Il debito (degli altri) è un vizio

L’austerity di Angela Merkel ha cercato di accreditarsi in Europa come l’antidoto agli eccessi del liberismo. Meglio ancora: una forma di catarsi, di espiazione. È un aspetto importante, che spiega la pervicacia della Germania nell’applicare e imporre al resto dell’Eurozona ricette disastrose che hanno prolungato di anni la recessione. Spiega anche perché interi pezzi dell’establishment europeo siano stati soggiogati dall’austerity fino ad accettarla come verità suprema. Da Mario Monti a Enrico letta, gli ultimi presidenti del consiglio Italiani non hanno osato mettere in discussione il «pensiero tedesco» nelle sue fondamenta.

In partenza, i tedeschi furono tra i primi a indicare il neoliberismo come causa della crisi del 2008. Videro in tale disastro sistemico della finanza mondiale, scatenato da Wall Street, la condanna dell’«economia del debito». E avevano ragione, in quel contesto. I mutui subprime furono il fattore dirompente. Quei mutui «scadenti» erano tali perché concessi a famiglie già troppo indebitate, o dai redditi palesemente insufficienti per ripagare le rate. Elargendo con facilità credito a tutti, Wall Street aveva inventato un bypass finanziario per risolvere un gigantesco problema sociale: la dilatazione patologica delle diseguaglianze, l’impoverimento dei lavoratori e del ceto medio, il crollo della capacità di risparmio delle famiglie, la difficoltà di accesso alla prima casa. Il sistema poteva funzionare finché la bolla speculativa faceva lievitare il valore degli immobili: le famiglie sovraindebitate potevano sempre sperare di rivendere la casa per ripagare i debiti. I banchieri, dal canto loro, si erano apparentemente immunizzati dal rischio, frazionando e cartolarizzando i loro crediti, spalmando il rischio sui mercati e sugli investitori. Quando il castello di carte è crollato, è stato giusto puntare il dito contro «la cultura del debito facile». Questa cultura, made in Usa, si era alleata con l’ideologia liberista: la convinzione, cioè, che i mercati stessi avessero la capacità di autoregolarsi. Uno dei massimi guru di quel pensiero unico fu Alan Greenspan, presidente della Federal Reserve durante l’Età dell’oro (Clinton-Bush), il quale aveva sempre snobbato gli allarmi sulle bolle speculative e debitorie, perché certo che i mercati fossero già in grado di calcolare il rischio, di proteggersi, di ritrovare un equilibrio naturale.

Dopo il 2008, è dalla Germania che sono giunte alcune delle requisitorie più spietate contro l’americanizzazione della finanza, l’esportazione della cultura del debito facile verso paesi tanto diversi come l’Irlanda o la Spagna. A ragione, la Germania della Merkel stabilì nelle sue diagnosi un nesso forte tra il fenomeno subprime e l’altra dimensione dei debiti: la tendenza degli Stati Uniti ad accumulare deficit commerciali e passività con il resto del mondo (soprattutto con le potenze esportatrici: Cina, Giappone, Germania). L’abitudine, cioè, degli Stati Uniti di «vivere al di sopra dei propri mezzi».

Così la Germania si è convinta della propria superiorità morale, oltre che economica. Ma una sconcertante amnesia ha colpito la classe dirigente di Berlino, e l’opinione pubblica tedesca tutta intera. La Germania, nel suo passato, fu una grande «peccatrice». Qualcuno ricorda episodi più recenti. Dopo la caduta del Muro di Berlino, la riunificazione tedesca venne pagata da tutti noi: la Germania governata dal cancelliere Helmut Kohl (stesso partito della Merkel, la CDU) non volle finanziare il salvataggio della zona Est infliggendo pesanti tasse ai suoi contribuenti.

Andò a indebitarsi sui mercati dei capitali internazionali.

Essendo un pachiderma, fece salire il costo del denaro per tutti, noi compresi. In tempi meno lontani, nel 2003, insieme alla Francia anche la Repubblica federale tedesca sfondò i parametri di Maastricht, ma fu subito perdonata.

