Capitolo I

Persistente e acuto, il grido riecheggiò tra le mura e le colonne di marmo dell’atrio; un tormento per coloro che dovevano sopportarlo.

Tito Flavio Vespasiano digrignò i denti, deciso a restare indifferente al pietoso gemito che si levava e poi calava, cessando di tanto in tanto per un affannoso respiro, prima di esplodere di nuovo a pieni polmoni con rinnovato vigore. La sofferenza che trasmetteva doveva essere affrontata e Vespasiano sapeva che se gli fosse mancato il coraggio, avrebbe perso lo scontro di volontà in atto. E quella era una cosa che non poteva permettersi di fare.

Una nuova cacofonia di angoscia giunse dal fagotto fremente tra le braccia della moglie e i suoi movimenti furono illuminati dal tremolante chiarore del fuoco di ciocchi che crepitava e scoppiettava nel focolare dell’atrio. Vespasiano fece una smorfia e poi alzò la testa e piegò il braccio sinistro davanti a sé mentre lo schiavo personale gli drappeggiava la toga attorno al corpo muscoloso e compatto, sotto lo sguardo di Tito, il figlio undicenne.

Con il pesante indumento di lana finalmente disposto in modo soddisfacente e gli ululati che non davano segno di diminuire, Vespasiano indossò le calzature senatoriali di cuoio rosso che lo schiavo gli porgeva.

«I talloni, Hormus». Hormus fece scorrere un dito attorno al retro di ciascun stivaletto in modo che i piedi del padrone fossero ben calzati. Poi si alzò e indietreggiò con deferenza, lasciando Tito al cospetto del padre.

Facendo del suo meglio per restare calmo mentre il frastuono raggiungeva nuove vette, Vespasiano osservò Tito per qualche momento. «L’imperatore continua a venire ogni giorno per controllare i progressi di suo figlio?»

«Quasi tutti i giorni, padre. E oltre a Britannico, fa domande anche a me e agli altri ragazzi».

Vespasiano trasalì a uno strillo particolarmente acuto e si sforzò di ignorarlo. «Cosa succede se sbagliate?»

«Sosibio ci picchia dopo che Claudio se n’è andato».

Vespasiano nascose al figlio l’opinione, affatto favorevole, che aveva del grammaticus. Erano state le mendaci accuse di Sosibio, su richiesta di Messalina, che tre anni prima avevano messo in moto la serie di eventi culminati con la falsa testimonianza di Vespasiano contro l’ex console, Asiatico, allo scopo di proteggere suo fratello, Sabino. Servendosi di Vespasiano come strumento consenziente, tuttavia, Asiatico aveva avuto la sua vendetta dalla tomba e Messalina era stata giustiziata. Vespasiano era stato presente mentre Messalina strillava e imprecava fino all’ultimo respiro. Ma Sosibio era ancora al suo posto, dal momento che le accuse montate erano state corroborate dalla falsa testimonianza di Vespasiano.

«Vi picchia spesso?».

Il volto di Tito si indurì in un’espressione sofferta, sorprendendo Vespasiano per quanto il figlio gli somigliava. Il naso grosso non così pronunciato, i lobi non così lunghi, la mascella non così forte e la testa piena di capelli invece della mezza corona attorno alla cima; ma non ci si poteva sbagliare: Tito era suo figlio. «Sì, padre, ma Britannico dice che è perché la sua matrigna, l’imperatrice, gli ha ordinato di farlo».

«Allora negate ad Agrippina quel piacere e assicuratevi che Sosibio non abbia motivo di picchiarvi oggi».

«Se lo fa, sarà l’ultima volta. Britannico ha pensato a un modo per farlo mandare via e al tempo stesso insultare il suo fratellastro».

Vespasiano arruffò i capelli di Tito. «Non farti coinvolgere in alcuna faida tra Britannico e Nerone».

«Sosterrò sempre il mio amico, padre».

«Solo assicurati di essere discreto». Vespasiano prese nella mano il mento del ragazzo e gli esaminò il viso. «È pericoloso, capisci?».

Tito annuì adagio. «Sì, padre, credo di sì».

«Bene, va’ adesso. Hormus, accompagna Tito alla sua scorta. I ragazzi di Magno stanno aspettando?»

«Sì, padrone».

Mentre Hormus conduceva via Tito, gli strilli continuarono. Vespasiano si voltò verso Flavia Domitilla, sua moglie da dodici anni. Lei sedeva fissando il fuoco senza fare niente per confortare il neonato tra le braccia. «Se davvero vuoi che i miei clienti ti scambino per la nutrice quando li faccio entrare per la salutatio mattutina, mia cara, allora ti suggerisco di attaccarti al seno il piccolo Domiziano e cantargli ninnananne galliche».

Flavia sbuffò col naso e continuò a fissare le fiamme. «Per lo meno penseranno che possiamo permetterci una nutrice gallica».

