Quel che resta dopo l’indignazione

Il 28 novembre 2011 ero in trasferta da New York a Washington per seguire un vertice Usa-Ue, l’incontro tra Barack Obama e la troika europea di Herman van Rompuy, José Barroso e lady Catherine Ashton. Appena arrivato nel mio albergo, il JW Marriott all’angolo della Quattordicesima Strada, ho notato un cambiamento nel panorama rispetto alla veduta che mi è familiare. Oltre alla Pennsylvania Avenue e al celebre obelisco, dalle finestre dell’albergo si vedeva anche l’accampamento di Occupy Dc (abbreviazione per District of Columbia, dove si trova la capitale federale). Nei giorni del vertice ha piovuto, poi si è alzato un vento gelido, ma quei ragazzi hanno resistito intrepidi nelle loro tende, dormendo nei sacchi a pelo, a pochi isolati dalla Casa Bianca.

Noi Newyorchesi tendiamo a credere che Manhattan sia il centro del mondo, e perciò Occupy Wall Street ci sembra il fenomeno più importante di questa stagione di proteste.

In realtà, il movimento degli indignati americani ha molte facce e molte sedi. Diversamente dall’Europa, nessuna delle sue versioni si è lasciata contaminare dalla violenza.

Scontri ci sono stati soprattutto a Oakland, in California, sgomberi brutali sono avvenuti a Los Angeles, Chicago, Filadelfia, qualche episodio di tensione e qualche dozzina di arresti (brevi) anche a Manhattan.

Mentre scrivo, sul finire del 2013, di Occupy non resta quasi nulla, almeno in apparenza. Zuccotti park, il suo epicentro a Wall Street dove nacque il 17 settembre 2011, due anni dopo è tornato a essere un anonimo giardinetto nel cuore del quartiere finanziario, a Downtown Manhattan.

La tentazione è di liquidare Occupy come un fenomeno effimero, che non lascia traccia di sé. Svanito. Se i suoi nemici erano i banchieri-banditi, l’oligarchia dell’1 per cento, i privilegiati dell’alta finanza, il verdetto sembra chiaro: hanno stravinto i nemici, Occupy si è ritirato in buon ordine. La sua scomparsa conferma che viviamo in un’epoca di smobilitazione, di arretramento dei movimenti di massa, di sfiducia e disillusione nella capacità di cambiamento?

Eppure, prima di liquidare Occupy con un epitaffio sbrigativo, sento di dover ricordare che quel movimento è riuscito a compiere diversi miracoli, finché c’era. Anzitutto, si è conquistato una smisurata attenzione da parte dei media, sostanzialmente ha fatto da sinistra l’operazione di «occupazione del discorso pubblico» che due anni prima era riuscita al Tea Party, cioè il movimento antitasse e anti-Stato della destra americana. Ma per compiere quell’exploit il Tea Party aveva dovuto portare in piazza, a Washington, duecentomila persone, mentre Occupy Wall Street non ha mai mobilitato folle così numerose e tuttavia ha catturato l’immaginazione dei media e di un bel pezzo di opinione pubblica. Inoltre il Tea Party, con il suo populismo ultraliberista e mercatista, è un movimento solo apparentemente spontaneo: dietro ci sono potentati economici come la famiglia Koch e il think tank FreedomWorks, cioè le grandi lobby capitalistiche che da decenni finanziano la destra neoconservatrice. Occupy Wall Street, invece, era un vero movimento spontaneo, nato dal basso, senza leader e senza organizzazione. Il suo nome lo ha inventato il direttore di una rivista anarchico-libertaria canadese, Kalle Lasn di «Adbusters». Non c’era nulla di veramente organizzato, non una struttura né un’agenda politica, eppure Occupy Wall Street è riuscito a spostare l’attenzione nazionale.

