14.30 Chiesa della Santissima Trinità

Vivacqua arrivò alla parrocchia frastornato; aveva guidato senza rendersi conto della strada. Il pensiero andava a Rosa, alle parole senza significato e al biglietto d’invito; avrebbe voluto fare più domande per capire, ma non sarebbe servito continuare a torturarla.

Il commissario entrò in chiesa a passo di carica e nell’oratorio incontrò Carbone.

«Novità?» domandò.

«Don Costantino ci ha consegnato un album che don Riccardo teneva in biblioteca. Materiale piuttosto vecchio. L’ho dato a Galante perché lo consegnasse a Santandrea: lo ha sollecitato.»

«Ho detto che l’avrei ritirato io; perché non mi hai avvertito?»

«Dottore, per la verità le ho telefonato. Non mi ha risposto, ho pensato che fosse impegnato» disse con discrezione Carbone.

Vivacqua prese il telefonino dalla tasca della giacca e vide due chiamate perse.

«Cos’è quella faccia da cane bastonato?»

«Io? No, niente bastonate.»

«Cosa state combinando?»

Carbone esitò.

«Niente capo, tutto sotto controllo.»

«Ah sì? Dov’è Migliorino?»

«Migliorino? Non saprei. A casa sua, dalla sorella, forse.»

«Carbone a mmia coglionate non ne racconti, e se sei amico suo, a me lo devi dire: dove lo hai visto?»

«No, dottore, davvero: mi sono sbagliato.»

Vivacqua lo guardò negli occhi.

«Carbone, Roberto è sospeso, non può fare indagini in proprio. Che cosa sta combinando?»

«Ha voluto esaminare i registri del dormitorio.»

«Perché?»

«Non lo so.»

«Perché?»

L’ispettore abbassò lo sguardo.

«Dice che non gli tornano diverse cose, ma non mi ha detto di più.» Tacque. «Non ha detto altro, davvero.»

«Se Migliorino si mette nei guai ti considero complice di questa cazzata» prese il telefonino e selezionò il numero breve. «… l’utente chiamato non è al momento…» Chiuse il cellulare. «Insulsi e fetusi, tu e lui.» Il commissario camminava avanti e indietro.

«Calabresi è con lui?»

«È all’ospedale, dà una mano a Patanè.»

«Tu che compito hai in questa storia?»

«Nessuno, cioè, il mio lavoro solito.»

«Non mi fare incazzare Carbone, che compito ti ha dato Migliorino?»

L’ispettore prese un respiro profondo.

«Non tradisco Roberto, non insista dottore, non le dico altro.»

«Cos’è, un ammutinamento?» ringhiò Vivacqua.

«No. Anzi. La squadra prima di tutto, e lei, con tutto il rispetto; non è giusto quello che sta succedendo: se la prendono con noi per colpire lei, lo abbiamo capito tutti. Adesso mi scusi, devo andare.»

Vivacqua mise il lampeggiante sul tettuccio e si avviò di buona lena. La prima intenzione era di lanciare un comunicato riservato ai suoi per trovare Migliorino, portarlo a casa e ammanettarlo al termosifone: gli avrebbero dato da mangiare con la fionda un giorno sì e l’altro no. Perdere una decina di chili gli avrebbe fatto bene. Poi cambiò idea, sarebbe andato a cercarlo di persona. Adesso non poteva sottrarre attenzioni al caso di don Riccardo. Per quanto, i cazzi di Migliorino e quelli del povero prete appartenevano allo stesso nido di vipere, quindi, risolverne uno probabilmente avrebbe aggiustato anche l’altro.

Il commissario fece no con la testa: non era detto. Restavano diverse incognite, non ultima l’indagine interna. Imboccò corso Peschiera e accelerò in direzione del centro, si affacciò su corso Einaudi e il cellulare squillò. Era Santandrea.

«Salvatore, che fine hai fatto?»

«Prosegui, arrivo. Tanto non si molla finché non risolviamo ’sto casino. Baseggio?»

«Sarà qui a momenti, viene con i risultati del laboratorio: pare ci siano novità straordinarie.»

«Boom. Hanno risolto il caso e non lo sapevamo; ce ne andiamo tutti a fare una settimana di vacanze a spese del ministero.»

«Hai visto mai. Un’altra cosa: non si trova Migliorino.»

«Ma va? Eppure è bello grosso.»