Vespasiano spinse in avanti la testa, perplesso, incapace di credere a quanto aveva appena udito. «Di cosa stai parlando, donna? Abbiamo una nutrice gallica; è solo che stamattina hai scelto di non chiamarla e sembri invece decisa a far morire di fame il bambino». Per sottolineare il suo ragionamento, prese un pezzo di pane della colazione da poco abbandonata, lo intinse nella ciotola di olio d’oliva e prese a masticarlo con gusto.

«Non è gallica! È spagnola».

Vespasiano soffocò un sospiro di esasperazione. «Sì, viene dall’Hispania ma è una celta, una celtibera. Appartiene alla stessa razza di grossi uomini delle tribù che tutte le più raffinate donne di Roma scelgono per fare allattare i propri figli. È solo che quando i suoi antenati varcarono il Reno, non si fermarono in Gallia ma continuarono al di là delle montagne, fino in Hispania».

«E perciò produce latte così acquoso che neanche un gattino sopravviverebbe».

«Il suo latte non è diverso da quello di qualsiasi altra celta».

«Tua nipote si fida ciecamente della sua donna allobrogia».

«Come Lucio Giunio Peto sceglie di viziare sua moglie è affare suo. A ogni modo, secondo me, lasciare che un neonato patisca la fame perché la sua nutrice non proviene da una delle più eleganti tribù celtiche è l’azione di una madre irresponsabile».

«E secondo me, trascinare una moglie a vivere nello squallore del Quirinale e poi non consentirle di comprare il personale di cui ha bisogno per occuparsi della famiglia è l’azione di un marito e padre insensibile e senza cuore».

Vespasiano sorrise tra sé ma mantenne un’espressione neutra, adesso che erano giunti al cuore del problema. Due anni e mezzo prima Vespasiano aveva sfruttato i suoi buoni rapporti con Pallante, mentre il liberto si conquistava la posizione più prestigiosa alla corte di Claudio, per allontanare Flavia e i loro figli dall’appartamento nel palazzo imperiale, dove avevano vissuto per gran parte dei quattro anni che aveva passato come legato della ii Augusta in Britannia. La soluzione era stata proposta da Claudio apparentemente perché i rispettivi figli potessero essere educati insieme e anche perché Messalina, all’epoca moglie di Claudio, avesse compagnia a palazzo. Tuttavia Vespasiano sapeva che era stato il fratello di Messalina, Corvo, a manipolare l’imperatore in tal senso così da avere potere di vita e di morte su Flavia e i loro figli. Dopo la morte violenta di Messalina, Pallante aveva mantenuto la promessa di persuadere Claudio affinché consentisse a Vespasiano di trasferire la famiglia in una casa in Via del Melograno, sul Quirinale, vicino a quella di suo zio, il senatore Gaio Vespasio Pollione.

La cosa non aveva fatto piacere a Flavia.

«Se consideri insensibile proteggere la mia famiglia dai danni della politica imperiale e senza cuore essere oculato col denaro, in modo da non essere soggetto alle frivolezze delle signore alla moda, allora mia cara hai compreso il mio carattere alla perfezione. È già abbastanza brutto che Tito vada al palazzo ogni giorno per studiare con Britannico, ma questo è stato il prezzo imposto da Claudio per consentire il vostro trasferimento; avendo fatto giustiziare la madre del ragazzo, non voleva che il figlio venisse privato anche del suo piccolo compagno di giochi. Di certo il fatto che nostro figlio venga educato insieme a quello del figlio dell’imperatore è sufficiente a soddisfare la tua vanità, malgrado il pericolo che corre; non credi che ciò ripaghi di tutto questo squallore?».

Con un gesto molle, indicò l’atrio di discrete dimensioni che li circondava. Pur ammettendo che le decorazioni non fossero all’altezza di quelle del palazzo – essendo stato costruito centocinquant’anni prima, durante il tempo di Gaio Mario – ciò che mancava in fatto di splendore con il pavimento a mosaico a motivo geometrico bianco e nero o gli sbiaditi affreschi di scene bucoliche, destinati a ingannare l’occhio dell’osservatore, facendogli credere di guardare attraverso delle finestre, veniva compensato dallo sfarzo imposto da sua moglie. Era infatti zeppo di arredi e ornamenti che Flavia aveva comprato nel delirio di spese folli sotto la dissoluta influenza di Messalina.

Vespasiano trasaliva ogni volta che osservava l’arredo della stanza che circondava l’impluvium, il laghetto con una fontana di Venere al centro: bassi tavoli di lucido marmo con gambe dorate, coperti di ornamenti in vetro o argento, statuette di pregiato bronzo o cristallo lavorato, divani e sedie, tutti intagliati, dipinti e imbottiti. Non era per via della volgarità, questo poteva sopportarlo anche se offendeva il suo gusto contadino per le cose semplici della vita, ma per la quantità di denaro che era stato sprecato. «Di certo il fatto che tutte le altre donne discutano gelose se Agrippina farà uccidere Tito insieme a Britannico mentre spiana a suo figlio Nerone la strada per la successione al patrigno è sufficiente a farti sentire speciale e al centro dell’attenzione. Com’è desiderio di ogni donna che si rispetti, vero?».