Fino al 2010 sembrava che in America l’unica emergenza da affrontare fosse il debito pubblico; poi, grazie allo slogan sul «99 per cento contro l’1 per cento», si è imposto il tema delle diseguaglianze. Obama e molti leader democratici, pur senza voler «mettere il cappello» sugli indignati, hanno espresso una esplicita simpatia verso questo movimento. Di fatto, la sinistra americana ha ritrovato la voglia di cimentarsi con temi sociali. È dagli anni Settanta che il partito democratico non osava più identificarsi con forza con la diseguaglianza. Nella mia esperienza di vita in America, ricordo occasioni in cui la sinistra ha saputo riempire le piazze, ma erano tutte single issues su temi da società postindustriale, movimenti su rivendicazioni tipicamente «valoriali »: il pacifismo contro la guerra in Iraq nel 2003, o i diritti dei gay. La lotta redistributiva sembrava invece un tema perdente, così come era perdente davvero la battaglia dei sindacati, costretti a un declino pauroso negli ultimi trent’anni.

Occupy Wall Street è riuscito a dimostrare che la questione delle diseguaglianze non è superata: sondaggi di ogni colore hanno rivelato che gli slogan contro «l’1 per cento» sono popolari, e addirittura trasversali. Non solo la battaglia contro l’allargarsi del divario raccoglie un consenso schiacciante tra gli elettori democratici, ma sul fondo sono d’accordo anche consistenti quote degli indipendenti e dell’elettorato repubblicano. Del resto, va ricordato che lo stesso Tea Party, alle sue origini, aveva denunciato il salvataggio di Wall Street a spese del contribuente (il fondo Paulson per evitare crac bancari varato nel 2008 e usato anche dall’amministrazione Obama). Poi, strada facendo, il Tea Party è diventato una costola del partito repubblicano, la sua ala più intransigente e movimentista; e nel frattempo i notabili repubblicani hanno manovrato d’intesa con le lobby di Wall Street per boicottare le nuove regole sui mercati finanziari. Occupy Wall Street ha messo a nudo la contraddizione, e perciò ha pescato consensi anche dentro quel ceto medio impoverito dalla crisi che simpatizza per il Tea Party.

Se Wall Street è riuscita a evitare un processo alle sue colpe, una vera resa dei conti con l’establishment della finanza, è perché il suo peso politico resta formidabile. Quando Obama ha voluto mettere alla testa della nuova authority per la protezione del risparmiatore la giurista Elizabeth Warren, avversaria implacabile dei banchieri, la sua nomina è stata affossata al Senato di Washington dai repubblicani. Il partito democratico non è immune dalle influenze dei banchieri: nel 2008 furono in testa alla lista dei donatori per la prima campagna di Obama. Quando il presidente ha preso le distanze e ha stigmatizzato pubblicamente i superstipendi dei banchieri, si è visto accusare di essere «anti economia di mercato, quindi antiamericano». Nel 2012 si può dire che Obama ha vinto la sfida della rielezione contro Wall Street (che aveva puntato tutto su Romney), ma poi al congresso la battaglia per le riforme dei mercati è rimasta tutta in salita. Lo stesso presidente ha nominato dei bravi «mastini» alla testa delle authority, non sempre però li ha incoraggiati a sfidare a muso duro la lobby della finanza. La forza nascosta di Wall Street non è solo negli assegni staccati per finanziare i politici. La piazza finanziaria più importante del pianeta è diventata anche il simbolo di un’ideologia, un deposito di valori non solo pecuniari ma culturali. In una crudele ambiguità, i banchieri parlano di «creazione di valore» quando ristrutturano e licenziano per far lievitare il corso delle azioni. Il primato del capitale: Wall Street significa questo.

