Impuniti
«Gli scandali bancari hanno distrutto la fiducia del pubblico, ricostruirla sarà una sfida» commenta amaro il capo della vigilanza sulla City di Londra, lord Turner. L’«Economist» conia un neologismo, «bankster», fondendo i due termini banchiere-gangster. Il «New York Times» sentenzia: «i banchieri non sentono né il vincolo della legge né quello della morale». Sembra di rileggere i titoli del 2008, l’anno del crac sistemico originato dai mutui subprime, invece sono cronache di quattro anni dopo. Imperterriti, impuniti, i banchieri colpiscono ancora. Come se nulla fosse accaduto, la finanza cattiva è più forte che mai.
L’estate del 2012 è segnata da una recrudescenza di scandali. Standard Chartered, gloriosa banca britannica molto radicata sui mercati asiatici, è colta in flagrante complicità con l’Iran. Calpestando le sanzioni, ha nascosto 60.000 operazioni – per un valore di 250 miliardi di dollari – con il regime di teheran. La sua consorella hsbc confessa riciclaggio di denaro sporco dei narcotrafficanti e ripetute violazioni delle leggi bancarie americane. JpMorgan Chase ha un buco di bilancio da 6 miliardi di dollari per speculazioni illecite sui derivati. Nel suo piccolo, in quell’estate del 2012 anche l’Italia fa la sua comparsa nelle cronache con il caso dell’amministratore delegato di Mediobanca, Alberto Nagel, indagato per ostacolo all’autorità di vigilanza nel pasticcio Ligresti-Fonsai.
Ma perfino questi scandali impallidiscono di fronte alla «madre di tutte le truffe», la vicenda del tasso LIBOR. Una frode così gigantesca, operata con tale spavalderia e arroganza, che l’amministratore delegato della banca più coinvolta, il dimissionario Robert Diamond di Barclays, ha dovuto ammettere di sentirsi «nauseato, fisicamente sconvolto» di fronte alle e-mail che i suoi trader si scambiavano nel corso della maxitruffa.
Lo scandalo del LIBOR, almeno per la sfacciataggine degli attori in gioco, merita di figurare a fianco della vicenda dei mutui tossici che provocò il tracollo globale del 2008, o delle frodi sui rating delle grandi agenzie S&P e Moody’s. Come spiega Gary Gensler, presidente di una delle authority di vigilanza sui mercati finanziari americani (la Commodity Futures Trading Commission), la manipolazione illegale del LIBOR «mette in discussione l’affidabilità di un tasso chiave, un tasso che determina i rendimenti per i risparmiatori che cercano di assicurarsi un futuro, o i costi dei mutui per la casa». Accertare che veniva truccato il LIBOR, è come scoprire che qualcuno ha il potere di modificare la misurazione delle ore, o della temperatura, a fini di lucro. Se è così, non possiamo più essere certi di nulla.
Che cos’è il LIBOR, esattamente? L’acronimo sta per London Interbank Offered Rate. È il più importante e universale di tutti i tassi d’interesse interbancari, una sorta di «termometro centrale» della finanza, da cui ne dipendono tanti altri che toccano la nostra vita quotidiana. Ogni mattina prima delle ore 11 di Londra, i dirigenti di 16 banche globali si coordinano per annunciare il «minor tasso di mercato» quale viene misurato in quella giornata. Sulla base di quel tasso le banche si regolano per farsi credito l’una con l’altra.
A cascata, dal LIBOR dipendono i tassi sui prestiti ai consumatori, sul credito rateale per l’acquisto di automobili, sui mutui per la casa, sui fidi bancari alle imprese. Il LIBOR influenza in cento modi i bilanci dei fondi pensione, perfino delle finanze pubbliche.
La Barclays ha ammesso di avere sistematicamente truccato quel tasso «ufficiale» per almeno quattro anni consecutivi, dal 2005 al 2009. Lo ha fatto per interesse privato. Il suo chief executive Diamond ci ha rimesso la poltrona, e la Barclays ha patteggiato il pagamento di 453 milioni di dollari di multe. Tra le sue complici nel «cartello» (definizione della commissione Ue), ci sono Citigroup, JpMorgan Chase e hsbc. L’economista John Stodder jr le descrive come «istituzioni un tempo rispettate, oggi infettate dall’avidità, che hanno sovvertito il capitalismo e rapinato i pensionati».
Ma processi e maximulte servono a qualcosa? L’interrogativo è legittimo, a quattro anni dalla «madre di tutte le crisi finanziarie»: era ragionevole pensare che il disastro del 2008 provocato dalla finanza tossica avrebbe vaccinato il sistema bancario dai comportamenti più distruttivi. Non è andata affatto così. La truffa del LIBOR, come si vede dalla sua cronologia, si è prolungata anche nel 2009, cioè dopo che le maggiori banche occidentali erano finite sotto tutela statale, assorbendo ingenti risorse pubbliche per i loro salvataggi. Erano istituti di credito seminazionalizzati, salvati dalla bancarotta con i soldi dei contribuenti, e continuavano a rubare. Com’è possibile? Dov’è l’origine profonda di un degrado così diffuso, così pervasivo, così incurabile?