Flavia strinse così forte il fagotto del loro bambino di due mesi che per un momento Vespasiano temette che gli avrebbe provocato qualche danno. Poi si rilassò e si alzò, tenendosi il neonato al seno con le lacrime agli occhi. «Dopo tutto quello che ho fatto per te, per noi, dovresti portarmi un po’ di rispetto, Vespasiano. Sei uno dei consoli in carica; io dovrei potermi mostrare come la moglie di un console e non di umile arrampicatore della classe equestre…».

«Cosa che, a pensarci bene, è ciò che siamo entrambi».

La bocca di Flavia si spalancò ma non ne uscì alcun suono.

«Adesso, mia cara, aprirò ai miei clienti la porta su tutto questo squallore; mi saluteranno non solo come il padrone di questo squallore, ma anche come il console di Roma in grado di fare loro grandi favori e ignoreranno il fatto che provengo da una famiglia sabina che può vantare solo un senatore prima di me e mio fratello, proprio come ignoreranno il mio rozzo accento sabino. E poi, sbrigata la salutatio, come console di questa città consegnerò pubblicamente uno dei più grandi nemici di Roma all’imperatore perché lo punisca. Se vuoi, tu e nostra figlia potete venire ad assistere, insieme a tutte le altre donne, e potrai goderti tutti i falsi complimenti che ti faranno. O forse hai troppa paura di mostrarti in pubblico perché tuo marito ti ha comprato una nutrice che appartiene a una tribù che è talmente fuori moda da non riuscire neanche a produrre latte decente?».

Vespasiano si girò e fece segno allo schiavo di aprire. Fu con un certo sollievo che udì il brusco scalpiccio dei piedi di Flavia che si ritirava al di sopra dei vagiti del figlio più piccolo.

Vespasiano sedeva sulla sedia curule davanti all’impluvium al centro dell’atrio; il delicato zampillo della fontana, che usciva da un vaso sulla spalla di Venere, rimase costante mentre la luce dell’alba cresceva, conferendo una sfumatura plumbea al realistico torso nudo della dea illuminato dalle lampade a olio. Dietro di lui c’era Hormus, che prendeva appunti su una tavoletta di cera. A ciascun lato erano disposti i dodici littori che lo accompagnavano, come console, ovunque a Roma; portavano i fasci e le asce legate alle verghe, simbolo del suo imperium. Tuttavia, non era il potere civico quello che Vespasiano stava esercitando adesso, bensì quello personale mentre l’ultimo e meno importante dei suoi circa duecento clienti veniva a salutarlo.

Vespasiano rivolse all’uomo un cenno del capo. «Oggi non ho bisogno di te, Balbo, puoi tornare alle tue faccende una volta che mi avrai accompagnato al Foro».

«È un onore, console». Balbo si sistemò la semplice toga bianca da cittadino e si ritirò da un lato.

«Quanti mi stanno aspettando per un colloquio privato, Hormus?», domandò Vespasiano, guardandosi attorno nella stanza piena di uomini rispettosi che parlavano sottovoce nell’attesa che il loro patrono lasciasse l’abitazione.

Hormus non aveva bisogno di consultare la tavoletta. «Tre a cui hai chiesto di restare e poi altri sette che hanno richiesto udienza».

Vespasiano sospirò; sarebbe stata una lunga mattinata. Tuttavia, poiché il Senato non si riuniva in seduta quel giorno, era una delle rare occasioni in cui aveva il tempo di occuparsi degli affari privati prima che le funzioni pubbliche esigessero la sua presenza; ed era con grande interesse che si dedicava alla sua carica.

«E poi c’è un uomo che non è tuo cliente ma domanda comunque un colloquio».

«Davvero? Qual è il suo nome?»

«Agarpeto».

A Vespasiano non diceva nulla.

«È un cliente del liberto imperiale Narciso».

Vespasiano inarcò le sopracciglia.

«Un cliente di Narciso è qui per vedere me? Si tratta di un messaggio o sta cercando di entrare nelle mie grazie?»

«Non l’ha detto, padrone».

Vespasiano rifletté per qualche momento prima di alzarsi in piedi. La formalità esigeva che vedesse quest’uomo per ultimo, dopo i suoi clienti, perciò la curiosità avrebbe dovuto attendere un po’.

Ma prima gli affari.

Seguito dallo schiavo, si avviò con la lenta dignità di un eminente magistrato di Roma, superando gli uomini che aspettavano udienza, al tablinum, la stanza delimitata da cortine in fondo all’atrio e prese posto dietro la scrivania. «Mi occuperò prima dei tre dai quali ho bisogno di favori, Hormus; in ordine di precedenza».

