Se il capitalismo fa l’autocritica
C’è un nuovo guru i cui testi sono diventati un’ispirazione per Wall Street: è un tedesco barbuto, si chiama Karl Marx.
A riscoprire l’autore del Capitale e del Manifesto del partito comunista non arrivarono per primi gli indignati. Il revival di Marx era già iniziato altrove: ai piani alti di quegli stessi grattacieli di Wall Street contro cui i manifestanti gridavano i loro slogan.
Michael Cembalest, capo della strategia d’investimento per la JpMorgan Chase, in una lettera riservata ai clienti vip della sua banca scriveva nel 2011 che «i margini di profitto sono ai massimi storici da molti decenni e questo si spiega con la compressione dei salari». Cembalest riecheggiava l’analisi di Marx sulle crisi di sovrapproduzione, provocate da un capitalismo che comprime il potere d’acquisto dei lavoratori. Lo stratega di Wall Street sottolineava in quello studio che a fronte dei profitti record c’è «un livello salariale sceso ai minimi da cinquant’anni, sia se lo si misura in percentuale del fatturato delle imprese, sia in proporzione al PIL americano». Tre suoi colleghi di Citigroup, altro colosso bancario, nei loro studi per i clienti definiscono gli Stati Uniti una «plutonomia, dominata da una ristretta élite del denaro». La rivista «the New Republic » parla di «bolscevismo alla Brooks Brothers»: è la riscoperta delle teorie classiche del padre del comunismo da parte di chi indossa le celebri camicie che sono uno status symbol dell’élite di Manhattan. La rivista economico-finanziaria «Bloomberg Businessweek» ha intitolato un reportage Marx to Market, come la crisi ha reso le sue teorie rilevanti. Citava un altro esperto di una grande banca, George Magnus della Ubs, secondo il quale l’attuale livello di disoccupazione può essere descritto come «l’esercito industriale di riserva» di Marx: un’arma in mano ai capitalisti per ricattare chi ha lavoro e comprimere i livelli retributivi. Il capitalismo – sostiene «Bloomberg Businessweek» – «ha cercato di ovviare alla depressione dei consumi con la finanza creativa e cioè offrendo all’esercito dei nuovi poveri un credito a buon mercato: ma lo scoppio della bolla dei mutui subprime ha interrotto quell’illusione».
Il pensiero marxiano torna a fiorire nelle aule universitarie, e non solo nei corsi di scienze politiche e di storia che non lo avevano mai completamente dimenticato. Alla University of California di Santa cruz un circolo interdisciplinare di lettura e commento dei testi del grande karl, insieme a quelli di friedrich Engels e di Antonio Gramsci, si è formato attorno al dipartimento di Scienze ambientali, dove abitualmente si prediligono chimica e biologia. È un inizio di svolta rispetto agli ultimi trent’anni, segnati dall’egemonia culturale dell’«edonismo reaganiano»?
Questa è la nazione dove parlar male dei ricchi era diventato un tabù, perché il dogma dell’American Dream è che un giorno ricchi lo saremo tutti.
Per anni in cima alla classifica dei best seller si sono avvicendati libri come Secrets of the Millionaire Mind, The Millionaire Next Door, Rich Dad Poor Dad: i lettori sembravano ossessionati dalla voglia di carpire i segreti del milionario della porta accanto, il suo modo di pensare, i metodi con cui educa i suoi figli. Perfino le chiese evangeliste si erano adeguate: scordandosi della parabola sul «ricco e la cruna dell’ago», avevano abbandonato il vangelo di Matteo a favore di un culto della prosperità: successo e ricchezza come segni della predestinazione divina. Reagan, il padre storico dei conservatori, diede la sua versione della discriminante tra destra e sinistra: «noi aumentiamo la ricchezza nazionale perché tutti abbiano di più, loro redistribuiscono quello che abbiamo già, cioè spartiscono la povertà». Fu un dogma incrollabile, quello che «l’alta marea del benessere capitalista fa salire gli yacht dei miliardari così come le barche dei pescatori». Ma il verbo reaganiano ha perso credibilità, dopo trent’anni di regressione delle classi lavoratrici e del ceto medio.
