Il caso Bloomberg
Che cosa dà all’università americana una marcia in più?
Un dono da 350 milioni di dollari non guasta. Tanto più se l’assegno, «staccato» a favore di un singolo ateneo, è solo l’ultima tranche su 1,1 miliardi di donazioni. L’università in questione è la Johns Hopkins di Baltimora. Il generoso finanziatore è il sindaco di New York, Michael Bloomberg, che con le sue donazioni personali ha polverizzato ogni record perfino in un paese dove il mecenatismo ha antiche e solide radici. Bloomberg cominciò con 5 dollari, il primo contributo che diede alla Johns Hopkins non appena presa la laurea nel 1964. Dopo aver fatto fortuna con l’agenzia d’informazione finanziaria che porta il suo nome (oggi gestita da un «blind trust» per evitare conflitti d’interesse), l’entità dei versamenti ha avuto una formidabile escalation.
A 71 anni, concluso il suo terzo e ultimo mandato come sindaco, Bloomberg è il numero dieci nelle classifiche degli americani più ricchi: ha 25 miliardi di patrimonio. Ma, pur avendo moglie e due figlie, ha già deciso da tempo che prima di morire devolverà interamente quella ricchezza in beneficenza e mecenatismo. In genere non divulga nei dettagli le sue donazioni. Ha scelto di farlo nel caso della Johns Hopkins University perché, come spiega lui stesso in un’intervista al «New York Times», vuole incoraggiare attraverso il suo esempio le donazioni a favore dell’istruzione: «nella nostra società c’è una pericolosa tendenza a ridurre i finanziamenti per l’istruzione, bisogna reagire».
Bloomberg finanzia altre cause, alcune delle quali apertamente progressiste e perfino «politiche»: dalla campagna per la messa al bando delle armi alla lotta contro il cambiamento climatico. Democratico da giovane, poi repubblicano per convenienza (alla sua prima elezione a sindaco, i democratici non avevano «posto» per lui nelle loro liste), infine indipendente, nella campagna per le presidenziali del 2012 il sindaco di New York diede indicazione di voto per Barack Obama, definendolo «il candidato più sensibile alla gravità del cambiamento climatico, di cui la città di New York ha avuto un segnale tremendo con l’uragano Sandy».
L’università Johns Hopkins già ebbe origine da un dono privato (deve il suo nome al filantropo che la fondò nel 1876). Le donazioni di Bloomberg l’hanno trasformata. Hanno consentito di costruire la nuova sede della facoltà di fisica, un nuovo policlinico, un nuovo ospedale pediatrico, un istituto dedicato alla ricerca sulla malaria, un laboratorio sulle cellule staminali, una nuova biblioteca. Inoltre, i doni di Bloomberg finanziano il diritto allo studio: vengono da lui il 20 per cento delle borse agli studenti meritevoli che non hanno i mezzi per pagarsi la retta. Anche se ha stabilito un record, Bloomberg s’inserisce in una tradizione antica negli Stati Uniti. Lo ricorda il presidente della Johns Hopkins: «le grandi famiglie del capitalismo americano – dai Rockefeller ai Carnegie – hanno consentito i grandi investimenti che hanno trasformato l’istruzione superiore in America». In California l’università delle tecnologie avanzate, Stanford, deve anch’essa il suo nome a un magnate e filantropo.
In Europa un ruolo così centrale dei finanziamenti privati darebbe adito alle accuse di privatizzazione dell’università, quindi di asservimento a interessi capitalistici. In America le autorità accademiche e il corpo docente si sono organizzati in modo tale da proteggere la loro autonomia. La relazione che si è stabilita tra Bloomberg e la Johns Hopkins sembra quasi all’opposto dei timori europei. La School of public health, con le sue ricerche sulla prevenzione delle malattie, ha influenzato le scelte del sindaco di New York.
Quando Bloomberg ha deciso di vietare il fumo nei parchi cittadini, di imporre la «trasparenza delle calorie» alle catene di fast food, e di mettere al bando le confezioni giganti di Coca e Pepsi, lo ha fatto dopo essere stato sollecitato da équipe di ricercatori medici della Johns Hopkins. Anche il provvedimento di estendere le zone pedonali e le piste ciclabili di Manhattan nasce dall’esempio di un campus universitario senza automobili che piacque a Bloomberg. Tra i progetti di ricerca che lui finanzia, uno punta a estirpare la malaria «creando» una zanzara geneticamente modificata.
Duecentocinquanta milioni dell’ultima donazione serviranno ad assumere 50 ricercatori su un progetto per rendere più sicure le metropoli americane di fronte agli shock del cambiamento climatico. Un altro filone di ricerca ambientalista sarà il problema della penuria di acqua a livello globale.
In un caso il «New York Times» ha scoperto un «riguardo speciale» della Johns Hopkins verso il suo principale finanziatore. Quando arrivò un dono dall’ex presidente degli Emirati Arabi Uniti, lo sceicco Zayed bin Sultan al-Nahyan, per costruire un nuovo palazzo, l’università chiese a Bloomberg se aveva obiezioni. «Un ebreo come me da una parte e un arabo a fianco: è proprio così che deve funzionare il mondo» fu la sua risposta.
Che cosa c’entra Bloomberg con la schiera dei banchieri-banditi? C’entra molto, e in più modi. Anzitutto, lui deve la sua fortuna a Wall Street, oltre che al proprio talento.
L’impresa che porta il suo nome scalzò la Reuters come leader mondiale nell’informazione finanziaria. I terminali Bloomberg sono i computer più ubiqui in tutte le sale di trading del pianeta, la speculazione sui derivati «corre» nella banda larga che collega quegli schermi. Non ci sarebbe un patrimonio Bloomberg senza la speculazione delle banche.
Un altro collegamento, ancora più importante, riguarda i sistemi di valori, le culture politiche. Proprio come Michael Bloomberg, la maggioranza dei banchieri di Wall Street è «liberal» sui temi valoriali. La Goldman Sachs fece donazioni in favore della campagna politica per i matrimoni gay. New York ha un establishment capitalistico con il cuore che batte «a sinistra» su questioni come l’ambiente, il cambiamento climatico, la messa al bando delle armi da fuoco, l’apertura delle frontiere all’immigrazione.
Dove Bloomberg si rivela di destra è sull’economia. Guai a proporgli nuove tasse sui ricchi, o perfino l’aumento del salario minimo. Di sinistra sì, ma solo quando questo non interferisce con la logica del business. Anche l’ambientalismo di Bloomberg trova un limite: i benefici delle piste ciclabili sono più che annullati dalle polveri tossiche che i mille cantieri di Manhattan sollevano quotidianamente.
Non sia mai che una richiesta di costruzione di grattacieli nuovi venga negata o rallentata: è il capitalismo, bellezza.
Bloomberg ha fatto tante cose ammirevoli per la sua città.
Ma la cultura politica che rappresenta, identica a quella dei banchieri di Wall Street, ha delle contraddizioni stridenti. Se si porta fino in fondo la sua logica, la povertà Newyorchese va combattuta con la filantropia. Si torna a una logica da capitalismo ottocentesco, da romanzo di Charles Dickens, dove il povero è oggetto della benevola carità dei grandi proprietari di fortune. Ma quello fu un capitalismo inceppato, da cui nacquero convulsioni sociali violente, oltre che il 1929. L’insegnamento di Keynes, e anche quello di Henry Ford, fu questo: nell’interesse stesso della crescita capitalistica, i salari alti sono più utili della carità.