«Ciò che l’imperatore ha fatto mentre ricopriva la carica di censore, quattro anni fa, non può essere revocato, Lelio», disse Vespasiano, dopo aver ascoltato l’ultima richiesta, da parte di uno stempiato cittadino che indossava una tunica cremisi di ottima fattura sotto la semplice toga bianca. Una massiccia catena d’oro gli luccicava attorno al collo.

«Questo lo capisco, patrone; tuttavia la situazione è cambiata». Lelio tirò fuori dalle pieghe della toga un rotolo e si avvicinò alla scrivania per consegnarlo a Vespasiano. «Questa è una ricevuta dei fratelli della gens Clelia, gli argentari del Foro romano. Vale esattamente centomila denarii, la soglia per l’ammissione all’ordine equestre. Quando Claudio mi ha escluso dall’ordine equestre quattro anni fa, aveva tutto il diritto di farlo poiché, a causa di una serie di investimenti avventati, il mio patrimonio in proprietà e denaro si era quasi prosciugato. Ma adesso, grazie a tuo fratello, dietro tua richiesta, assicurandomi il contratto per la fornitura di ceci alla flotta del Danubio, ho ribaltato la mia situazione e finalmente possiedo i requisiti finanziari per la riammissione».

Vespasiano diede un’occhiata alla ricevuta; era autentica. «L’imperatore potrebbe non rivedere le liste ancora per qualche anno».

Lelio si torse le mani; c’era un cenno di disperazione nella sua voce. «Mio figlio adesso ha diciassette anni; solo come equestre posso sperare di garantirgli un posto come tribuno militare e avviarlo al cursus honorum. Tra due o tre anni potrebbe essere troppo tardi».

Malgrado l’aspetto esteriore che esprimeva sicurezza, Vespasiano sentiva che Lelio era l’ennesimo uomo di mezza età tormentato dallo spettro dell’imminente vecchiaia, senza niente con cui dare lustro alla propria vita. Ma, se fosse riuscito ad avviare il figlio al cursus, la carriera militare e politica che poteva condurre a un posto in Senato, allora avrebbe potuto legittimamente affermare di aver reso onore alla propria famiglia migliorandone la condizione.

Vespasiano comprendeva bene la sua posizione; era stata l’ambizione dei suoi genitori a guidare Vespasiano e suo fratello Sabino alla più alta carica che un cittadino poteva raggiungere. A parte, naturalmente, diventare imperatore; quella era prerogativa di una sola famiglia. «Mi sembra di capire che siano due i favori che mi stai chiedendo: il primo è di usare la mia influenza presso la famiglia imperiale affinché Claudio ti riammetta nell’ordine equestre, e poi chiedere a mio fratello di procurare a tuo figlio un posto di tribuno militare in una delle sue due legioni della Mesia. Dopo che ti ha già fatto avere il contratto per la fornitura di ceci».

Lelio fece una smorfia e tirò fuori dalla toga un altro rotolo. «So di chiedere tanto, patrone, ma do tanto in cambio. So che i senatori non possono intraprendere attività commerciali; tuttavia non conosco alcuna ragione per cui un senatore non debba beneficiare dal commercio condotto da qualcun altro. Questo è un documento legale che ti renderebbe socio dormiente della mia attività con un interesse del dieci per cento sui profitti».

Vespasiano prese il rotolo e lo consegnò a Hormus, in piedi alle sue spalle. «Molto bene, Lelio, se puoi aumentarlo al dodici per cento, vedrò cosa posso fare».

«Di’ a Hormus di apportare la modifica al contratto, patrone».

«Per lui sarà un piacere».

Lelio chinò ripetutamente il capo in segno di ringraziamento e gratitudine, sfregandosi al contempo le mani e invocando la benedizione di tutti gli dèi sul suo patrono, mentre Hormus lo accompagnava al di là delle cortine.

Vespasiano bevve qualche sorso di vino annacquato nell’attesa dell’ultimo postulante della giornata, pensando nel frattempo a cosa potesse volere da lui un cliente di Narciso.

«Tiberio Claudio Agarpeto», annunciò Hormus, facendo entrare un uomo rasato e dal fisico asciutto, chiaramente benestante a giudicare dalle mani cariche di pesanti anelli tempestati di gemme. Aveva la pelle olivastra dei greci settentrionali, tesa sul viso dagli zigomi alti e il naso appuntito. Malgrado i due nomi romani, non indossava la toga nonostante l’occasione formale.

Vespasiano non gli offrì di sedersi. «Cosa posso fare per te, Agarpeto?»

«È più quello che posso fare io per te, console». Il greco parlò in tono misurato, senza che i suoi occhi scuri lasciassero mai quelli di Vespasiano né mostrassero un cenno di emozione.

«Cosa può fare per me un liberto? Immagino che tu sia il liberto di Narciso, dal momento che porti i nomi che prese da Claudio quando fu a sua volta affrancato».

«Proprio così, console. Narciso mi ha affrancato due anni fa e da allora ho svolto per lui una serie di incarichi delicati riguardanti la raccolta di informazioni».

«Capisco. Dunque spii per conto suo?»

