2.45 Villa Capitano
Quando Vivacqua arrivò, seguito dalla volante di appoggio, i responsabili dell’operazione si avvicinarono.
«Dottore» salutò Carbone.
«Situazione?» Il venticello di tramontana mandava spifferi gelidi; il commissario alzò il bavero del giaccone e sfregò le mani.
«Tolto che fa un freddo cane, è tutto calmo.»
«Per caso quel lavoretto?»
«Fatto. Non risultano decessi riguardanti persone scomparse.»
«Allora siamo proprio di fronte a dei deficienti.»
«Già che c’ero ho fatto qualche ricerca su quel Palazzi, vuole sapere adesso?»
«Aspetta. Santandrea organizzati, controlla l’equipaggiamento, le procedure, avverti tutti che non si spara neanche se dentro troviamo il cartello dei narcos, e vedi se riesci a farti aprire» tornò all’ispettore Carbone: «Dicevi?».
«Che ho fatto qualche ricerca: dove abitava non si è più visto nessuno, la padrona di casa dice che è tornata in possesso dell’alloggio da soli tre mesi per via della burocrazia, che la roba dell’affittuario la tiene in un magazzino di sua proprietà e che era stufa delle lamentele dei vicini sul casino che combinava.»
«Donne?»
«Esatto.»
Le luci al primo piano della villa si accesero; trascorse un attimo e anche al piano terra si illuminò una stanza e il cortile. Il portoncino d’ingresso scattò nel giro di un paio di minuti. Gli uomini si disposero per la procedura standard: una volante restò con un uomo a bordo, due agenti si posizionarono all’esterno, altri sei entrarono con Santandrea.
Vivacqua seguì come uno spettatore, con le mani in tasca. Entrò nel salone, lasciò che gli uomini si allargassero a presidiare il piano terreno e si avvicinò a Santandrea che parlava con il domestico visto il giorno precedente: i due si guardarono e si riconobbero. L’uomo era arruffato, calmo, indossava un pigiama a righe e una vestaglia color cammello.
«Lei è?» domandò Santandrea.
«Antonio Delprà.»
«Signor Delprà, quante persone ci sono in casa in questo momento e dove si trovano?»
Dalle scale scese una donna spettinata, sbigottita, un agente la affiancò immediatamente.
«Siamo in tre» rispose il domestico. «Io, Margherita Santon» indicò la donna «e il signor Eugenio Capitano che dorme al piano superiore. Posso chiedere la ragione della vostra presenza?»
«Abbiamo un mandato di perquisizione e un mandato di comparizione per il signor Luca Chiesa» mostrò i fogli del magistrato.
«Il signor Luca non è in casa, vuole che lo chiami al telefono?»
«Più tardi. Posso avere una pianta della casa?»
Il domestico alzò gli occhi al soffitto come per pensare.
«Dovrebbe essere nello studio.»
«Musso accompagna il signore.»
Vivacqua ascoltava con un orecchio mentre studiava la villa. Era piuttosto grande, disposta su due piani, a ferro di cavallo, con il cortile e i garage al centro. Una residenza costosa, curata nei particolari; le pareti erano di un bel rosso pompeiano con finiture nere e molti stucchi per incorniciare porte, colonne e i riquadri del soffitto.
Il domestico tornò con un foglio striminzito e lo consegnò a Santandrea.
«La signora Afdera Capitano?»
«Non è in casa» rispose asciutto.
«Adesso vorrei che accendesse tutte le luci della casa. E per tutte, intendo tutte. Musso, accompagna il signore e tienigli compagnia. Gentilmente, signor Delprà non tocchi nient’altro; se deve muoversi per qualche ragione lo comunichi all’agente, prego.»
La donna si avvicinò, sembrava spaventata, indossava una sottoveste leggera e una vestaglia azzurra.
«Anche lei signora, mi dà le generalità, poi scelga una posizione e ci resti, per favore.»
La casa si illuminò a giorno, gli agenti iniziarono la perquisizione con metodo, a coppie: spostavano i mobili più leggeri, i quadri, aprivano i cassetti e avanzavano in parallelo. Vivacqua si piazzò davanti alla libreria e curiosò tra i titoli; molti volumi di botanica e libri d’arte. Sulle mensole alcune fotografie ritraevano un’anziana coppia, probabilmente i vecchi Capitano. Un paio di fotografie erano di Afdera, attraente, con un bel sorriso. Una raffigurava Afdera e il marito Luca il giorno del matrimonio, lei in bianco platino, lui in scuro.