«Massaglia è stato qui da noi, ha prelevato una copia dei rapporti e deve interrogarlo. Se non spunta fuori sono guai. Tra poco ti telefonerà.»

Vivacqua sentì il pigolio della chiamata in arrivo.

«Che cosa vuole?»

«C’è una Commissione Disciplinare, te ne sei dimenticato?»

«Che si fotta. Notizie dai due deficienti?»

«Francia e il notaio? Tutto tace, a parte che si sono fatti vivi i rispettivi avvocati.»

«Si fottano anche loro.»

Il commissario chiuse la chiamata, spense il telefonino, superò via Montevecchio e un lampo gli attraversò la mente. La casa dove Rosa diceva che non la facevano entrare era a cento metri. Svoltò all’improvviso e si infilò nell’isola pedonale della Crocetta, forse la zona più esclusiva della città.

La maggior parte degli edifici risaliva ai primi del Novecento; ville liberty e neogotiche praticamente fuori mercato. Un tempo per abitarci era indispensabile il pedigree aristocratico e le proprietà si tramandavano di padre in figlio; ora se le potevano permettere solo le banche d’affari e le multinazionali.

Vivacqua si piazzò davanti all’edificio, dopo qualche minuto spense il motore e uscì dall’auto. Del piano a livello della strada non si vedeva quasi nulla, salvo la parte non nascosta dal cancello e le siepi intorno al cortile dove era posteggiata una Land Rover. Telecamere nei punti strategici, finestre in lontananza, tende. Il piano superiore, per quanto serviva, si intravedeva tra gli alberi che circondavano la casa. Vivacqua fece due passi per dare un’occhiata più da vicino, andò fino al campanello dove stava scritto «Dreamer Immobiliare srl - Fiduciaria Dreamer». Niente nomi di famiglia. Una residenza lussuosa molto distante dalle possibilità di Rosa. Tornò all’Alfa Romeo accese il cellulare e sbuffò; quattro chiamate perse: due volte la questura, doveva essere Massaglia, la dentista, Assunta. Premette il tasto di chiamata per sentire l’ufficio.

«Vivacqua. Passami Gargiulo.»

Meloni trafficò con il centralino e commutò.

«Comandi» disse l’ispettore.

«Scrivi: Afdera Capitano. Immobiliare Dreaming e Fiduciaria Dreaming, all’inglese. Via Legnano due. Trovami un po’ di informazioni.»

«Tipo?»

«Che vengo e ti degrado a uomo delle pulizie. Le solite no? Una cosa veloce.»

Vivacqua guidò spedito, con il cervello in modalità zen: una forma di distacco che non aveva nulla a che fare con la disciplina monastica, e che era, molto più semplicemente, il suo personale metodo per disintossicare i neuroni. Consisteva nel respirare e mandare al diavolo ogni pensiero che non fosse centrato su ciò che stava facendo in quel momento, ovvero guidare.

Arrivò in questura che erano quasi le sei. Fece per imboccare il corridoio del reparto quando squillò il telefonino. Riconobbe il numero: Ivo Rolandi, un collega dell’Immigrazione.

«Ciao» disse. «Bisogno?»

«Ti sei perso un passerotto?»

«Scusa?»

«Abbiamo intravisto un passerottino di oltre un quintale, quello volato fuori dalla gabbia. Ha fatto un giro da queste parti, interessa?»

«Che cosa è venuto a fare?»

«Niente di ufficiale, come questa telefonata. Ha dato un’occhiata a un paio di schedati.»

«Albanese e senegalese?»

«Preciso. Aveva bisogno di fotografie.»

«A buon rendere.»

«Se serve una mano chiama.»

Vivacqua salì i gradini due alla volta e attraversò il corridoio. Nessuno alla macchina del caffè, niente sigarette accese negli uffici, niente superenalotto in circolazione. Il clima era quello delle operazioni agli sgoccioli, ovvero quando si è scollinata la fase di stallo e gli investigatori sentono la preda a portata di mano; solo che in questo caso la ragione era il sentimento di offesa per aver ricevuto l’ispezione della Commissione d’Indagine.

Il commissario si sporse nell’ufficio di Santandrea, che stava con uno dell’Informatica. Entrambi con la faccia davanti al monitor osservavano immagini di monumenti o qualcosa di simile.

«Da me, riprendiamo.»

«Baseggio mi ha lasciato il materiale. In caso di necessità lo troviamo ancora per un’oretta.»

Vivacqua si accigliò.

«Dovremmo avere necessità?»

