Resilienza
«Nell’uscire dalla grande crisi abbiamo dimostrato la nostra resilienza» ha detto Barack Obama nel discorso della sua seconda inaugurazione, il 21 gennaio 2013. «Dinamismo resiliente» è la nuova parola d’ordine lanciata nello stesso anno al World Economic forum di Davos, in Svizzera.
Che cosa si nasconde dietro questo neologismo che dilaga tra economisti, sociologi, guru delle più recenti tecnologie? C’è chi suggerisce di adottarlo come nuovo obiettivo anche nella tutela dell’ambiente: la resilienza è ancora meglio della sostenibilità. Per una volta non stiamo importando anglicismi. Il termine «resilienza» esiste in Italiano, anche se viene prevalentemente usato in campi diversi dall’economia.
Per gli ingegneri descrive la capacità di un materiale di resistere agli urti senza spezzarsi. Per gli psicologi è la risorsa che consente un recupero più rapido dopo una depressione, aiuta a superare traumi e dolori. In ecologia riassume una forza intrinseca degli ecosistemi: la predisposizione a ritrovare l’equilibrio dopo uno shock esterno. Non è difficile intuire perché questo concetto abbia cominciato ad affascinare gli economisti. Stiamo tentando di risollevarci dal più grave «shock sistemico» che abbia mai colpito l’economia mondiale dopo la Grande Depressione degli anni trenta.
Capire che cosa ci rende resilienti di fronte a questo genere di catastrofi può essere essenziale per evitarle in futuro.
O meglio: per ridurre i danni, sociali e umani, quindi ripartire al più presto.
Poiché l’ecologia ha un’antica dimestichezza con la resilienza, non è un caso se la riflessione è più avanzata in questo campo. Un libro che ha contribuito ad alimentare il dibattito è quello pubblicato da Andrew Zolli e Ann Marie Healy: Resilience: Why Things Bounce Back. Ovvero, letteralmente, «perché le cose rimbalzano». Zolli dirige Poptech, un network di innovatori nel campo delle tecnologie e non soltanto. Di fronte alle grandi sfide del nostro tempo – le diseguaglianze sociali, l’inquinamento e il cambiamento climatico – Zolli sostiene che la parola d’ordine della sostenibilità si sta rivelando inadeguata. «parlare di sostenibilità significa darsi l’obiettivo di ripristinare l’equilibrio perfetto.» Un’illusione. Molto più realistico è «imparare a gestire un mondo in perpetuo squilibrio». Un numero crescente di scienziati, pensatori sociali, attivisti della società civile, filantropi s’interessa alla resilienza per aiutare le categorie più vulnerabili a sopravvivere e perfino a prosperare di fronte a sconvolgimenti imprevedibili.
Un esempio interessante di riflessione sulla resilienza riguarda la città di New York nel dopo-Sandy. I traumi di quell’uragano non si sono ancora esauriti, i danni non sono completamente riparati. Ma si è avviata una discussione importante, su come una grande metropoli postindustriale del terzo millennio debba prepararsi agli eventi meteorologici estremi. Più che «affrontare» le calamità illudendosi di poter sostenere una prova di forza con la natura, forse è più saggio «adattarsi»? Il primo approccio è quello che spingerebbe a investire nella costruzione di robuste barriere fisiche contro i futuri tsunami. Costosissime dighe, e non necessariamente invulnerabili. Ma la natura stessa ha elaborato altre risposte, più flessibili: per esempio le wetland, zone umide, paludose, acquitrini naturali, laghetti e stagni, insomma una barriera mobile che può accomodare l’afflusso inusitato di una massa d’acqua, depotenziarne la capacità distruttiva. In un altro campo, Zolli cita la visione degli psicologi sui fattori che ci rendono resilienti di fronte ai traumi e al dolore: la solidità delle nostre amicizie, la qualità delle nostre relazioni sociali, la profondità degli affetti, nonché i valori in cui crediamo. In generale, perché la resilienza può aiutarci e può essere una risorsa ancora più sicura della sostenibilità? «perché l’equilibrio perfetto non è di questo mondo. Tutti i sistemi attorno a noi si evolvono attraverso errori, tentativi, adattamenti, apprendimenti. È dai fallimenti, dagli insuccessi, che impariamo a crescere.» in campo economico-finanziario, Nassim Taleb, quello del cigno nero, propone l’idea dell’«antifragilità» (in Anti-fragile. Prosperare nel disordine, edito dal Saggiatore): poiché non riusciremo mai a prevedere adeguatamente il futuro, è molto più utile imparare a migliorare noi stessi sfruttando gli shock, a trarre beneficio dai traumi esterni quando ci aggrediscono. Dopotutto, è quello che la natura riesce a fare abbastanza spesso. L’evoluzione della specie approfitta delle mutazioni genetiche casuali, per renderci più forti.