Il movimento degli indignati americani aveva messo il dito su una questione cruciale: esiste un capitalismo che non sia finanziario? La famosa distinzione tra economia reale (industria manifatturiera in testa), cioè tutto ciò che produce cose e servizi effettivamente utili, e «l’economia di carta» è diventata labile e sfuggente probabilmente già nella Firenze dei Medici. Sarebbe stato difficile per degli imprenditori tipici di quell’epoca, come per gli armatori veneziani o genovesi nell’era delle grandi scoperte, finanziare il commercio delle spezie e dei tessuti con l’oriente o le nuove indie senza qualche banchiere che anticipasse almeno una parte del capitale. La finanza è al servizio dell’economia: è questa l’autodifesa dei banchieri anche oggi. Tutto si fermerebbe, saremmo ridotti alla rovina, se s’interrompesse per un attimo quella circolazione del credito che è linfa vitale del tessuto economico: dalla Silicon Valley alla tintoria sotto casa, probabilmente non un solo attore economico è in grado di stare in piedi senza qualche forma di finanziamento esterno.

C’è però un momento nella storia del capitalismo in cui la finanza prende il sopravvento? Se c’è, non è recentissimo, visto che uno dei classici pensatori marxisti, l’austriaco Rudolf Hilferding, scriveva Il capitale finanziario per teorizzare già nel 1910 una mutazione nella natura del capitalismo. La crisi del 1929 fu anzitutto innescata da fenomeni di speculazione finanziaria, poi contagiò l’economia reale fino a provocare la Grande Depressione. Gli studiosi Kenneth Rogoff e Carmen Reinhart, nel saggio Questa volta è diverso (il Saggiatore), analizzano secoli di crisi economiche e arrivano a questa conclusione: quando all’origine di una recessione c’è un crac della finanza, i danni sono molto più prolungati e la ripresa è molto più lenta. Una delle spiegazioni sta nell’effetto leva o moltiplicatore finanziario, che spinge ad assumere rischi immensamente superiori al capitale di cui si dispone, perché in caso di guadagno i profitti sono un multiplo delle risorse investite; ma, in caso di fallimento, il peso dei debiti diventa un onere insopportabile, in grado di soffocare la ripresa. Il capitale finanziario ha avuto un’accelerazione formidabile negli anni Settanta, sotto un impulso tecnologico e ideologico. Da una parte, l’applicazione dell’informatica alla finanza ha consentito di perfezionare strumenti speculativi sempre più sofisticati. Dall’altra parte, l’ideologia neoliberista ha imposto nel mondo intero la rimozione graduale delle barriere ai movimenti di capitali, consentendo una mobilità senza frontiere.

Siamo arrivati così alla situazione attuale, in cui la massa dei capitali «movimentati» quotidianamente sui mercati finanziari globali equivale a oltre 30 volte la ricchezza reale prodotta (cioè il pil).

I limiti di Occupy Wall Street sono stati quelli tipici di ogni movimento radicalmente alternativo all’ordine economico-sociale esistente. La pesantezza delle cose, la vischiosità sistemica fanno sembrare utopistica qualsiasi rimessa in discussione del modello di sviluppo seguito negli ultimi trent’anni. Gli indignati a volte sono sembrati un’accozzaglia di tutto il pensiero «contro» che si è sedimentato in mezzo secolo: fra loro c’era un po’ di cultura hippy e un pizzico di no global, un revival di marxismo e qualche frangia anarchica. C’era anche una componente di populismo qualunquista: capitava di sentire degli «accampati» che mettevano sullo stesso piano Obama e la destra, rifiutando di fare una scelta di voto «perché tanto sono tutti uguali».

In questo mi ricordavano Ralph Nader, l’ambientalista radicale che presentandosi nella corsa alla casa Bianca del 2000 contribuì a far eleggere George Bush (senza la minuscola percentuale di Nader, la vittoria di Al Gore sarebbe stata netta).

