La leggenda degli arcangeli
Tra i vincitori indiscussi della grande crisi, gli unici soggetti che ne escono più forti di prima, e addirittura circondati dall’ammirazione collettiva, ci sono loro. I super Banchieri.
Agli occhi dei cittadini, sono una categoria a parte. Più potenti ma anche molto più rispettati, considerati super partes, custodi di un bene pubblico supremo: la moneta. Quasi come arcangeli, così sono visti i banchieri centrali, che nessuno si sognerebbe di mettere «nel mucchio» insieme ai banchieri con la b minuscola, quelli che trafficano con il denaro a scopo di profitto.
Per loro ci sono delle etichette speciali, che servono a distinguerli. In Italia, per esempio, c’è il «governatore» della Banca centrale, in via nazionale. Un incarico che negli anni aurei della lira stabile e della ricostruzione postbellica (il nostro «miracolo cinese») fu ricoperto da personaggi della statura di Luigi Einaudi e Guido Carli, poi da Paolo Baffi, Carlo Azeglio Ciampi. Fior di galantuomini senza dubbio.
Con funzioni di responsabilità nazionale: il governo della moneta, la lotta all’inflazione, le «prediche» contro il debito pubblico e altri malcostumi nella gestione dell’economia.
Non parliamo della prestigiosa Federal Reserve americana deputata a gestire la moneta imperiale, il dollaro. O della Bundesbank, alla quale i tedeschi hanno tributato una sorta di venerazione, assegnandole una credibilità e un’autorevolezza superiori a qualsiasi governo.
Dunque, siamo quasi tutti in uno stato di soggezione nei confronti di questi super Banchieri. Siamo convinti che loro siano i banchieri «buoni», ben distinti dai banditi di Wall Street o di altre piazze finanziarie. I banchieri-banditi ci hanno cacciati in questa crisi, nessuno può dubitarne. Invece i super Banchieri, gli arcangeli, hanno fatto miracoli pur di salvarci: Ben Bernanke (FED) con iniezioni di liquidità tonificanti per l’economia americana; Mario Draghi (BCE) con l’innalzamento di una linea difensiva strepitosamente efficace per impedire il default di Spagna e Italia.
Il culto della personalità può raggiungere talvolta delle vette imbarazzanti. Seguendo a New York una visita del presidente del consiglio Italiano Enrico Letta, con varie tappe dalle nazioni Unite a Wall Street alla Columbia University, nei giorni 24-26 settembre 2013, ho osservato da vicino quel «culto». In sei conferenze successive, davanti a diverse audience Newyorchesi, Letta ha ricordato ogni volta la frase «miracolosa» con cui Draghi avrebbe sottratto l’Eurozona all’Apocalisse: «faremo tutto ciò che sarà necessario per salvare l’euro», così parlò Zarathustra-Draghi. La frase storica è quella che pronunciò a Londra il 26 luglio 2012, in una fase convulsa e drammatica di sfiducia dei mercati verso i paesi periferici e altamente indebitati dell’Eurozona.
Letta ha ripetuto quelle parole magiche a tutti i suoi interlocutori, visitando l’establishment americano quattordici mesi dopo il miracolo della resurrezione di Lazzaro.
Gli americani, in verità, non sembravano così affascinati dall’evento soprannaturale. Visto da New York, il miracolo è un po’ malconcio: metà dell’Eurozona ancora in recessione nella stessa data in cui stava parlando Letta, l’altra metà con tassi di crescita asfittici e molto inferiori a quelli statunitensi. Soprattutto, quella citazione del «miracolo Draghi» suonava surreale nella maestosa library della Columbia University. Accalcati a sentire il presidente del consiglio Italiano, oltre a tanti docenti e giornalisti, c’erano il fior fiore dei ricercatori Italiani, costretti a fuggire dal loro paese dove il tasso di disoccupazione giovanile è il triplo di quello americano. Miracolo Draghi? Agli occhi dei tanti cervelli Italiani esiliati nelle università americane, l’ossequio di Letta verso il super Banchiere europeo aveva qualcosa di incomprensibile, o perfino beffardo.
La distinzione tra banchieri buoni (governatori o presidenti delle banche centrali) e banchieri cattivi (quelli che ci negano il mutuo, speculano sui derivati, aiutano Tronchetti) è semplicistica. Per cominciare, tra le due professioni esistono delle porte girevoli, come si usa dire in America. Il sistema delle «revolving doors» descrive la rotazione frequente di incarichi tra settore pubblico e privato. Ha dei vantaggi perché inserisce nelle alte sfere dello Stato persone che hanno un cursus professionale non esclusivamente burocratico. Tuttavia ha delle controindicazioni, poiché i servitori dello Stato possono avere la tendenza a servire anche i loro ex o futuri datori di lavoro privati.
Draghi ha lavorato per la Goldman Sachs, una delle regine di Wall Street, prima e dopo essere stato un banchiere centrale. Obama è stato lì lì per nominare come successore di Bernanke alla Federal Reserve quel Larry Summers che aveva fatto soldi come consulente di vari hedge fund, oltre a essere stato grande teorico della deregulation finanziaria ai tempi in cui gestiva il tesoro per Bill Clinton. Alla fine Obama ci ha ripensato, grazie a una provvidenziale rivolta dell’ala sinistra del partito democratico.
