stavi cercando di ottenere?».
Peligno si sfregò la guancia arrossata, che si stava gonfiando. «Volevo salvarci. Sono in migliaia e hanno l’artiglieria».
«Certo che hanno l’artiglieria, ma sanno usarla?». Afferrò il procuratore per un braccio e lo trascinò via dalla stanza, oltre le guardie alla porta, incapaci di nascondere il proprio divertimento a quella scena. Salirono su per i gradini di pietra accanto alle porte che conducevano ai camminamenti che scorrevano dietro i parapetti merlati. Magno e Mannio li seguirono, ma prima il prefetto sanzionò le due guardie per aver mancato di rispetto a un ufficiale.
Vespasiano prese il mento di Peligno in una morsa crudele e lo costrinse a guardare attraverso la merlatura le linee nemiche. «Guarda laggiù, procuratore, sono migliaia, come hai detto tu, ma sono coscritti. Nessuno di essi ha avuto alcun tipo di addestramento a parte sapere quale estremità di una freccia o un giavellotto puntare contro il nemico. Fanno impressione ma non sono niente in confronto ai nostri ragazzi; sono solo bestiame, un gregge da far avanzare, sapendo che non possono ritirarsi perché il ponte è rotto. Le loro truppe migliori sono quelle della cavalleria, metà della quale è scomparsa a nord e l’altra metà è seduta su quella collina, e a parte scoccare frecce, non prenderà più parte all’azione degli spettatori del Circo Massimo. Parliamo dell’artiglieria: anche se aprono una breccia nelle mura, chi la assalterà? L’ottima fanteria partica? Gli Immortali e i melofori sono con il loro Re dei Re. Questo Babak è solo un satrapo di un re cliente, non abbiamo nulla da temere dalla sua fanteria».
A quell’ultima parola, una singola freccia si levò nel cielo, lasciando una sottile scia di fumo sull’orda nemica. Un possente boato eruppe dalle linee d’assedio, seguito dallo scoccare in massa delle migliaia di arcieri, e Vespasiano seppe che la verità delle sue affermazioni stava per essere testata mentre il cielo diventava scuro per le decine di migliaia di frecce.
L’assalto dei parti a Tigranocerta era cominciato.