20.45 Chiesa della Santissima Trinità

Il refettorio era un ambiente arioso, ben illuminato. Le pareti dovevano essere state imbiancate di recente e chi aveva eseguito i lavori non era andato troppo per il sottile: si vedevano sbavature di vernice sulle pulsantiere della luce, sulle finiture, sugli infissi, ma nel complesso tutto sembrava semplice e funzionale. Ci saranno stati una dozzina di tavoli nella zona centrale e due lunghe file lungo il perimetro.

Una ventina di persone era ancora seduta; alcuni mangiavano senza alzare la testa dal piatto, con il cappotto addosso, borse e sacchetti di plastica tra le gambe. Al bancone di servizio due donne terminavano la distribuzione per gli ultimi in coda, un’altra girava tra i tavoli per le prime pulizie.

Migliorino stava nel corridoio, nascosto appena fuori della sala, con le braccia conserte e l’aria più innocua che riuscisse ad assumere. Teneva d’occhio un gruppetto di africani che stava in disparte. Uno in particolare, che tra tutti sembrava il capetto.

L’ispettore sentì vibrare il cellulare, si spostò in una zona più appartata e rispose.

«Tra poco dovrebbe sbucarti alle spalle, occhi aperti» disse Calabresi.

Migliorino non fece in tempo a dire be’. Infilò una porta e lasciò sfilare il nero.

«È passato adesso. Se non ho sbagliato i calcoli andrà a mettersi con gli altri cinque.» Poi tornò nel corridoio nella posizione più vicina alla sala.

«Ti hanno visto?»

«Credo di sì.»

«Qui finisce di nuovo a calci in culo.»

«Bisogna isolarne uno, due al massimo.»

«Bravo, e come pensi di fare?»

Dalla sala arrivò un rumore di sedie strascicate, alcune voci si fecero più vicine.

«Aspettami vicino alla macchina» disse Migliorino, che andò verso gli interruttori del corridoio; accese e spense alcune volte la luce per spegnerla definitivamente quando gli sembrò che l’effetto fosse quello voluto. Si nascose nel buio e il gruppetto passò diretto al dormitorio. Erano in cinque, l’ultimo arrivato doveva essersi attardato. L’ispettore si affacciò nella sala e quasi se lo trovò di fronte, aveva un panino tra le mani e lo mordeva allegramente.

Migliorino gli andò alle spalle, infilò un braccio sotto la gola e lo trascinò indietro; non era un colosso, però era abbastanza alto da rendere necessaria una certa forza per schiacciargli le corde vocali senza strozzarlo. Cedette di peso, spaventato dalla sorpresa: tentò di voltarsi, scalciò e riuscì a divincolarsi abbastanza da far mulinare le braccia e colpire l’ispettore che iniziò a indietreggiare spedito. Il nero riuscì a sgusciare dalla presa e a quel punto Migliorino lasciò partire un destro potente come un sonnifero. Poi lo caricò sulle spalle, attraversò l’interno della chiesa e mise un piede fuori, sulla via. Si bloccò appena in tempo. Sul lato della strada dove lo aspettava Calabresi qualcuno, a bordo di una Mercedes, parlottava con un altro gruppo di neri.

Migliorino guidava a passo d’uomo, Calabresi stava sul sedile posteriore; il nero rannicchiato ai suoi piedi si lamentava, il pugno al fegato era stato pesante. L’ispettore sterzò su corso Brunelleschi, a metà strada tra il mercato all’aperto e la caserma dell’esercito, cercò la zona più buia e spense.

Nelle piazzole del mercato si vedevano le luci delle macchine operatrici che facevano pulizia; l’aria era fredda, una brezza di tramontana faceva volare i sacchetti di plastica e i giornali.

«È questo il posto?» domandò Calabresi.

Il nero continuava a restare piegato su se stesso.

«Amico, il mio socio è incazzato forte, se non mi aiuti ti lascio a lui. Dov’è Lamine?»

Il nero faceva no con la testa. Migliorino decise allora che era inutile perdere altro tempo: uscì dalla macchina aprì lo sportello posteriore e lo sfilò dai sedili come un ombrello, lo mise eretto e gli puntò gli occhi in faccia.

«Dov’è Lamine?»

«Non lo so, di solito è qui. È andato via.»

Un treno fischiò poco lontano e i due poliziotti si scambiarono un cenno d’intesa.

«Cosa ne dici?» sibilò Migliorino.

«È la cosa migliore, non troveranno neanche i vestiti. Hai una corda?»

«Certo.»

Il nero spalancò gli occhi.

«Che cosa volete fare?»

«Troveremo Lamine in un altro modo. Saluta i parenti lontani, il tuo viaggio finisce questa sera.»

Migliorino sbatté l’uomo nel retro dell’auto senza complimenti e Calabresi tentò di sistemarlo, quando si bloccò.

«Caramba!» esclamò.