Ma i conflitti d’interessi si sprecano, da una parte e dall’altra dell’Atlantico. Fra tutti, ne spicca uno macroscopico, ben più importante delle vicende personali di Draghi o di Summers. È il conflitto «vocazionale», che rende una banca centrale inevitabilmente sensibile ai bisogni delle banche a lei sottoposte. È una sorta di sindrome di Stoccolma alla rovescia. La sindrome di Stoccolma rende gli ostaggi psicologicamente succubi dei propri carcerieri fino quasi a simpatizzare con loro. La sindrome opposta, quella delle banche centrali, le rende alla lunga assai simpatetiche verso le loro «vigilate». A furia di esercitare funzioni di controllo, la banca centrale si prende a cuore le sorti del sistema bancario, anche troppo. E così abbiamo visto la FED e la BCE (più la Banca d’Inghilterra, quella del Giappone ecc. Ecc.) intervenire con migliaia di miliardi nell’ora del pericolo, per irrorare liquidità alle banche che stavano rischiando di fallire.
Col passare del tempo, soprattutto in Europa, ci si è accorti che le banche cattive, quegli aiuti non li restituivano alla comunità. Tutt’altro. Le linee di credito speciali, fornite nell’emergenza dalle banche centrali, hanno dato ossigeno ai banchieri, e basta. Le banche si sono tenute gli aiuti e hanno continuato a negare il credito, in particolare nei paesi periferici dell’Eurozona come l’Italia. Draghi, a dire il vero, se n’è lamentato pubblicamente, e più volte, affermando che si era rotta la «cinghia di trasmissione». Ma è mai possibile che la potente BCE non abbia alcuno strumento di pressione verso le banche commerciali, per indurle a essere un po’ meno egoiste? Nella favola dei super Banchieri buoni contro i banchieri cattivi c’è qualcosa che non convince.
La Grande contrazione iniziata nel 2008 ha cambiato profondamente il ruolo delle banche centrali, e pure i loro rapporti di forza con i governi. Senza risalire fino ai tempi di Einaudi e Carli, anche in epoca ben più recente la funzione di una banca centrale era relativamente più semplice e circoscritta. La sua priorità era sorvegliare la stabilità dei prezzi, quindi combattere l’inflazione (o, in certi casi, la deflazione). Lo strumento a sua disposizione era soprattutto uno: manovrare il livello dei tassi d’interesse ufficiali a breve termine. Usando quella leva, la banca centrale può rendere il credito più caro per frenare l’inflazione in un periodo di boom e surriscaldamento dell’economia. Oppure, al contrario, può abbassare i tassi e rendere il denaro meno caro, per dare una spinta alla ripresa in una fase di recessione. A questo si aggiungono altri compiti, come la vigilanza bancaria.
Ma con la Grande contrazione del 2008 molto è cambiato.
La durezza della crisi ha messo i banchieri centrali davanti a un fatto allarmante: la tradizionale politica monetaria era sostanzialmente inefficace. Abbassare il costo del denaro non bastava più, in una situazione di vera e propria depressione. Il fenomeno fu studiato già da John Maynard Keynes durante la Grande Depressione degli anni trenta.
In circostanze disperate, anche se offri credito a tasso zero le imprese non lo prendono, perché non sanno dove investire quei soldi («il cavallo non beve» fu l’espressione coniata da Carli per descrivere quel fenomeno; «non si può spingere un elastico» dice Bernanke). I consumatori non vogliono più indebitarsi perché temono di perdere il lavoro e il reddito, quindi di non poter più pagare i ratei del mutuo. In quanto alle banche, in un momento di panico non si fanno più credito neanche tra loro, perché temono che la concorrente o dirimpettaia stia per fare crac.
Questa, più o meno, era la situazione del 2008 e 2009. A mali estremi, estremi rimedi, decise la FED sotto la guida di Bernanke. Cominciò così una politica monetaria innovativa, un esperimento per certi aspetti grandioso per resuscitare l’economia americana. In gergo tecnico è stato battezzato «quantitative easing», parola che tocca tradurre con «facilitazione quantitativa». Di fatto, la FED cominciò a comprare in quantità immense dei titoli sul mercato: prima buoni del tesoro (americano), poi anche obbligazioni emesse dagli istituti di credito che erogano mutui. Tutto questo equivaleva a stampare moneta su una scala così vasta da inondare l’economia. Con il triplice effetto di abbassare il costo del credito, fare arrivare soldi «anche» all’economia reale e, infine, indebolire il dollaro per rendere più competitive le esportazioni made in Usa. Col tempo, altre banche centrali hanno imitato l’esempio della FED, in particolare quelle giapponese e inglese. La BCE ha incontrato degli ostacoli, perché la componente tedesca non tollera una politica monetaria che potrebbe (sia pure in un futuro lontano) fabbricare inflazione.
Di certo le banche centrali hanno guadagnato uno status ancora più prestigioso e un potere senza precedenti. Anche per la latitanza delle politiche di bilancio: in Europa la spesa pubblica antirecessiva è stata bloccata dall’austerity germanica; in America è stata ostacolata dalla destra repubblicana che controlla la camera. Con i governi impotenti o paralizzati, i super Banchieri oltre che arcangeli sono diventati dei giganti, gli unici attori con poteri speciali e decisi a usarli. Un vero e proprio ruolo di supplenza, il loro, che ha alterato i rapporti di forza tra le istituzioni democratiche e quelle tecnocrazie che sono le banche centrali.
Quanto è stato utile l’esperimento monetario eccezionale? In America qualche beneficio lo ha dato: si stima che dall’inizio della «pompa monetaria» abbia aumentato la crescita del 2 o 3 per cento. Ma perfino negli Stati Uniti mancano all’appello circa dieci milioni di posti di lavoro, rispetto all’occupazione che ci sarebbe oggi senza la crisi del 2008. In quanto all’Europa, è in condizioni molto peggiori soprattutto se si guarda al mercato del lavoro. La bilancia del potere si è spostata di sicuro in favore dei super Banchieri, ma la maggioranza dei cittadini stenta a vedervi un vantaggio per le proprie condizioni di vita.