Le ultime volontà, versione Wall Street
Nove megabanche americane hanno «fatto testamento».
Proprio così, lo impone la nuova legge sui mercati finanziari (detta Dodd-Frank dai nomi dei relatori al congresso ) voluta da Barack Obama dopo il crac Lehman del 2008. Le banche «troppo grandi per essere lasciate fallire» hanno l’obbligo di presentare alle autorità di vigilanza un «piano per il proprio smantellamento» che indichi come possono essere smembrate in caso di default. Sembra una cosa nobile, un po’ come il testamento biologico o, meglio ancora, le istruzioni dei donatori di organi? Il nome può trarre in inganno. La logica di questi testamenti è di precostituire un percorso per la rapida vendita ad altre banche di tanti «pezzi» dell’istituto finito in crisi, onde evitare che lo Stato sia costretto a salvarlo con i soldi del contribuente come accadde appunto nel 2008-2009. Le nove maggiori aziende di credito americane hanno ottemperato all’obbligo: fra quelle che hanno fatto testamento ci sono JpMorgan Chase, Bank of America, Citigroup e tutte le loro consorelle con oltre 250 miliardi di attivi in bilancio. Altre 100 istituzioni finanziarie meno gigantesche dovranno adeguarsi in seguito.
A prima vista l’esercizio è rassicurante, e conferma l’impressione che gli Stati Uniti siano un passo avanti rispetto all’Europa nel prevenire nuovi crac bancari. Tuttavia non bisogna farsi troppe illusioni sull’efficacia di quei testamenti. Se davvero dovesse vacillare sull’orlo del default uno dei big, è poco probabile che il salvataggio avvenga in modo tranquillo e ordinato seguendo le «ultime volontà» del condannato. Purtroppo, le banche in questione sono davvero troppo grosse. Basti fare un confronto: con la sua bancarotta la Lehman riuscì a portare il mondo intero a un passo dal collasso finanziario, pur avendo «soltanto» 639 miliardi di dollari in bilancio. La JpMorgan Chase ha 2300 miliardi di dollari di attivi. Sono dimensioni che fanno tremare anche solo a considerarle così, a freddo. Figurarsi che effetto farebbero in caso di un vero default. Chi può illudersi che un crac di quelle proporzioni si risolva vendendo un pezzo alla volta le varie attività della banca alle sue concorrenti? Se davvero dovesse tremare un colosso come JpMorgan Chase, vista l’interconnessione stretta di tutto il sistema bancario, c’è da giurare che le sue consorelle sarebbero anch’esse sull’orlo del disastro, e nel panico. Tutte cercherebbero di ridurre rischi ed esposizioni: altro che comprare i pezzi della banca che sta fallendo.
La svizzera Ubs nel fare il suo testamento ha accennato pudicamente al problema, ha ammesso cioè che in caso di crisi «solo dei concorrenti molto grandi» riuscirebbero a comprare le sue attività. La Ubs è piccina rispetto alle tre o quattro maggiori banche americane. L’idea di rendere prevedibile e governabile la prossima crisi bancaria è abbastanza illusoria, perché queste crisi hanno sempre degli sviluppi a sorpresa, accelerazioni improvvise, che impongono scelte audaci proprio quando tutti tendono ad andare nel pallone. La verità è che il default di pachidermi come JpMorgan Chase, Bank of America o Citigroup chiamerebbe in causa comunque il governo. E non è affatto detto che il soggetto pubblico abbia le risorse sufficienti. Perfino la federal Deposit insurance corporation (fdic), l’assicurazione federale dei depositi, rischierebbe di rimanere senza fondi. Uno dei cantieri non ancora conclusi della riforma Obama riguarda proprio l’organizzazione di un fondo di mutuo soccorso da finanziare con apporti di tutte le banche e da fare intervenire in caso di disastro. In questa situazione, i testamenti sono degli esercizi di «wishful thinking», ottimismo ingenuo. Sono scritti in tempi di normalità, da banchieri che hanno già dimenticato che cos’è la paura, quella vera. Gli unici a beneficiarne davvero sono i potentissimi «lawyer», gli avvocati d’affari che prosperano a Wall Street: anche i testamenti, centinaia e centinaia di pagine redatte nel gergo degli addetti ai lavori, sono occasione di laute parcelle.