Sotto lo shock di questo declino della middle class, si comincia a riscoprire che gli anni d’oro dell’American Dream furono segnati proprio dalla lotta di classe: all’epoca dei presidenti democratici Woodrow Wilson e Franklin Roosevelt c’erano potenti forze socialiste nel paese; sotto John kennedy e Lyndon Johnson la piena occupazione coincise con il massimo potere contrattuale dei sindacati. David harvey, il settantasettenne storico e geografo che ha sempre insegnato Marx ai suoi studenti (prima a Oxford poi alla Johns Hopkins), è convinto che la storia si ripete: come ai tempi della Grande Depressione, «in mano al capitalismo sregolato e alla destra, l’economia di mercato va verso l’autodistruzione». In effetti, tra i capitalisti odierni si levano delle voci contro la finanziarizzazione. Warren Buffett ha definito i derivati «un’arma di distruzione di massa». Lui e Bill Gates fanno campagna per una tassazione più equa, che colpisca l’immensa elusione fiscale delle rendite finanziarie. C’è qualcuno, lassù in alto, che la pensa come Keynes e Roosevelt negli anni trenta: l’economia di mercato si salva solo se crea un benessere diffuso, un potere d’acquisto ben distribuito. Le diseguaglianze non sono solo moralmente inique, sono anche inefficienti e pericolose. Perfino per i capitalisti.
In Italia qualcuno lo aveva capito molto tempo fa. Non è un complimento dire di Adriano Olivetti che fu «uno Steve Jobs Italiano». Era molto meglio. Per la cultura umanistica, per la sensibilità sociale, per l’attenzione ai diritti dei lavoratori. Leggete questi interrogativi che si poneva Olivetti più di sessant’anni fa: «Può l’industria darsi dei fini? Si trovano, questi fini, semplicemente nei profitti? O non vi è qualcosa di più affascinante, una trama ideale, una destinazione, una vocazione?». Per tutta la vita Olivetti s’impose di ricordare un ammonimento di suo padre Camillo, il fondatore dell’azienda di Ivrea: «Ricordati che la disoccupazione è la malattia mortale della società moderna; devi lottare con ogni mezzo affinché gli operai di questa fabbrica non abbiano a subire il tragico peso della miseria avvilente che si accompagna alla perdita del lavoro». Adriano commentava: «il lavoro dovrebbe essere una grande gioia ed è ancora per molti tormento, tormento di non averlo, tormento di fare un lavoro che non serva, non giovi a un nobile scopo». No, la Apple fondata da Jobs che sfrutta gli operai cinesi ha ancora qualcosa da imparare da Olivetti.
Adriano olivetti è un personaggio da riscoprire: di un’attualità sconcertante, capace di intuizioni avanzatissime.
Lui che fu un protagonista – controverso, incompreso – del primo boom industriale Italiano, già vedeva un futuro postindustriale. Dalla società alla politica, dalla tecnologia all’urbanistica, ha ancora molto da insegnarci. Basta leggere Il mondo che nasce (Edizioni di comunità), una raccolta dei suoi discorsi dal dopoguerra al 1959, cioè l’anno prima della sua morte. La sua solidarietà con i lavoratori non nasceva da un percorso astratto. Da ragazzo, il padre Camillo lo aveva messo a lavorare in fabbrica: sul serio, non per una di quelle sceneggiate che altri rampolli di dinastie industriali hanno recitato. Ecco come Adriano ricordava l’esperienza: «conoscevo la monotonia terribile e il peso dei gesti ripetuti all’infinito davanti a un trapano o a una pressa, e sapevo che era necessario togliere l’uomo da questa degradante schiavitù. Bisognava dare consapevolezza di fini al lavoro». Un altro passaggio autocritico, che pochi top manager moderni vorrebbero pronunciare: «Percorsi rapidamente, in virtù del privilegio di essere il primo figlio del principale, una carriera che altri, sebbene più dotati di me, non avrebbero mai percorsa. Imparai i pericoli degli avanzamenti troppo rapidi, l’assurdo delle posizioni provenienti dall’alto».
