Salotto buono all’Italiana

Ho avuto un mutuo. La notizia sarebbe priva di qualsiasi interesse per il lettore, se non per un fatto: e cioè che la mia è una microevidenza empirica di un fenomeno più generale. In America il credito ha ricominciato ad affluire anche verso l’economia reale. È un fattore che fa la differenza tra l’America e l’Europa (soprattutto quella del Sud). Su ambedue le sponde dell’Atlantico, la crisi ebbe il suo epicentro originario nel sistema bancario. E sia in America che in Europa, i contribuenti sono stati spremuti per salvare le banche con ingenti risorse pubbliche. Dunque, il risentimento verso la razza dei banchieri è più che giustificato a New York come a Milano, parigi o Madrid. Qui però si ferma il parallelismo. Perché dai salvataggi bancari in poi, gli andamenti del credito sulle due sponde dell’Atlantico hanno conosciuto traiettorie divaricanti.

Negli Stati Uniti le banche sono tornate a fare (anche) il loro mestiere più semplice e più utile, che è di prestare soldi all’economia reale per rimettere in moto la crescita e l’occupazione. Il mio piccolo caso personale – un mutuo per comprare un appartamento a New York, ottenuto in poco più di un mese – s’inserisce in una miriade di episodi analoghi. Se sei in cerca di una casa, o se sei un piccolo imprenditore che vuole assumere, il credito è tornato a livelli normali negli Stati Uniti. È importante, perché è la linfa vitale senza la quale tutto si ferma.

In Europa, nel 2013 i finanziamenti delle banche alle imprese sono dell’8 per cento inferiori ai livelli del 2009, cioè l’anno zero della prima recessione. Di questa anomalia ha parlato più volte Mario Draghi, dicendo che «la cinghia di trasmissione» si è rotta: la BCE ha fornito liquidità alle banche, ma queste non l’hanno poi trasmessa all’economia reale.

Come si spiega la differenza con gli Stati Uniti? Il presidente uscente della Federal Reserve, Ben Bernanke, insieme con altre authority di controllo del sistema creditizio Usa, è riuscito a ottenere una veloce e sostanziosa ricapitalizzazione degli istituti di credito americani, con afflusso di mezzi privati. Gli azionisti hanno ripreso a investire nel capitale delle banche, che quindi sono più solide e meglio attrezzate per tornare a far credito. In questo l’America resta l’economia di mercato più efficiente, con una Borsa che serve a fare affluire capitale di rischio nelle società quotate. C’è anche un altro elemento: l’economia americana è meno bancocentrica. L’80 per cento dei finanziamenti alle imprese americane, infatti, viene da fonti non bancarie. Un ruolo lo hanno le compagnie assicurative e i fondi comuni d’investimento che comprano obbligazioni dalle imprese. Le obbligazioni emesse dalle imprese hanno un mercato ampio e liquido. L’Europa è lo specchio rovesciato: l’80 per cento dei finanziamenti alle imprese europee viene dalle banche.

E l’Italia? Nel corso del 2012 le banche hanno tagliato alle imprese Italiane 44 miliardi di euro di finanziamenti. I banchieri si sono incamerati gli aiuti di Draghi, ma non hanno restituito nulla al paese. Hanno negato agli imprenditori veri le risorse indispensabili per produrre, esportare, assumere. Con delle eccezioni, però. Ne ricordo una, molto significativa. Cito da un articolo dell’economista Alessandro penati, uscito sulla «Repubblica» l’8 giugno 2013 con il titolo Banche generose solo con Tronchetti. Il personaggio in questione, Marco tronchetti provera, è un tipico capitalista all’Italiana, di quelli che fanno parte del «salotto buono».