Queste sono vicende recenti, ma c’è ben di peggio in un passato appena più remoto. È la storia del dopoguerra, che proprio tutti sembrano avere dimenticato. Se chiedi a un tedesco oggi che cosa fece l’America per risollevare la Germania dalla devastazione della seconda guerra mondiale, se è una persona istruita ti risponderà: il piano Marshall. Ma gli aiuti del piano Marshall (che gli Stati Uniti elargirono a tutti gli alleati dell’Europa occidentale) erano briciole in confronto a un regalo molto più generoso. Nel 1948 l’America decise semplicemente di abbuonare tutto il debito accumulato dalla Germania durante il regime nazista di Adolf Hitler. Nonostante buona parte di quel debito fosse servito a finanziare guerre di conquista, distruzioni e l’abominio dell’Olocausto, gli americani decisero che era lungimirante passarci sopra un colpo di spugna. Fu la più colossale «amnistia del debito» che si ricordi nella storia. Il debito pubblico della Germania nel 1948, infatti, ammontava al 675 per cento del PIL nazionale. Più del quintuplo dell’attuale debito pubblico Italiano. Nella virtuosa Berlino della Merkel, che impartisce lezioni di parsimonia alla Grecia, quell’episodio «fondante» della democrazia tedesca è stato completamente rimosso dalla memoria. Né le opinioni pubbliche europee sembrano ricordare, neppure nei paesi vittima dell’austerity, l’immenso regalo che fu all’origine della rinascita postbellica in Germania.

La visione etica della Merkel, sulle virtù della parsimonia, è diventata un lasciapassare per reintrodurre nel senso comune una vecchia versione del liberismo. Lo chiamano «ordoliberalismus», ha radici antiche nel mondo germanico. Somiglia all’ideologia che professava Herbert Hoover, presidente americano nel crac del 1929. Hoover non era un mostro insensibile alle sofferenze dei disoccupati. Provò ad attivare alcune leve dello Stato per attutire i colpi della Grande Depressione. Era però fermamente convinto che l’America dovesse «purgarsi» dopo un periodo di eccessi (the Gilded Age, l’Età del Jazz, quella del Grande Gatsby): debiti, bolle speculative, euforia di consumi. Una visione moralistica dell’economia, insieme con la fiducia nelle capacità autoregolatrici del mercato, conducevano a pensare che «sette anni di vacche magre» dovessero biblicamente castigare il troppo benessere dell’epoca precedente. A questo si aggiungeva una fede dalle tinte moralistiche sulle virtù del pareggio di bilancio.

Angela Merkel non è un clone di Herbert Hoover: governa un paese con un Welfare State avanzato e generoso. E tuttavia le politiche che ha imposto al resto d’Europa sono simili agli errori prekeynesiani. Errori che l’America di Barack Obama ha evitato (almeno questi). La ripresa Usa in tre anni ha generato posti di lavoro a un ritmo medio di 160.000 nuove assunzioni al mese. Non ha curato tutti i mali: resta l’eredità di diseguaglianze abnormi, un «arretrato» di disoccupati giovani e sottoqualificati, un peso della lobby di Wall Street tuttora temibile. Ma l’America dimostra che svincolarsi dal pensiero unico neoliberista – anche nelle sue varianti moralistico-puritane – è il passaggio obbligato per iniziare a riparare l’enorme disastro sociale. Obama ha aggiornato la lezione di John Maynard Keynes, l’unico pensiero forte non autoritario generato dagli anni trenta: prima bisogna rilanciare la crescita, a ogni costo. (il «costo» di Obama: un deficit/pil oltre il 10 per cento durante il periodo più buio della recessione, 2009-2010.) Quando l’economia torna a generare lavoro, il risanamento dei conti pubblici è più facile: lo dimostra il calo del debito pubblico Usa, in atto per la prima volta dal 2007, trainato dall’aumento del gettito fiscale. Lo Stato è anche, nella dottrina Obama, il catalizzatore di una nuova stagione di innovazioni: dalla Green Economy alla rifondazione dei nostri sistemi educativi. Il modello California, il più grande Stato americano ad avere raggiunto il pareggio di bilancio aumentando le tasse sui ricchi, dimostra questo antidogma, l’antidoto al neoliberismo: lo sviluppo riparte solo se il potere d’acquisto viene diffuso nei ceti più numerosi, classi lavoratrici e ceto medio, la cui sofferenza è la prova di un fallimento storico delle politiche gemelle. Austerity e neoliberismo affondano abbracciati insieme.