Una risposta la fornisce l’analisi delle ultime sanzioni comminate in America contro le aziende colpevoli di frode ai danni dello Stato. Magistratura e organi di controllo colpiscono con velocità negli Stati Uniti, eppure non basta.
Dopo lo scoppio della «bomba» del LIBOR, a metà del 2012, in un solo semestre le autorità americane hanno assegnato 8 miliardi di dollari di multe. A seguire l’escalation degli scandali, sorge il dubbio che le sanzioni non siano un deterrente efficace. Forse perché colpiscono le società ma non i loro capi. Lo dice apertamente il senatore Jack Reed, democratico del Rhode island: «il cittadino si chiede com’è possibile che tante imprese commettano reati gravi, e tuttavia nessuno dei dirigenti venga colpito individualmente».
In realtà non è proprio così: la sola authority di Borsa, la Securities and Exchange commission (Sec), ha perseguito 55 top manager con 2,2 miliardi di multe. È vero, però, che nella maggioranza dei casi la giustizia è impersonale, incrimina l’azienda anziché i suoi capi, i quali, pur dimissionati, a volte si ritirano con «paracadute d’oro», bonus e superpensione.
La spiegazione va cercata nel tradizionale pragmatismo dei sistemi giudiziari anglosassoni, in particolare quello americano, che preferisce «andare a caccia delle tasche più capienti» («go after deep pockets»), cioè puntare dritto verso le finanze aziendali da cui si possono estrarre le multe più pesanti. Questo realismo, che bada al sodo e vuole massimizzare l’incasso di multe per lo Stato, ha un effetto collaterale perverso. Le grandi società per azioni spalmano le multe nei loro bilanci, scaricandole sugli azionisti e in ultima istanza sui clienti attraverso aumenti di prezzi, tariffe, commissioni e interessi. Per il top manager, dunque, non c’è un disincentivo sufficiente. Un responsabile della vigilanza bancaria Usa ha confessato al «New York Times»: «i banchieri oggi mi sembrano perfino più prepotenti di quanto fossero prima della crisi». L’impunità individuale alimenta l’arroganza. Lord Turner arriva a conclusioni analoghe: «la dimensione dell’attività finanziaria è aumentata, il suo peso sull’economia è sempre più largo, di conseguenza i potenziali benefici dalle frodi sono ancora maggiori». Il crimine paga, se a rapinare la banca è il banchiere stesso.
La metastasi è così grave e pervasiva da provocare un clamoroso ravvedimento in uno dei più grandi banchieri d’America. Il caso del «banchiere pentito» è quello di Sanford Weill, colui che negli anni novanta guidò la folle corsa verso il gigantismo della finanza. Weill fu l’artefice della fusione tra Citicorp e Travelers, da cui nacque il colosso Citigroup.
Ebbe un’influenza politica notevole, ispirando la «convergenza bipartisan» verso la deregulation finanziaria. Fu uno degli attori chiave nell’iter della legge del 1999, che con il voto repubblicano e democratico, e la firma dell’allora presidente Bill Clinton, accelerò fusioni e acquisizioni. Quella legge segnava la fine della regola sacra contro la «mescolanza dei mestieri», applicata dopo il crac di Wall Street del 1929. La storica legge Glass-Steagall del 1933, approvata per volere di Franklin Roosevelt nella Grande Depressione, vietava alle banche che raccolgono depositi dei risparmiatori di usarli per investimenti speculativi o per acquisire partecipazioni azionarie. Era una sana divisione dei rischi, andata in frantumi nel 1999 sotto i colpi del pensiero unico neoliberista.
Oggi Weill fa autocritica. «Dobbiamo tornare a separare i banchieri d’investimento dalle banche di deposito» ammette l’ex fondatore di Citigroup. Prima di lui, lo va dicendo da tanti anni paul Volcker, il grande saggio della finanza, che fu presidente della Federal Reserve. Nel 2008 Volcker era uno dei consiglieri più ascoltati da Barack Obama. Poi il presidente dovette prendere le distanze dai suoi suggerimenti troppo radicali. Non sarebbero mai passati al congresso, davanti allo sbarramento delle lobby bancarie. Il che ci riporta all’origine stessa della crisi, la rottura degli equilibri fra oligarchie finanziarie e governi. Sicuri della loro impunità, i banchieri hanno «investito» nella politica e ne sono diventati spesso i padroni, o almeno dei robusti azionisti con potere di veto. Senza aggredire il loro potere, e possibilmente smembrare le basi stesse del loro «perimetro aziendale», la lista degli scandali è destinata ad allungarsi, insieme al bilancio dei danni sociali e collettivi.