Ha combinato guai grossi, ma casca sempre in piedi. Con l’aiuto di chi? Ecco come Penati riassume gli ultimi episodi: «lo hanno salvato dall’avventura in Telecom; gli hanno finanziato e rifinanziato i tanti debiti dell’immobiliare e delle sue holding di controllo; lo hanno mantenuto in sella a Pirelli con un patto di sindacato. Ora le banche (Intesa e Unicredit) investono pure 230 milioni di capitale in una scatola, non quotata, al solo scopo di permettere a Tronchetti di comandare per altri quattro anni. … A parte i prestiti già erogati alle varie holding e attività immobiliari del gruppo (non molto utili alla crescita), con il patrimonio di vigilanza assorbito dai 230 milioni si sarebbero potuti erogare quasi 700 milioni di mutui residenziali».

Ecco una delle ragioni per cui in Italia il mercato immobiliare è fermo. I mutui per i lavoratori dipendenti come me, in Italia scarseggiano. Bisogna aiutare Tronchetti a mantenere il suo potere.

Dunque, le banche Usa hanno ritrovato solidità patrimoniale e hanno ricominciato a far credito a chi ne ha bisogno davvero, perché nel momento della crisi hanno reagito ricapitalizzandosi, cioè accogliendo nuovi azionisti. Un miliardario come Warren Buffett, per esempio, acquistò una partecipazione nel capitale della Goldman Sachs proprio al culmine del panico. Le banche Italiane non avrebbero potuto fare lo stesso? Certo, ma in tal modo avrebbero diluito il controllo dei «soliti noti», salotti buoni o fondazioni manovrate dai partiti. Questa è una differenza fondamentale tra il capitalismo americano e la periferica variante Italiana. L’America ha inventato il modello della «public company»: società quotata in Borsa, con azionariato diffuso, generalmente «contendibile» e cioè passibile di essere scalata. Un’operazione come quella che ha visto le due maggiori banche Italiane puntellare il controllo di tronchetti sulla pirelli – operazione dove non si è creata alcuna ricchezza, dove non esisteva progetto industriale degno di questo nome – è la tipica manovra di potere che nasce dalla logica del salotto buono, e che non sarebbe concepibile in America. La finanza di Wall Street ha perpetrato nefandezze orrende, ha delle colpe terribili, ma almeno da questo difetto è immune.

La «distruzione creatrice» del capitalismo americano, la vitalità grazie alla quale le maggiori aziende del mondo non esistevano neppure quarant’anni fa (vedi Apple o Microsoft ) è possibile perché non ci sono salotti buoni che ingessano e sclerotizzano gli assetti proprietari. Il capitale americano va a caccia dei progetti industriali, non degli amici da proteggere. I più grandi investitori, quelli che determinano i flussi di acquisti di azioni nel lungo periodo, sono soggetti istituzionali anonimi come i fondi pensione.

Nessuno sa chi siano i maggiori azionisti di Exxon o General Electric, di coca-cola o ibm, e a nessuno interessa davvero conoscere nomi e cognomi di questi investitori: sono giganti senza un volto, che si muovono in base a logiche di mercato e non cordate di potere.

L’unica logica che può assomigliare a quella di un «salotto buono» è la concertazione tra i big della finanza di Wall Street. Talvolta, riunioni segrete tra i più influenti banchieri hanno dato origine a svolte nei flussi di capitali, sfiduciando questo o quel mercato d’investimento (anche l’Eurozona è stata vittima di questo voto collettivo di sfiducia). Ma anche quando i comportamenti si avvicinano a manovre di cartello, puntano sempre a massimizzare il profitto, senza essere sostenuti da una logica politica mirata alla conservazione di assetti di potere. Il capitalismo americano ha le spalle larghe e un dinamismo che fa invidia al resto del mondo, proprio perché l’ampiezza delle forze in gioco impedisce che siano «contenute» in un solo salotto. Bill Gates e Warren Buffett sono amici per la pelle, ma l’unico salotto che li accomuna è quello delle fondazioni filantropiche alle quali appartengono ambedue. In Italia le fondazioni non hanno saputo sostenere iniziative imprenditoriali innovative a livello locale: fedeli al loro Dna politico, preferiscono aiutare i soliti noti.