Stampare moneta, creare lavoro?

Può una banca centrale «creare» lavoro in misura consistente? Quali sono i meccanismi con cui agisce? E perché lo fa? Sono questioni che sorgono alla luce dell’eccezionale esperimento storico condotto dal 2009 in poi: contrastare la recessione stampando moneta.

L’ultima di queste tre domande racchiude una differenza costituzionale tra la FED e la BCE. La banca centrale americana ha l’obbligo di perseguire il pieno impiego, non solo di lottare contro l’inflazione. E si vede, anche dall’attenzione che Bernanke ha dedicato dal 2009 in poi all’analisi della disoccupazione. In un discorso pronunciato a fine agosto 2012 in una conferenza a Jackson Hole, nel Wyoming, Bernanke ha sottolineato i danni enormi che ne derivano: «l’alto numero di persone senza lavoro è una grave preoccupazione, non solo per le enormi sofferenze e lo spreco di talenti umani che comporta, ma anche perché gli elevati livelli di disoccupazione creano alla nostra economia un danno strutturale che può durare anni». Questo tipo di analisi è condivisa da coloro che studiano da vicino la disoccupazione, e ancor più da coloro che la vivono. Oltre all’impoverimento materiale ce n’è uno psicologico, conseguente alla perdita di status, di ruolo sociale, di autostima. Quando l’inattività dura a lungo, inoltre, si dilapidano competenze, si degrada l’attitudine al lavoro, alle dinamiche relazionali che vi sono collegate. È una distruzione di ricchezza, superiore a quella di un impianto industriale che arrugginisce o diventa obsoleto per mancanza di manutenzione. Questi fenomeni sono tristemente noti dai tempi della Grande Depressione, ma non è scontato che catturino l’attenzione di un banchiere centrale e diventino il nucleo portante della sua strategia.

Come si è mossa la FED, per cercare di ridurre la disoccupazione? I suoi strumenti sono indiretti, ovviamente non è lei ad assumere i senza lavoro, e tuttavia la sua efficacia è indiscutibile. Nessuno dei tanti economisti presenti al simposio di Jackson Hole – anche quelli fortemente critici del suo operato – ha messo in discussione i calcoli di Bernanke: sui quattro milioni di nuovi posti di lavoro creati dal settore privato in America tra il 2009 e il 2012, la metà sono la conseguenza delle azioni della banca centrale.

Gli interventi della FED sono «costati» in quel triennio 2300 miliardi di dollari (poi è stata sfondata quota 3000 miliardi, nel 2013), ma a differenza del piano per la crescita di Barack Obama (800 miliardi di investimenti pubblici, varati nel gennaio 2009) ciò che ha fatto Bernanke non pesa sul contribuente, non fa aumentare il debito statale. La banca centrale, infatti, ha il potere di stampare moneta, questa è la sua ragion d’essere originaria.

Dunque, la FED ha creato migliaia di miliardi di moneta e li ha spesi per comprare buoni del tesoro americani (o titoli simili, come le obbligazioni emesse dagli istituti di credito immobiliare semipubblici). Perché, acquistando quei titoli, ha dato luogo a milioni di posti di lavoro in più? La catena di trasmissione degli effetti funziona in tre passaggi semplici.

Se la FED si presenta sul mercato come acquirente di treasury Bond, essa aumenta la domanda di questi titoli pubblici. Come in ogni mercato, un aumento della domanda fa salire il prezzo. Nel caso dei titoli l’aumento del prezzo ha un effetto particolare: fa scendere il rendimento.

Il meccanismo aritmetico è facile da capire. Immaginiamo un Bot che viene emesso dallo Stato per un valore nominale di 100 euro e una cedola d’interesse del 3 per cento, cioè con un rendimento di 3 euro dopo un anno. Lo stesso Bot viene venduto a un’asta dove la domanda sale così tanto che gli investitori pagano ben 120 euro per comprarlo. A quel punto il suo rendimento di 3 euro rappresenta un interesse del 2,5 per cento. Ecco perché si dice che l’interesse si muove «inversamente» al valore di un titolo. Se i titoli valgono di più, allora rendono di meno, e viceversa. Ed ecco come l’intervento della banca centrale con massicci acquisti di bond può spostare verso il basso i tassi d’interesse.

