Ventimila leghe sotto i mari
Sul finire del 2011, l’America si trascina faticosamente fuori dalla recessione, l’Eurozona invece sta sprofondando in modo drammatico. Passa inosservato, nell’ottobre di quell’anno, un exploit tecnologico che sembra degno d’altri tempi: rievoca l’era entusiasta e ottimista della New Economy. È il primo cavo sottomarino a fibre ottiche a essere posato sul fondo dell’oceano Atlantico da oltre un decennio. Ma a differenza di quelli che venivano inaugurati sul finire degli anni novanta, non serve a trasferire le telefonate, le e-mail e altri collegamenti internet. Questo nuovo supercavo sottomarino tra New York e Londra, costruito a cura della società Hibernia Atlantic, è riservato esclusivamente alle transazioni finanziarie. Serve a far guadagnare «ben» cinque millisecondi ai trader delle due principali piazze finanziarie del globo. Cinque millisecondi sono un’eternità, nel mondo delle transazioni computerizzate.
Ma siamo sicuri che sia un investimento utile?
L’inaugurazione da parte della Hibernia Atlantic avviene proprio mentre sono nel mirino dei governi le transazioni superveloci e automatizzate, programmate attraverso appositi software informatici, e note come «high-frequency» o «high-speed» trading. Stati Uniti, Unione europea, Canada: sulle due sponde dell’Atlantico gli organi di vigilanza e le autorità di controllo sospettano che ci sia qualcosa di marcio nel mondo delle transazioni ad alta frequenza, che per comodità abbrevio come HFT. La vittima inconsapevole dell’alta frequenza, infatti, siamo tutti noi: ovvero i risparmiatori che affidano in gestione i propri soldi a banche, fondi comuni, assicurazioni, le cui strategie d’investimento vengono saccheggiate dai predatori dell’HFT.
Il trucco più frequente, il più facile e meno rischioso: approfittando proprio dei millisecondi di vantaggio che hanno sugli investitori normali, gli operatori dell’HFT piazzano i propri ordini in anticipo sull’arrivo di grosse transazioni, e così lucrano il vantaggio di chi conosce per primo la direzione in cui si muoveranno la domanda e l’offerta, l’aumento o la discesa dei prezzi. Ma ci sono altre dinamiche, più complicate e più sottili, che gli stessi operatori non controllano fino in fondo, e quale sia il pericolo lo si è visto, per esempio, nella famigerata seduta del 6 maggio 2010, passata alla storia per l’improvviso tracollo di 700 punti dell’indice Dow Jones, senza una ragione precisa se non «l’impazzimento» dei programmi ad alta frequenza.
Gli operatori di Wall Street e della City di Londra naturalmente respingono le accuse, ribattono che la stragrande maggioranza delle transazioni è legittima, difendono l’HFT come un fattore di efficienza dei mercati, che li rende più liquidi e quindi abbassa il costo del singolo investimento.
Questa è la classica autodifesa che attinge all’armamentario ideologico del neoliberismo: è un leitmotiv ricorrente dall’epoca di Milton Friedman e della Scuola di Chicago, che posero le fondamenta teoriche per il grande matrimonio fra le Borse e le tecnologie informatiche fin dagli anni Settanta. Di questo verbo neoliberista fa parte anche la convinzione che gli operatori del mercato siano i primi ad avere interesse alla regolarità delle transazioni, e quindi siano motivati ad autodisciplinarsi. (l’allora presidente della Federal Reserve Alan Greenspan diceva la stessa cosa a proposito dei banchieri fino al… 2007.) Ma un’analisi compiuta sull’indice delle 500 maggiori società quotate ha dimostrato una formidabile crescita della volatilità, con oscillazioni sempre più ampie all’insù e all’ingiù da quando esiste l’HFT elettronico. Tutto questo in coincidenza con un potenziamento tecnologico che ha ridotto nell’angolo l’elemento «umano» che opera sui mercati.
La leva dell’HFT è decisiva per capire l’aumento nel volume delle transazioni: ancora all’inizio del 2007, prima della recessione e quindi con un’economia reale ben più florida di quella attuale, il volume degli scambi quotidiani sulle Borse americane coinvolgeva 6 miliardi di azioni. Sei anni dopo siamo a quota 8 miliardi. L’aumento dell’incidenza dell’HFT è tale che oggi, in America, due azioni su tre vengono scambiate attraverso quei programmi ad alta velocità. E sempre più spesso ciò avviene anche in altre Borse del mondo, a cominciare da quella di Londra. I casi di flagranza di reato sono ancora pochi, perché gli strumenti per indagare sono rudimentali.
È un classico esempio in cui la caccia al ladro si svolge in modo asimmetrico: è sempre il ladro ad avere una lunghezza di vantaggio in termini di know how tecnologico.
Ma è interessante ricordare alcune punizioni. A Londra, le autorità di vigilanza hanno multato per 8 milioni di sterline una società di trading canadese, la Swift trade, per l’uso di una tecnica chiamata «layering». Si tratta dell’emissione di massicci ordini di acquisto o vendita, che poi vengono cancellati una frazione di secondo prima che siano effettivamente eseguiti. La tecnica è molto in voga, si direbbe, perché poco dopo il caso londinese anche a New York la financial industry Regulatory Authority ha incastrato un reprobo. In quel caso si trattava della Trillium Brokerage Services, multata per 2,3 milioni di dollari. Stessa tecnica di layering anche per lei. La pratica della cancellazione repentina di migliaia di ordini poco prima che vengano eseguiti è molto diffusa. È chiaro a cosa serve: prima i trader dell’HFT «sparano» sul mercato ordini voluminosi, sapendo che avranno l’effetto di spostare i prezzi, poi li cancellano e piazzano altre transazioni per lucrare sui movimenti di prezzi che loro stessi hanno provocato. Tutto questo è molto più raffinato e sottile dell’aggiotaggio vecchio stile, ed è possibile solo grazie alla tecnologia.
Di tutti gli antidoti in circolazione, il più efficace resta la Tobin Tax, cioè l’imposizione di un prelievo fiscale su ogni transazione finanziaria. La Tobin Tax avrebbe un’aliquota molto bassa, sicché l’impatto sul risparmiatore sarebbe insignificante. Ma essendo una tassa che scatta a ogni operazione, il suo costo sarebbe invece tutt’altro che trascurabile per i colossi dell’HFT. Di fatto, la Tobin Tax colpirebbe in modo sproporzionato proprio loro, i grandi squali delle transazioni alla velocità della luce, quelli che non hanno bisogno di fare insider trading perché ci bruciano sul traguardo sapendo già quel che facciamo noi. Guarda caso, la Tobin Tax appare e scompare, ma finisce sempre su un binario morto. È forse l’unico caso di una tassa che piacerebbe «al 99 per cento» delle persone, ma l’1 per cento che ne blocca l’approvazione ha dimostrato di avere un potere di veto finora insormontabile. Dalla Tobin Tax si sono chiamati fuori molto presto i due paesi che hanno le maggiori piazze finanziarie del pianeta, Stati Uniti e Inghilterra. Solo undici membri dell’Eurozona hanno cercato di portarla avanti, tra continui ritardi e tentennamenti. Intanto, ventimila leghe sotto i mari, la folle gara dell’alta velocità speculativa non conosce tregua.