«Non esattamente. Raccolgo informazioni dai suoi agenti nelle province orientali e ne verifico autenticità e importanza in modo che il mio patrono veda solo ciò che ha bisogno di vedere».

«Ah, quindi sei uno che fa risparmiare tempo?»

«Senza dubbio».

«Nonché in possesso di molte informazioni».

«Sì, console; sono uno che fa risparmiare tempo e in possesso di molte informazioni».

Vespasiano capì dove voleva andare a parare. «Informazioni che potrebbero essermi preziose».

«Proprio così».

«A quale prezzo?»

«Un incontro: tu e tuo zio con il mio patrono».

Vespasiano aggrottò la fronte e si passò una mano sulla cima della testa quasi calva. «Perché Narciso non ce l’ha chiesto di persona? Avrà anche perso il favore di Claudio ma è pur sempre il segretario imperiale e può convocare un console e un senatore».

«Questo è vero ma desidera che l’incontro sia segreto; perciò deve avere luogo lontano dal palazzo, lontano dagli occhi e dalle orecchie dell’imperatrice e del suo amante».

«Pallante?»

«Come sai, il mio patrono e Pallante non sono in ottimi rapporti…».

«E, come tu sai, la mia lealtà va a Pallante e non tramerò con Narciso contro di lui».

«Neanche se Pallante consentisse deliberatamente all’imperatrice di bloccare la tua carriera?».

Vespasiano fece una risata di scherno. «Bloccare la mia carriera? Ti pare che sia bloccata? Sono console».

«Ma non andrai oltre; non ci saranno province da governare, nessun comando militare, niente. Solo l’oblio politico. Il mio patrono ti chiede di riflettere su questo: perché sei stato fatto console solo per gli ultimi due mesi di quest’anno?»

«Perché il mio quarantaduesimo compleanno è stato a novembre e pertanto prima di allora non potevo essere nominato. È un grande onore essere collega dell’imperatore al consolato».

«Senza dubbio quella nullità di Calvenzio Veto Carminio ha pensato esattamente la stessa cosa quando è stato collega di Claudio per settembre e ottobre. Anzi, ho il sospetto che l’abbia ritenuto un onore più di quanto faccia tu, visto che non aveva fatto niente per meritare tale posizione».

Vespasiano aprì la bocca per replicare ma la richiuse immediatamente, assalito da mille pensieri.

Agarpeto insisté nel suo ragionamento. «Ma per il vittorioso legato della ii Augusta non sarebbe stato forse un onore più grande essere fatto console a gennaio del prossimo anno? Ancora pochi giorni e avresti potuto essere il console giovane per sei mesi interi, magari perfino con l’imperatore come tuo collega, e l’anno sarebbe stato chiamato con i nomi di entrambi. Ma no, ti è stata data una briciola dopo tutto il leale servizio che hai prestato in Britannia. Appena una briciola, un consolato di due mesi, proprio come l’uomo a cui sei succeduto e di cui nessuno aveva mai sentito parlare. E sai perché?».

Vespasiano non rispose; la sua mente era troppo occupata.

«L’imperatrice ti odia per via dell’amicizia di tuo figlio con Britannico. Pallante non è in grado di proteggerti da un tale nemico. È stata lei a persuadere il suo sciocco marito che sarebbe stato un grande onore per te essere nominato console nel mese stesso in cui diventavi eleggibile, e sarà lei a impedire eventuali cariche che potrebbero essere in serbo per te quando il primo giorno di gennaio scadrà il tuo mandato, da qui a tre giorni. La tua unica speranza per un avanzamento di carriera è la sua fine ed essere leale a Pallante non renderà questo possibile. Narciso, d’altro canto…». Agarpeto si interruppe, lasciando in sospeso l’ultimo pensiero.

Vespasiano continuò a non dire niente mentre la sua mente lavorava e la verità di quanto gli veniva detto diventava lampante. Non ribatté perché si rese conto che, in fondo, l’aveva sempre saputo. In fondo era stato un insulto ricevere il consolato per gli ultimi due mesi dell’anno; in fondo, aveva saputo che si trattava di un affronto; in fondo, l’onore che aveva provato per essere console era stato rosicchiato dal risentimento. Ma aveva tenuto tutto quanto sepolto, bene in fondo. «In che modo mi bloccherà?»

«Tuo fratello ha appena deluso Roma in modo alquanto plateale…».

«Cosa intendi?»

«Questa è l’informazione che pensavamo potesse interessarti. Narciso ti spiegherà meglio se lo incontrerai. Basti dire che l’errore di Sabino è un pretesto sufficiente per frenare tutte le ambizioni che i membri della tua famiglia possono nutrire. Pallante non può aiutarti, perciò non ti resta altra scelta».

Certo che Narciso sarebbe andato dritto al centro della questione, che conoscesse l’arte della manipolazione, Vespasiano guardò Agarpeto. Aveva deciso. Non era stato difficile scegliere tra anonimato e slealtà. «Molto bene. Incontrerò Narciso».