Il gruppo di agenti si riunì intorno al vice: il controllo al piano terra era concluso e non era emerso nulla di interessante.
Santandrea lasciò due agenti, controllò la pianta e salì al primo piano con Carbone, due uomini e il domestico. Margherita Santon stava su uno dei divani vicino all’ingresso, aveva gli occhi spalancati e respirava pesante. Vivacqua si avvicinò sornione. Fece per aprir bocca quando andò via la luce. La donna cacciò un urlo. Sulle scale il gruppo interruppe la salita.
«Dev’essere un sovraccarico» disse il domestico.
«Chi ha una…»
Lo sparo esplose con una intensità spaventosa. Tutti restarono paralizzati, Vivacqua cercò di spostarsi per raggiungere le scale quando arrivò il secondo sparo, devastante come il precedente. Questa volta fu seguito da un grido di dolore e da un tonfo sulle scale.
«Chi spara?» urlò Vivacqua.
Nessuna risposta.
«Carbone? Non reagite, state fermi, copritevi.»
«Uno dei nostri a terra» gridò Santandrea.
«Galante chiama la Centrale, che mandino un paio di volanti subito. Chi è stato colpito?» sbraitò Vivacqua.
«Eugenio!» gridò il domestico. «Sei impazzito?»
Il terzo colpo arrivò improvviso.
Carbone vide i gas di espansione dell’arma, si appiattì lungo le scale e considerò che doveva essere a circa cinque metri; per quel che aveva percepito era di statura bassa e stava sparando a caso.
«È il fratello della Capitano» gridò Vivacqua. «Non sparate.» Si voltò verso la cameriera. «Dov’è l’interruttore generale.»
«Uno è di sopra, l’altro è in cantina.»
«Ci sono delle candele?»
«Sì.»
«Ne accenda quante ne trova, si sbrighi. Santandrea, chiami o no? Fai arrivare un’ambulanza.»
«Sto parlando.»
«Chi è stato colpito?»
«Io», lamentò un agente. «Mi ha preso alla coscia, perdo sangue.»
«Voi di sopra non muovetevi, cerchiamo di far tor…»
Arrivò un rumore secco, e grida concitate.
«Lasciatemi» disse una voce infantile.
«L’ho preso» gridò Carbone. «L’ho disarmato.»
Margherita arrivò con un candeliere e lo porse a Vivacqua che salì più veloce che poteva.
«Minchia Carbone, se dico di non muoverti lo capisci o no?» fece partire uno scappellotto. «Cercate l’interruttore, facciamo un po’ di luce.»
«Non toccate mia sorella voi, non ve lo permetto» sbraitò Eugenio.
Vivacqua spostò il candelabro in direzione della voce; lo vide ed ebbe un sussulto; stava a terra, su un fianco, intrappolato dalla carrozzella: Carbone lo teneva bloccato, anche lui restò gelato. Portava una cuffia da notte con i merletti, gli occhi truccati di blu, il rossetto sbavato su metà della faccia, una camicetta femminile e la gonna.
«Eugenio» bisbigliò il domestico. «Sei impazzito? Dove hai preso la pistola?»
La luce tornò in tutta la casa.
«Occupatevi del ferito» ordinò Vivacqua. «Carbone, perquisisci ’sto disgraziato, ammanettalo e mettigli un piantone. Sergio, vai avanti con il tuo lavoro, non stiamo tutta la notte per favore.»
Eugenio iniziò a piangere.
«Lasciate in pace Afdera, Margherita, Margherita aiutami.»
Vivacqua scese a controllare il ferito, gli dette un buffetto e tornò al piano superiore. All’improvviso si sentì ansioso e maledisse la situazione: un’altra sparatoria da spiegare a gente che non voleva sentire spiegazioni. Dalla strada arrivava il frastuono delle sirene; il commissario dette un’occhiata da una delle finestre e scosse la testa.
«Dimmi tu che casino sta venendo fuori per una perquisizione. Carbone, manda via tutti, descrivi la situazione e fai salire quelli dell’ambulanza, muoviti.»
Santandrea passò accanto, lanciò un’occhiata sconsolata e procedette oltre.
Era presto per dire che non c’era niente di utile, rimuginò Vivacqua. Entrò in una camera e si girò intorno.
Stanza da letto, già perquisita.
L’armadio era stato rovistato, i cassetti sottosopra, sulla poltrona accanto alla finestra un borsone con diverse racchette da tennis, fotografie su un comò con un giovanotto sorridente che riceve una coppa. Vivacqua la prese, la girò e lesse: Internazionali Juniores, Milano, 1986.
Santandrea si affacciò.