L’ideologia della Merkel, che all’origine voleva evitare i mali della finanziarizzazione, di fatto è alleata dei banchieri.

La colpevolizzazione dei debitori, fino alla loro criminalizzazione, è funzionale a salvare chi ha erogato il credito e a «perdonare» gli errori e gli inganni dei banchieri. Il capitalismo moderno, nella sua espressione culturale più avanzata, ebbe origine nel 1692 quando Daniel Defoe ( Robinson Crusoe) venne sbattuto nelle prigioni di Sua Maestà, per debiti. Il romanziere guidò una rivolta contro la barbara istituzione del carcere per i debitori. Nacquero così in Inghilterra le moderne leggi sulla bancarotta, che consentono di rifarsi una vita e un’attività economica dopo il crac. L’austerity è altrettanto nefasta dell’arcaica prigione per debiti: dissangua il debitore, per impartirgli una lezione, ma gli rende ancora più arduo il compito di restituire il dovuto. Per non parlare della rinascita.

Si può fare una onesta contabilità dei profitti e delle perdite derivanti dall’appartenenza all’euro? Le elezioni tedesche del settembre 2013 sembrano aver dimostrato che nel paese più ricco, nell’economia più competitiva del continente, i benefici dell’euro non sono veramente in discussione. Il partito di destra antieuro non ha sfondato, l’egemonia della Merkel conferma che i tedeschi apprezzano la sua gestione della crisi, gestione in cui la «forbice dei tassi» ha premiato l’economia reale garantendole un divario di competitivà anche grazie al minore costo del denaro.

Nella periferia dell’Eurozona, invece, persiste una narrazione della crisi che descrive l’euro come una camicia di forza. Da esempi minuscoli come l’Islanda a casi ben più consistenti come gli Stati Uniti, molte storie di uscita dalla recessione post-2008 sono state accompagnate da politiche di moneta debole. Se l’Italia, la Spagna o la stessa Francia avessero potuto fare ricorso alla svalutazione competitiva, oggi le loro condizioni economiche sarebbero migliori? La perdita di competitività dei piigs (Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia, Spagna) è stata aggravata dall’appartenenza alla moneta unica? C’è un «disegno» germanocentrico che ha fatto dell’Eurozona un’area di moneta forte, forse sopravvalutata rispetto al dollaro e alle monete delle nazioni emergenti?

La domanda «c’è una vita fuori dall’euro?» non allude soltanto all’opzione di uscire dall’Unione monetaria, tuttora caldeggiata da alcune forze politiche in Italia e in altri paesi. In un’accezione più larga, la «vita fuori dall’euro» significa anche considerare quello che l’Unione potrebbe e dovrebbe diventare se la dinamica politica europea uscirà dall’orizzonte ristretto di una gestione tecnocratica e monetarista della crisi. Di fronte all’inazione della politica, dalla crisi del 2008 in poi, abbiamo vissuto un quinquennio di protagonismo globale delle banche centrali. Ma non è dalla BCE che può venire il progetto per una nuova fase di costruzione degli Stati Uniti d’Europa. D’altra parte, lo stallo dell’integrazione europea chiama in causa anzitutto la potenza leader. Abbiamo tutti bisogno di capire se la Merkel ha un progetto per l’Europa, e qual è il nostro ruolo in quel disegno.