Mentre m’interrogo oggi su quel che resta dell’indignazione di Occupy, mi torna in mente Slavoj Zizek. Sessantatré anni, nato a Lubiana, umanista, sociologo, studioso di psicanalisi, ex candidato alle presidenziali in Slovenia, docente all’European Graduate School, Zizek è stato uno dei filosofi più popolari tra i giovani indignati. Ebbi con lui una lunga conversazione su quel movimento nell’ottobre 2011. I ragazzi del movimento lo adoravano, lui li ricambiava con uno sguardo critico. Sono andato a rileggere quel nostro colloquio, e la sua lucidità mi colpisce. Tanto più che parlava mentre Occupy era al centro dell’attenzione, esaltato da molti osservatori . «Partiamo» mi diceva Zizek «dall’origine di questo movimento, cioè dagli indignados spagnoli. Loro proclamano una totale sfiducia nei politici, ma al tempo stesso usano un linguaggio rivendicativo molto tradizionale. Questo mix di sfiducia e protesta può essere pericoloso. Può spuntare la voglia di un nuovo leader, un capo supremo. Viviamo un’epoca pericolosa. Alla sinistra ho tante critiche da fare. In Grecia, per esempio, non perdono alla sinistra di aver giocato la carta dell’antieuropeismo, e di ignorare le proprie responsabilità nell’avere usato per tanti anni il clientelismo assistenziale. La sinistra deve anche porsi il problema dell’efficienza, deve trasformare questa crisi nell’occasione per costruire un nuovo ordine positivo.

«L’opinione pubblica capisce che non siamo di fronte soltanto a un problema di corruzione di individui o di alcune categorie, ma che l’intero sistema economico non funziona. E non è solo una crisi del modello neoliberista, esso stesso in larga parte un mito: da Ronald Reagan a Bush, il neo liberismo puro non è mai esistito, ciascuno di questi presidenti ha fatto ampio ricorso allo Stato quando era necessario. È qui che dico che io non appartengo a una vecchia sinistra. Non m’illudo che si possa affrontare questa crisi con un ritorno a ricette del passato. Il XX secolo è davvero finito per sempre, il comunismo appartiene a quel secolo. La fase che attraversiamo mi ricorda un celebre detto di Antonio Gramsci, che si può parafrasare così: il vecchio ordine sta morendo, ma un nuovo ordine non è ancora nato, questo è il momento in cui possono apparire dei mostri. Ecco, io non ho un’idea chiara di quel che sarà il nuovo ordine. Qualcosa di nuovo nascerà, ma non possiamo sapere quali caratteristiche avrà.

«La mia diagnosi è pessimista: il capitalismo è in una crisi vera. Ma ho osservato con preoccupazione ciò che può accadere come reazione alle crisi, per esempio l’orribile ascesa di una destra xenofoba in tutta l’Europa dell’Est. Noi siamo capaci di immaginare molto facilmente la fine del mondo, un asteroide che colpisce la terra e la distrugge, l’abbiamo vista tante volte al cinema. E invece non riusciamo a concepire un cambiamento sociale anche piccolo. Tutto ci sembra possibile, ma non che si possano dedicare più risorse al welfare. Strano, no? Poi uno va nei paesi scandinavi e scopre un contratto sociale molto diverso dal nostro. Per esempio, là il divario medio tra lo stipendio dell’amministratore delegato e quello di un dipendente dentro la stessa azienda è di 6 a 1, non di 600 a 1 come negli Stati Uniti. Eppure funziona, la gente lo accetta, non è certo egualitarismo comunista se il capo azienda può guadagnare sei volte più dell’operaio. E le economie dei paesi scandinavi sono competitive.

«Allora questo ci costringe a interrogarci: che cosa rende socialmente accettabile un certo livello di diseguaglianze? Quello che viene considerato “normale”, o addirittura viene presentato come una “legge di mercato” in un paese, è il frutto delle aspettative sociali, dei rapporti di forze, delle battaglie. Per me» concludeva Zizek «Obama è il primo presidente socialdemocratico degli Stati Uniti. Per questo le reazioni contro di lui sono state così paranoiche. Ma non credo ci sia spazio per un riformismo graduale. Oggi forse la vera utopia – nel senso letterale di un’utopia che non ha luogo, irrealistica – è pensare che le cose possano andare avanti con degli aggiustamenti, senza un cambiamento profondo e radicale.»