Una pattuglia dei carabinieri svoltava adagio per fermarsi a un paio di macchine di distanza. Il nero la vide e non fece in tempo a gridare che Calabresi gli si scaraventò addosso, gli tappò la bocca e restò con lui, schiacciato tra i due sedili. Migliorino si buttò di lato e scomparve dal finestrino. In quel momento gli passò davanti tutta la vita e il film di cosa sarebbe successo se li avessero fermati: sentì il sudore gelarsi sulla pelle. Sedici anni di carriera in bilico sull’orlo della latrina. Tutto per una cazzata che sembrava impossibile risolvere senza accumulare altri danni. L’auto dei carabinieri restava ferma. Migliorino e Calabresi ascoltavano il motore e imprecavano, il nero non stava fermo, tentò un grido e Calabresi lasciò partire una gomitata. I secondi non passavano mai, la sosta sembrava eterna.

«Roberto» sussurrò Calabresi.

«Fermo e zitto.»

All’improvviso videro il lampeggiante illuminare il tettuccio dell’auto. Calabresi sacramentava tra i denti, il nero sembrava essersi rassegnato o forse non sapeva scegliere il male minore.

L’auto ripartì. Migliorino e Calabresi ripresero a respirare. Per un lungo momento restarono nelle loro posizioni, ognuno impegnato a fare l’inventario del pericolo scampato.

«Che cosa volete fare?» urlò il nero.

«Ti piacciono i treni? Ne vedrai uno così da vicino che potrai toccarlo.»

L’ispettore attese che l’auto dei carabinieri svoltasse in fondo al corso, mise in moto e si avviò pianissimo.

«Va bene, va bene» disse il nero all’improvviso. «Vi faccio vedere dov’è Lamine, ma mi fate scendere subito.»

«Prima Lamine» ringhiò Migliorino.

«Laggiù» l’africano fece segno verso i giardini di Parco Ruffini. Ci vollero tre minuti prima di inquadrare una panchina e due ragazzi con lo scooter che mettevano mano al portafogli, ritiravano l’acquisto e tornavano in sella.

Migliorino, che nel frattempo era sceso per sparire nella zona buia, non poté fare a meno di ricordare che quel Lamine gli aveva mentito durante l’interrogatorio; era lui la causa dell’incidente al People. Ci era cascato come un fesso. Quando lo aveva descritto a Vivacqua lo aveva definito un poveraccio, una vittima.

Imperdonabile.

L’ispettore arrivò alle spalle di Lamine Gorée, lo prese per un braccio e lo sollevò da terra.

«Vieni con me, facciamo due chiacchiere.»

Calabresi lasciò libero l’altro nero che volò via a razzo; vide arrivare il collega e andò a dare un’occhiata nei pressi della panchina, frugò tra i cespugli, riconobbe le stagnole e le raccolse.

Migliorino nel frattempo si era dato da fare con Lamine che aveva estratto un coltello e credeva di poter reagire. Calabresi arrivò che il senegalese era piegato in due come una sdraio. Sanguinava dal labbro e non aveva mai visto il collega tanto fuori dalla grazia di Dio.

«Socio, così lo ammazzi. Fai provare me» pescò una fotografia dal cappotto e la mostrò: «Chi è questo?» domandò. L’altro scosse la testa e cercò di sottrarsi alla presa di Migliorino, che era pronto a riprendere il trattamento. «Ascoltami» ricominciò Calabresi. «Hai detto che l’uomo con cui hai bisticciato è un albanese di nome Alexy Rabovis, hai detto che è stato lui a uccidere don Riccardo, adesso te lo chiedo una sola volta, poi il mio amico ti stacca le braccia come a una bambola, hai capito? Fai sì con la testa.»

Il nero accennò un sì terrorizzato. Calabresi gli mise la fotografia sotto il naso.

«Rabovis è questo?»

Lamine tentò di divincolarsi senza riuscire a ottenere nulla, alla fine negò.

«Molto bene. Adesso dimmi come si chiama questo gentiluomo.»

«Non lo so.»

Ceffone.

«Non lo conosco» ripeté.

Secondo ceffone, pesante.

Il nero iniziò a frignare.

«Guarda che il mio amico si diverte, può andare avanti fino a quando non sputi tutti i denti. Per l’ultima volta: chi è questo uomo, dimmi il nome.»

Il senegalese scosse la testa.

«Lo buttiamo nel Po, come abbiamo fatto con l’altro» disse Migliorino.

Calabresi si limitò ad assentire.

«Okay. Andiamo.»

Il senegalese spalancò gli occhi. Singhiozzava e piangeva. Migliorino lasciò la presa e finse di tornare alla guida.

«Si chiama Alexy Kriva» disse d’un tratto.

I due poliziotti si scambiarono un’occhiata fugace.

«Lavori per lui?» insisté Calabresi.

Il nero abbassò la testa.

«Sì.»

«È lui che ti fornisce ’sta merda?» Mostrò le stagnole.

«Sì.»

Le molliche del commissario: La prima indagine di Vivacqua
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