Mentre la biologia e la psicologia lavorano per fare un uso costruttivo degli errori, questo non accade necessariamente nei sistemi economici. Un esempio che usa Taleb: quando si verifica un crac bancario, l’incidente non rende meno probabile bensì più probabile la sua ripetizione; è l’effettocontagio derivante dall’interconnessione delle banche.
La ricetta segreta della resilienza è stata studiata da un gruppo di economisti che ha concentrato l’attenzione su nazioni molto piccole. Sono ricercatori guidati da Lino Briguglio, che hanno pubblicato Profiling Vulnerability and Resilience . In questo studio, ribattezzato «Manuale per piccoli Stati», spicca il cosiddetto «paradosso di Singapore». Più che una nazione, questo dragone asiatico è una Città-Stato.
Le sue dimensioni rendono Singapore terribilmente vulnerabile: troppo dipendente dalle esportazioni, quindi indifesa di fronte agli shock esterni che provengono dall’economia globale. Eppure Singapore è diventata un laboratorio di resilienza. Così come, per altri versi, la Svizzera. Esempi interessanti per nazioni medio-piccole come l’Italia, anch’essa dipendente dagli sbocchi sui mercati globali. Le ricette che salvano queste piccole nazioni che godono di un benessere elevato e stabile sono la qualità della governance e lo sviluppo sociale. Dunque non si tratta di capitalismi sregolati. La resilienza è la conquista di politiche che investono nella scuola, nella riqualificazione dei lavoratori licenziati, nelle reti di protezione sociale, nella ricerca scientifica. Anche il World Economic forum di Davos ammette che la via maestra alla resilienza non è il laissez-faire. Tra i protagonisti del summit sulla resilienza ci sono gli «imprenditori sociali», quelli che indirizzano i loro talenti verso la soluzione dei grandi problemi del nostro tempo: le diseguaglianze di reddito, le emissioni carboniche, la penuria di acqua, l’aumento della longevità.
Per costruire un’economia resiliente, non possiamo lasciare immutati i nostri sistemi di valori. Dietro il modello economico attuale c’è un modello etico. Un mondo in cui abbiamo accettato che il denaro sia il metro supremo. Aggredire e rovesciare questo paradigma è diventato urgente quanto uscire dalla crisi. Anzi, è una condizione perché l’uscita dalla crisi sia reale. Che questa esigenza sia sentita da un numero crescente di esseri umani lo dimostra il «caso Michael Sandel». Sandel è un pensatore di Harvard il cui corso, intitolato «Giustizia», è diventato un fenomeno virale su Youtube. Usa esempi chiari, paradossali e tremendamente efficaci per dimostrare che il mercato sta invadendo ogni sfera, i valori più sacri sono ormai negoziabili, nulla è veramente al di sopra del potere del denaro: gli organi per i trapianti, l’istruzione, la guerra, i programmi dei partiti.
È solo questione di prezzo.