«Qui abbiamo finito.»
«Niente di interessante?»
«Bisogna passare il pettine fino, Salvatore. Restano il garage e la cantina, poi ricominciamo con calma: nello studio c’è molto materiale da controllare.»
«Vengo con voi.»
Il domestico fece strada, superò il piano terra, passò il salone dove Margherita stava immobile con gli occhi rigati di lacrime, proseguì fino alla cucina, quindi aprì la porta laterale che dava sulla cantina e iniziò a scendere.
Le scale erano ripide, le pareti grezze mostravano la struttura in cemento armato di quello che doveva essere un rifugio antiaereo della seconda guerra mondiale. Il locale era ampio, male illuminato da un paio di neon abbastanza fiacchi. Uno stanzone nella prima parte riempito di scorte alimentari e scaffali di bottiglie; verso il fondo, era adibito a deposito, con mobili accatastati e coperti dai teli. Al termine, due stanzini facevano da lavanderia e bagno d’emergenza. Un paio di elettrodomestici addossati alla parete sembravano inutilizzati e pronti per la rottamazione. Sul lato opposto una vecchia cassaforte cementata a terra, grande come un comodino. Tutto ordinato, pulito, e inutile. Antonio Delprà si fermò sulle scale, vicino agli interruttori, lasciò che tutti spaziassero con lo sguardo e attese. Santandrea si mise al centro e guardò intorno per un attimo, poi indietreggiò e fece per salire.
Vivacqua era rimasto accanto al domestico, con gli occhi socchiusi. Santandrea gli passò accanto, salì i primi scalini e disse:
«Vediamo il garage?».
Delprà spense le luci e si avviò.
Vivacqua riaccese.
I neon mandarono alcuni flash e si stabilizzarono.
«Salvatore» chiamò il vice. «Non credo che troveremo chissà cosa, è solo un magazzino, una lavanderia.»
Il commissario accelerò il passo fino a trovarsi in fondo, vicino agli sgabuzzini, si voltò e prese di mira i vecchi elettrodomestici: un condizionatore portatile e uno scatolone, bianco, con la maniglia: un congelatore. Vivacqua posò la mano sul portellone e non sentì il ronzio della corrente: era spento.
«Salvatore?»
«Sì, andiamo.»
Erano le 4.40. Al piano superiore la concitazione era scemata. L’adrenalina faceva sembrare tutti spiritati e la nuova calma per il momento non faceva abbassare la tensione. Eugenio Capitano piagnucolava accasciato sulla sedia a rotelle, continuava a chiamare la domestica che stava a qualche metro; lei aveva gli occhi gonfi di lacrime e stropicciava un fazzolettino che teneva sulle labbra. Il domestico sembrava aver perso l’aplomb, stava impalato al centro del salone come un robot senza pile. Gli addetti all’ambulanza sfilavano con la barella e l’agente ferito.
Vivacqua si sentì all’improvviso stremato e deluso; l’idea di concludere la faccenda nel volgere di poche ore si era rivelata troppo ottimistica. In quel momento non avrebbe saputo dire che cosa si aspettava di trovare, e non c’era altra via che esplorare la casa con i propri occhi, ma non alle cinque del mattino. Si guardò attorno e vide che tutti aspettavano nuove disposizioni.
«Via, si sbaracca. Portate i gentili signori in questura, li sentiremo più tardi.»
«Perché?» domandò Delprà.
Il commissario si voltò appena e finse di non aver sentito.
«Santandrea, aggiorna il magistrato, lo informi che abbiamo necessità di più tempo date le dimensioni della casa e ti fai rilasciare l’autorizzazione per i controlli specifici. Fai venire un paio dei nostri per la sorveglianza della villa.»
Il domestico si avvicinò stizzito.
«Scusi, ma noi cosa veniamo a fare?»
In quel momento entrò, traballante, un uomo, malfermo, con una borsa voluminosa nella mano destra.
«Cos’è ’sto casino? Tutti fuori dalle palle. Forza.»
Carbone lo avvicinò, l’uomo lo guardò in tralice e senza pensarci due volte partì con un diretto.
L’ispettore spostò il peso sull’altro piede, lasciò che il pugno passasse oltre e che l’uomo andasse lungo disteso.
«Signor Luca, sono poliziotti» disse il domestico.
Luca Chiesa si alzò con fatica, finse di rimettersi a posto e tentò per la seconda volta di colpire Carbone che schivò senza difficoltà.
«Arresta anche lui» disse Vivacqua. «Tanto era già nella lista. Una notte nel pio albergo della Omicidi farà bene a tutti.»