Agarpeto sfoggiò il sorriso ironico di un uomo le cui previsioni si sono avverate; il suo primo mutamento di espressione. «Narciso suggerisce che il posto più prudente in cui incontrarsi sia la taverna della Confraternita del Crocevia del Quirinale meridionale. Crede che a gestirla sia ancora il tuo amico, il cliente di tuo zio, Marco Salvio Magno».

«È così».

«Molto bene, la sua discrezione è garantita. Narciso e io saremo lì questa sera alla settima ora, mentre la città festeggia le esecuzioni di oggi».

«Buongiorno, caro ragazzo», tuonò Gaio Vespasio Pollione mentre con la sua andatura a papera cercava di mettersi al passo con il nipote. Il grosso ventre, le natiche, le mammelle cascanti e i molteplici menti, tutto ondeggiava furiosamente secondo ritmi diversi. «Grazie per avermi invitato a condividere l’onore di condurre i prigionieri all’imperatore». Dietro di lui, i suoi clienti si affiancarono a quelli di Vespasiano, creando un seguito di oltre cinquecento persone che li accompagnavano lungo il Quirinale.

Vespasiano inclinò la testa. «Grazie, zio, per avermi prestato i tuoi clienti perché io possa fare un arrivo ad effetto al Foro».

«È stato un piacere; è un bel cambiamento farsi precedere nuovamente dai littori».

«“I cambiamenti sono belli”», citò una voce alle spalle di Gaio, «ed è bello per me e i ragazzi non doverti fare largo tra la folla, visto che sono loro a farlo professionalmente oggi. E non trovi che lo facciano bene?»

«Senz’altro, e anche con più soddisfazione, oserei dire, Magno», replicò Gaio, cominciando a sudare malgrado l’incedere dignitoso e il gelido vento invernale. «Dopo tutto, un littore viene pagato e perciò unisce il piacere al dovere».

Il malconcio viso da ex pugile di Magno assunse un cipiglio sdegnato mentre guardava di traverso il suo patrono con l’occhio buono – la sfera di vetro dipinta nell’orbita sinistra continuava a fissare inutilmente in avanti. «Stai dicendo che ai miei ragazzi non piace sgomberarti il cammino, senatore? Perché di sicuro ci paghi per farlo, anche se, ammettiamolo, non come il Collegio dei littori remunera i suoi membri. Tuttavia tu ci ricompensi in modi discreti e molto più lucrosi, il che significa che la nostra attività è tanto più gratificante, se capisci cosa intendo».

Vespasiano rise e strinse la spalla dell’amico; malgrado Magno avesse diciannove anni più di lui e occupasse un gradino della scala sociale notevolmente più basso, erano amici da quando Vespasiano era arrivato a Roma all’età di sedici anni. Lui e suo zio sapevano più che bene quanto Magno trovasse gratificante la propria attività nel sottobosco criminale di Roma come capo della Confraternita del Crocevia del Quirinale meridionale. «Capisco, amico mio, e mi fa piacere che perfino alla tua età il lavoro continui a darti soddisfazione».

Magno si passò la mano tra i capelli, grigi per l’età ma ancora folti. «Adesso ti stai prendendo gioco di me, signore. Avrò anche sessant’anni ma mi è ancora rimasta voglia di combattere e scopare, anche se non ci vedo più bene come un tempo dopo aver perso l’occhio e questo sta diventando un problema, lo ammetto. Non sono più acuto come prima e alcune delle confraternite vicine cominciano ad accorgersene».

«Forse è tempo di pensare a ritirarti e prendertela comoda; segui l’esempio del tuo patrono: ormai sono tre anni che non tiene un discorso al Senato».

Gaio si scostò dalla faccia un ricciolo perfettamente modellato e tinto e guardò allarmato Vespasiano. «Caro ragazzo, ti meravigli? L’ultimo intervento che sono stato costretto a fare è stato leggere una lista di tutti i senatori ed equites accusati insieme a Messalina e condannati a morte. Questo tipo di esposizione è negativa e ne pago ancora le conseguenze dopo tre anni, non essendomi consentita la possibilità di avere un’opinione, figuriamoci di esprimerne una, ancora oggi».

«Be’, temo che tu possa venire trascinato fuori dal tuo esilio autoimposto, zio».

La preoccupazione sul volto di Gaio crebbe. «Da cosa?»

«Non cosa ma chi, zio».

«Pallante?»

«Vorrei, ma temo non sia così».

«È prudente?», domandò Gaio dopo che Vespasiano ebbe finito di raccontare l’incontro con Agarpeto. «Se rifiuti di vederlo c’è ancora una possibilità che Pallante possa esercitare qualche pressione su Agrippina; potrebbe farle cambiare idea o per lo meno non contrastarti in modo così veemente solo perché il tuo ragazzo è il migliore amico del fratellastro di suo figlio. Ma una volta che agirai alle spalle di Pallante con Narciso, tutta la fiducia e la lealtà che si aspetta da te verranno meno e noi perderemo il migliore alleato che questa famiglia ha a palazzo».