«Quando sentirai cosa è venuto fuori…»

«Cioè?»

«Vuoi cominciare da don Riccardo, dalla Petrini, da Massaglia?» fece il Giraffone.

«Da Baseggio e dalla ragione per cui non lo devo friggere nello strutto.»

«Allora parliamo del caso Petrini. Non ti piaceranno le novità. La prima è che le impronte trovate in casa sono di molte persone, inclusi Francia e il notaio. La seconda è che sugli abiti della donna è stato riscontrato liquido seminale: appartiene al dottor Francia. La terza…» si fermò.

«Minchia come me la stai facendo cadere dall’alto: la terza?»

«È stato individuato il proprietario delle impronte lasciate sui bicchieri.»

«Di chi sono?»

«Di un tale» Santandrea si grattò la fronte «morto un anno fa.»

Vivacqua inclinò la testa di qualche grado.

«Ripeti.»

«Hai capito bene: la persona che ha lasciato le impronte sui bicchieri trovati nel salotto di Jolanda Petrini è morta l’anno scorso. Siccome me lo chiederai tra un secondo, specifico che le impronte sono freschissime.»

«Ragazzi non coglionate perché vi faccio trasferire sulla luna con viveri per tre giorni. Che cippa significa?»

«Il motivo per cui c’è voluto tanto tempo ad avere questi risultati è semplice: nessuno alla Scientifica voleva crederci. Hanno ripetuto i prelievi tre volte; si sono messi al lavoro i migliori esperti in circolazione, una copia del lavoro è andata a Roma, una a Parma: il risultato è unanime, le impronte sono di un tal Marco Palazzi, deceduto. Abbiamo le impronte di questo soggetto perché accusato di maltrattamenti e resistenza all’arresto cinque anni fa.»

«Quindi nessuna possibilità di errore.»

«Una percentuale da prefisso telefonico.»

«Sai cosa significa?»

«Che con un buon avvocato Francia e il notaio li teniamo dentro altri dieci minuti, e in tribunale il processo si trasformerebbe in una farsa; hai presente? Fotografie dell’alta borghesia in costume sadomaso, scambio di coppie, portinaie compiacenti, testimone oculare alcolista, ci manca solo il cane parlante: i giornalisti festeggeranno per settimane.»

Vivacqua assentì. «Però ci è scappato il morto! Siamo a zero con le indagini e ce ne accorgiamo dopo quattro giorni» sentenziò. Si alzò e andò davanti al tabellone con le fotografie del caso Petrini. «Il prefetto si piscerà addosso dal ridere.»

Santandrea riordinava le carte e aspettava che il capo superasse la batosta. «Non ci voleva ’sto casino proprio adesso» si limitò a dire.

«Lascia stare il casino» sussurrò Vivacqua. «La questione è un’altra: ci stanno pigliando per il culo.»

«Chi?»

Il commissario tornò a sedersi. Nella stanza era sceso il buio, solo la lampada della scrivania mandava un cono di luce sui fascicoli.

«Chi? Te lo dico tra un attimo» fece un numero sul telefono fisso e aspettò.

«Scientifica, Baseggio» risposero dall’altra parte.

«Vivacqua. Di un po’ scientifico, a parte i bicchieri, dove hai trovato altre impronte di questo fantomatico Marco Palazzi?»

«Vuole dire nell’appartamento?»

«No, nel bar di fronte; Baseggio, un po’ di concentrazione porcaputtana.»

«Solo su un bicchiere. Sull’altro ci sono le impronte della Petrini. È scritto sul rapporto.»

Vivacqua scosse la testa e chiuse la telefonata.

«Delle volte mi domando se possiamo ancora essere orgogliosi di questo mestiere.»

«Perché?» domandò Santandrea.

«Sembra Gianni contro Pinotto: criminali deficienti contro poliziotti scemi. Andiamo a fare un giro, in macchina mi spiegherai il resto.»

«Totò, sono le sette e mezzo, non mangio da ieri e sono inchiodato da stamattina alle sette.»

«Anche io.»

«Dovresti chiamare Massaglia, deve interrogarti per l’indagine.»

«Davvero?»

«Ti rendi conto che è rischioso per tutti noi quello che stai facendo? Non puoi sottrarti, ci fottono tutti.»

«Non siete voi il bersaglio, lo sai.»

«Allora ti devi difendere.»

«A modo mio, è quello che sto facendo.»

Le molliche del commissario: La prima indagine di Vivacqua
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