Il secondo passaggio avviene perché i tassi d’interesse che ci riguardano da vicino sono agganciati a quelli dei bond pubblici. Esempio: in America i mutui per la casa, a quindici o a trent’anni, hanno interessi che seguono strettamente quelli dei treasury Bond di lungo termine. Se la FED riesce ad abbassare i tassi dei bond, automaticamente accade lo stesso per i mutui-casa (e anche altre forme di credito al consumo, come i ratei sui prestiti dei concessionari di automobili).

Terzo passaggio, esempio concreto. Il calo dei tassi sui mutui c’è davvero, in effetti tante banche americane hanno proposto ai loro clienti di rinegoziare i mutui preesistenti, rifinanziandoli in base alle nuove condizioni in modo che si paghino rate mensili inferiori. Gli effetti sull’economia reale sono molteplici. Per chi è in cerca di prima casa, l’accesso al credito è meno costoso. Infatti, il mercato immobiliare Usa – che fu il «buco nero» all’origine dell’implosione finanziaria del 2008 – è stato il primo settore economico a mostrare segni di ripresa. Per chi ha già una casa, il rifinanziamento del mutuo preesistente crea una liquidità aggiuntiva che si può destinare a ridurre i debiti o a fare altre spese. Anche in questo caso l’effetto è percepibile.

C’è poi un altro effetto dello stampare moneta, di tipo indiretto. Generalmente, una banca centrale che aumenta la liquidità tende anche a «deprezzare» la propria valuta, la indebolisce rispetto ad altre monete. Questa può diventare una vera e propria svalutazione competitiva, che rende meno cari i prodotti nazionali e quindi dà una mano alla ripresa attraverso il rilancio delle esportazioni. Anche se non lo ha mai detto in modo esplicito, la FED ha usato anche questo strumento per creare lavoro e assecondare una reindustrializzazione degli Stati Uniti, una parziale inversione di tendenza dopo tanti decenni di delocalizzazioni che avevano portato a chiudere stabilimenti in America per aprirli in Asia.

E l’Europa? Se ricordiamo che alla sua nascita, nel 1999, l’euro scivolò per un certo periodo sotto la parità con il dollaro (1 euro valeva a un certo punto 97 centesimi di dollaro), balza agli occhi una contraddizione. Proprio mentre l’America usciva dalla crisi per prima, e ricominciava a crescere creando occupazione, l’euro restava forte rispetto al dollaro, spesso oscillando attorno, o sopra, quota 1,30 dollari per 1 euro. L’assurdità si scioglie se il nesso casuale si inverte: l’Europa è affondata più a lungo nella recessione anche perché penalizzata da un cambio troppo forte. La forza eccessiva della moneta è meno dibattuta dell’austerity, ma non è meno importante. Il Giappone ha copiato la ricetta della ripresa americana: politiche keynesiane (90 miliardi di euro in grandi opere) più moneta debole. La banca centrale svizzera, per impedire un rincaro della sua moneta che avrebbe messo fuori mercato alcune delle sue industrie, impose un tetto al valore del suo franco. La Cina ha navigato cautamente a metà strada fra il dollaro e l’euro, ben guardandosi dal seguire la moneta unica quando era troppo forte.

In questa «guerra delle monete», come la definì il ministro brasiliano dell’Economia Guido Mantega, un perdente sicuro è il settore manifatturiero europeo: da una parte è schiacciato da una domanda interna divenuta asfittica per gli effetti dell’austerity sul potere d’acquisto delle famiglie; dall’altra parte vede insidiate le sue quote di commercio mondiale da grandi potenze che manovrano spregiudicatamente il cambio. Il mandato istituzionale della Banca centrale europea lega le mani a Draghi, quand’anche volesse svalutare l’euro. Il mandato è scritto nei trattati costituzionali dell’Unione, e ricalca l’ossessione antinflazionistica della Bundesbank. Ma se la politica della BCE non ha la possibilità di rispondere colpo su colpo alle offensive convergenti di Giappone e Stati Uniti, l’handicap resterà grave per l’industria europea.