Lo incontro al festival dell’economia di Trento dove presenta il suo libro, Quello che i soldi non possono comprare. I limiti morali del mercato (Feltrinelli). Una denuncia tanto più utorevole perché pensata nel cuore della nazione che ha esportato l’ideologia mercatista nel mondo intero. Con lui parlo di una grande disillusione: da questa crisi economica finora non è nato un nuovo sistema di valori capace di ricacciare indietro il dominio del mercato. Gli confesso la mia delusione personale. Avevo sperato che lo shock del 2008 avrebbe fatto pulizia del pensiero unico neoliberista.
«Anch’io» mi dice Sandel «ho creduto che potesse segnare la fine della fiducia acritica nei mercati. Invece c’è stata solo una discussione molto angusta, sulle regole della finanza. Non abbiamo avuto un dibattito pubblico sul tema fondamentale: in che misura i mercati servono l’interesse generale. Il potere del pensiero mercatista, la sua forza anche nell’immaginazione popolare, non si limita alla convinzione che il mercato crei benessere. C’è di più: lo si associa a un’idea di libertà. È un inganno. Ci illudiamo che le due parti in un contratto siano libere di negoziare sul valore del loro scambio. Anche se si tratta di un rene, di un organo per un trapianto: se uno lo vuole comprare e un altro lo vuole vendere, e tra loro trovano l’accordo sul prezzo, in certe legislazioni questo può essere sufficiente. Come se il mercato fosse davvero neutro. Abbiamo bisogno di un vigoroso dibattito pubblico che affronti il significato di una vita buona, ne abbiamo bisogno eticamente.»
Una ragione della timidezza nel contrastare lo strapotere del mercato può essere questa: abbiamo conosciuto un’alternativa che ci ha lasciato pessimi ricordi, il comunismo reale nei paesi dell’Est; oppure lo statalismo all’Italiana, che tuttora allunga la sua ombra sulla sinistra del mio paese. Se ricacciare indietro i mercati significa sostituirvi l’arbitrio dei politici, la pesantezza di burocrazie costose o un sindacalismo corporativo che difende privilegi di casta, allora molti, giustamente, non ci stanno. Sandel aggiunge una critica acuta contro le politiche di tagli alle spese sociali che stanno intaccando il welfare europeo. «Molti» mi dice lo studioso di Harvard «criticano l’austerity su basi puramente economiche, come una cura sbagliata in tempi di recessione. Io aggiungo a quelle critiche un altro punto di vista, che guarda ai limiti morali del mercato. L’austerity è ancora più dannosa in quanto corrode gli spazi pubblici, tutti quei luoghi che uniscono i cittadini, quelle istituzioni dove avviene la nostra condivisione di una vita comune.»
Se tutto è in vendita, se con i mezzi adeguati si può passare sempre davanti alla fila, i ricchi si sentiranno sempre meno coinvolti da quel che accade alla maggioranza dei loro concittadini. Questo è uno dei fenomeni più corrosivi. Un tempo con il denaro potevi comprarti una villa a capri, un grande yacht, una ferrari. Oggi in molti paesi del mondo ti compri anche una sanità di serie A, un’istruzione di élite per i tuoi figli, un quartiere più protetto dalla criminalità e un’influenza politica maggiore.
Questo tipo di diseguaglianza ferisce molto più di prima: coinvolge le aspettative, il futuro dei nostri figli, la speranza di una mobilità sociale. Il deperimento dell’idea di comunità, Sandel lo descrive usando come metafora le tribune chiuse per i vip negli stadi sportivi americani, gli esclusivi salottini che si chiamano «skybox ». Trent’anni fa non esistevano, oggi ci sono in tutti gli stadi. Alludono a qualcosa di più generale. Un tempo alla partita di baseball o football i tifosi di ogni ceto sociale condividevano le stesse emozioni. «E quando pioveva si bagnavano tutti.» oggi i salotti skybox separano i ricchi. È quel che sta accadendo anche alla nostra democrazia.