«Ma quell’alleato è l’amante della mia nemica».

«E quindi Pallante è diventato tuo nemico mentre Narciso, essendo nemico di Agrippina, diventa così tuo amico? Caro ragazzo, rifletti: Pallante non ha fatto altro che proteggere la propria posizione alleandosi con Agrippina; ha fatto una scelta saggia dal momento che Nerone è un candidato di gran lunga più adatto a succedere a Claudio che non Britannico, semplicemente perché è maggiore di tre anni. Claudio non durerà più di altri due, forse tre, anni. Pensi davvero che un ragazzo potrebbe regnare?».

Vespasiano rifletté sulla domanda mentre il gruppo passava sotto un colonnato ed entrava nel Foro di Augusto, dominato dal tempio di Marte Ultore che, dipinto in colori vivaci, risplendeva di rosso cupo e intenso giallo dorato. Statue, togate o in uniforme militare, altrettanto colorate, si ergevano su plinti attorno al bordo del Foro; quei loro occhi – che smascheravano quello falso di Magno per la scadente imitazione che era – seguivano il pubblico come se i grandi uomini commemorati guidassero ancora la città. «No, zio, non senza un reggente», ammise alla fine.

«E chi sarebbe nel caso di Britannico? Sua madre, grazie agli dèi, è morta e quindi restano suo zio, Corvino, o Burro, il prefetto della guardia pretoriana. Nessuno può consentire una simile opzione perciò non resta che Nerone perché, visto che il suo quattordicesimo compleanno è stato quindici giorni fa, ha preso la toga virile. Se Claudio morisse domani, avremmo un uomo da mettere al suo posto».

«Se Nerone diventa imperatore, Agrippina farà in modo che io non ricopra mai più una carica».

«Allora allontana Tito da Britannico e il problema è risolto».

«Dici? Claudio ne sarebbe offeso. Cosa succede se dovesse sorprenderci tutti quanti e vivesse per altri dieci anni?».

Adesso toccava a Gaio riflettere sulla domanda mentre attraversavano il Foro di Cesare, dove il prefetto urbano e magistrati di minore importanza potevano essere interpellati all’ombra di una maestosa statua equestre del dittatore. «Sarebbe una disgrazia», ammise Gaio, «ma è altamente improbabile».

«Ma non impossibile. Se mi sono guadagnato l’ostilità di Agrippina, riterresti saggio tentare di comprare la sua amicizia mettendomi contro Claudio?»

«Se la metti così, allora no».

«Allora quale scelta ci rimane a parte incontrare Narciso stasera?».

La folla proruppe in acclamazioni quando i dodici littori di Vespasiano arrivarono nel Foro romano, annunciando, con la loro comparsa, l’arrivo di uno dei consoli nella sede del Senato alle migliaia di cittadini giunti ad assistere al più grande giorno per Roma dopo l’ovazione di Aulo Plauzio, quattro anni prima. Quello sarebbe stato il giorno in cui il grande nemico di Roma, il capotribù che aveva guidato una strenua resistenza, avrebbe pagato per il suo ardire e sarebbe morto al cospetto dell’imperatore.

Ma prima, in assenza dell’imperiale collega anziano che aspettava al castro pretorio, fuori dalle porte del Viminale, era compito di Vespasiano fare il sacrificio e leggere gli auspici. Era importante che gli dèi dichiarassero quel giorno favorevole allo svolgimento delle attività cittadine. Vespasiano non dubitava che sarebbe stato così.

Il sangue sprizzò in getti regolari nel catino di rame sotto la gola sgozzata del toro bianco. Gli occhi della bestia erano a malapena a fuoco, stordita com’era dalla martellata che il Padre del Senato gli aveva inferto sulla fronte, un istante prima che Vespasiano, con il capo coperto da una piega della toga, brandisse il coltello. Zampe anteriori e spalle cominciarono a sussultare, con il sangue che scorreva su di esse. La lingua ricadde penzoloni dalla bocca e le viscere si svuotarono in un fumante schizzo mentre le zampe tremanti crollavano, portando la vittima in ginocchio al cospetto del Senato. Disposti sui gradini in ordine di precedenza, i cinquecento senatori attualmente in carica osservavano con solenne dignità l’antica cerimonia che, da tempo immemorabile, aveva luogo nel cuore di Roma.

Vespasiano aveva fatto un passo indietro, tenendosi ben lontano dalle varie scariche che emetteva il toro; sarebbe stato considerato un brutto auspicio se il console in carica si fosse macchiato la toga e l’intero rito avrebbe dovuto essere ripetuto. Il Padre del Senato vigilò sulla rimozione del catino da parte di due schiavi pubblici nel momento stesso in cui l’animale si accasciava al suolo, con il cuore sempre più debole mentre da essere vivente diventava una carcassa inanimata.