Olivetti si forma in un periodo di grandi delusioni, di utopie sconfitte. Dal 1919 al 1924, mentre studia al politecnico di Torino, assiste alla «tragedia del fallimento della rivoluzione socialista». Nel 1925 parte per l’America, a studiare il grande laboratorio della modernità, e in seguito sarà affascinato dal New Deal di Roosevelt. Torna nella torino di Gramsci e Luigi Einaudi, si avvicina al socialismo di Gaetano Salvemini. Con Sandro Pertini e Carlo Rosselli, è uno degli antifascisti che aiutano il leader socialista Filippo Turati a fuggire dall’Italia. Chiama come direttore della sua fabbrica un poeta-ingegnere, Leonardo Sinisgalli. Ha inizio così quel ruolo inedito e irripetibile che ebbe la sua Olivetti: un polo di attrazione di intellettuali, coinvolgendo scrittori come Ignazio Silone, Franco Fortini, Paolo Volponi, sociologi come Franco Ferrarotti e Luciano Gallino, lo psicoanalista Cesare Musatti. Le sue fabbriche, i palazzi di uffici e i negozi nel dopoguerra saranno disegnati dai migliori architetti del mondo. Diventa editore, tra l’altro dell’«Espresso», fa tradurre in Italiano John Kenneth Galbraith e Hannah Arendt.
Negli anni cinquanta, quando l’Italia è la Cina d’Europa – per il dinamismo, la velocità di crescita, ma anche lo sfruttamento –, lui crea un’oasi di diritti sociali. Riduce l’orario a parità di salario per arrivare alla settimana di cinque giorni. Garantisce alle lavoratrici nove mesi di congedo maternità col 100 per cento di retribuzione; e la parità salariale con gli uomini. Finanzia un welfare aziendale, dalla scuola alla sanità. Ma avverte il pericolo che «queste istituzioni diventino strumenti di paternalismo», se un’azienda dovesse elargirle come «concessioni a carattere personale». Perciò il suo sguardo si allarga oltre l’azienda. «vedevo che ogni problema di fabbrica diventava un problema esterno.» nasce così la sua idea di comunità, che renda «la fabbrica e l’ambiente circostante economicamente solidali». È una sorta di localismo moderno, che vuole rifondare la democrazia dal basso, cominciando da un’unità «né troppo grande né troppo piccola, territorialmente definita, concreta». Capisce che lo Stato va rifondato un ingranaggio alla volta. «Era inutile e pericoloso occuparsi della politica nazionale se non si fossero compiute delle minori esperienze nella vita del comune e della provincia, se non si avesse compreso qual era il modo con cui lo Stato esplicava la sua autorità e le sue funzioni nella vita di tutti i giorni per i cittadini. Partendo non già da un vasto e nebuloso programma teorico ma da un esame circostanziato, sperimentale, ufficio per ufficio.» nella sua carriera industriale colleziona anche successi di mercato e tecnologici. La macchina da scrivere portatile lettera 22 diventa un oggetto di culto dal 1950. Nel 1952 il MoMA di New York celebra la Olivetti come una punta avanzata nel design. Nel 1959 è la prima azienda al mondo a produrre il computer mainframe Elea 9003. Nel presentarlo, Olivetti ha ancora parole profetiche: «La conoscenza illimitata di dati consente di raggiungere obiettivi che fino a ieri sarebbe stato assurdo proporsi», ma aggiunge che l’industria deve mettere le nuove tecnologie al servizio del «progresso comune, economico, sociale, etico: la tecnica al servizio dell’uomo». Dà l’esempio mettendo i computer a disposizione delle università. Errore grave sarebbe consegnare Olivetti a un pantheon di grandi uomini del passato dalla statura irripetibile, dimenticandosi in quale tempo si formò. Lui lo ricordava così: «C’è una crisi di civiltà, c’è una crisi sociale, c’è una crisi politica. L’ingranaggio della società che è stato rotto nell’agosto 1914 non ha mai più funzionato, e indietro non si torna. Come possiamo contribuire a costruire quel mondo migliore che anni terribili di desolazione, di tormenti, di disastri, di distruzione, di massacri, chiedono all’intelletto e al cuore di tutti?».