Vespasiano ripeté le parole rituali sulla bestia morta, invocando la benedizione di Giove Ottimo Massimo sulla sua città, proprio come avevano fatto i detentori della sua carica sin dalla fondazione della repubblica. Altri quattro schiavi pubblici rigirarono la carcassa sul dorso e ne allargarono le zampe per l’incisione sul ventre.

Il lezzo delle viscere fresche e fumanti assalì le narici di Vespasiano quando la sua lama affilata squarciò il dono al dio protettore di Roma; la folla che gremiva il Foro e oltre rimase col fiato sospeso. Dopo una serie di esperte e accurate incisioni, Vespasiano estrasse il cuore ancora caldo e, dopo averlo mostrato ai colleghi senatori e poi agli equites di fronte all’enorme calca, lo depose a sfrigolare e sibilare nel fuoco che ardeva sull’altare di Giove, davanti alle porte aperte di ferro e legno della Curia.

Due schiavi pubblici a ciascun lato dell’animale ne scostarono la gabbia toracica e Vespasiano si accinse alla complicata operazione di asportare il fegato senza macchiarsi la toga. Avendo presieduto a numerosi sacrifici, sapeva che il segreto era procedere in modo regolare; con metodica pazienza, l’organo fu presto rimosso intatto e posato sul tavolo accanto all’altare. Servendosi di un panno messo lì apposta, Vespasiano ripulì dal sangue il fegato e vi passò sopra la mano. Rimase pietrificato all’istante e sentì il cuore tentare di balzargli in gola; un paio di respiri affannosi gli sollevarono il petto e gli occhi fissarono una macchia quasi viola sulla carne marrone rossiccio. Ma una macchia non ha una forma specifica né regolare e questo non poteva dirsi del segno sulla superficie del fegato, creato, apparentemente, da due vene che quasi affioravano insieme. Aveva una forma ben definita, quasi come se vi fosse stato impresso, più o meno come avrebbe fatto un proprieetario di schiavi: con una lettera. Ed era quella ad averlo sorpreso; piccola ma evidente, era la lettera con cui cominciava il suo cognome. Quella che aveva davanti a sé era la lettera V. Ma, ancora più sorprendente, il segno era quasi al centro esatto del fegato, appena a sinistra del sottile lobo centrale; nella zona che gli antichi aruspici etruschi consideravano sacra a Marte, il suo dio protettore.

Un cattivo auspicio, trovato su un fegato donato a Giove a nome di Roma e riferito in modo tanto lampante a lui, l’esecutore del sacrificio, poteva dare adito a molteplici interpretazioni, che in gran parte avrebbero suscitato l’invidia di coloro che erano al potere; consapevole di ciò, Vespasiano rigirò il fegato e ne esaminò la parte sottostante, priva di imperfezioni. Poi, assicurandosi di coprire con il pollice la macchia potenzialmente traditrice, sollevò l’organo e lo mostrò al Padre del Senato, dichiarando il giorno propizio per le attività di Roma. Ma l’immagine del segno continuava a danzargli davanti agli occhi.

«E sia, allora», esclamò il senatore con la voce vecchia e stridula mentre Vespasiano deponeva il fegato nel fuoco dell’altare. «Portate fuori i prigionieri!».

Ci fu movimento attorno al Tulliano, la prigione ai piedi del Campidoglio, accanto alle Scale Gemonie, all’ombra del tempio di Giunone sull’Arce soprastante. I soldati della coorte urbana sgomberarono uno spazio davanti a una porta e poi un centurione, con la bianca cresta di crini di cavallo sull’elmo che fluttuava nella leggera brezza, bussò con il suo bastone di vite.

La folla ammutolì trepidante.

Qualche istante dopo, la porta si aprì e una fila di prigionieri in catene uscì strisciando i piedi; la folla continuò a restare in silenzio, in attesa dell’uomo che era venuta a vedere.

E poi una figura massiccia si stagliò sulla soglia dell’unica prigione pubblica di Roma, il capo chino mentre la varcava per uscire all’aperto. Ci fu un respiro collettivo; non era vestito miseramente né era malconcio come i disgraziati che lo precedevano; indossava gli abiti di un re e ne aveva l’atteggiamento.

«Molto astuto», mormorò Gaio. «Più sontuosamente lo vesti più in alto lo elevi, e più maestoso apparirà Claudio quando lo calpesterà e lo umilierà».

Vespasiano osservò il prigioniero fermo lì, l’elmo alato di bronzo che rifletteva il pallido sole, le mani in catene ma il petto gonfio e fiero sotto una pesante cotta di maglia mentre la reazione della folla si tramutava in una cacofonia di versi di dileggio. Ecco l’uomo che non vedeva da quella notte di cinque anni prima, quando aveva guidato il suo esercito sbucando dal buio Nord, sorprendendo per un pelo la ii Augusta che prendeva posizione. Ecco l’uomo che aveva quasi distrutto una legione, la legione di Vespasiano.

Ecco Carataco.