10.40 Casa Giardini
Contrada delle Ghiacciaie, piazza Emanuele Filiberto, una delle bomboniere di metà Settecento, attaccata a piazza della Repubblica; neanche un tiro di schioppo da Palazzo reale. Zona storica del Quadrilatero romano.
Visti dalla finestra, gli edifici sembravano dolci di marzapane. Case patrizie dove la corte dei Savoia aveva preso dimora per stare vicina al sole. Un incanto del quale Santandrea non si curava affatto; passeggiava avanti e indietro nel salotto del maestro Stefano Giardini. Parlava al telefono con l’ispettore Gargiulo.
«Digli che la stanno portando troppo per le lunghe.»
«Sì, ma l’operatore telefonico ha ricevuto questa mattina l’ordine del magistrato, dottore, non potevano procedere prima» tentò di scusarsi Gargiulo.
«Scommetti che se chiama il questore si muovono all’istante? È un caso di omicidio porca puttana. Poi, non dicevi che ti eri fatto degli amici in quel giro?»
«Sì, ma mica sono sempre disponibili per certi lavoretti, che tra l’altro sono pure rischiosi; qua tutti teniamo famiglia.»
«Lascia stare Longanesi. Alla fine ’sti tabulati quando arrivano?»
«Forse domani. Invece per le impronte, pare che ci siano problemi.»
«Ti pareva. Che genere di problemi?»
«Mi informo.»
Il vice commissario chiuse il telefono e s’incamminò per tornare nello studio dove il maestro attendeva di essere ascoltato.
La casa era grande e sembrava occupata in ogni centimetro da un oggetto o una decorazione: tende e mantovane alle finestre, quadri, arazzi, fotografie sulle pareti non occupate da librerie, una profusione di tappeti che non lasciava una fessura libera sul pavimento. L’arredamento era altrettanto pesante, carico di mobili antichi, di busti e piccole sculture; almeno nei gusti, la Petrini e il suo fidanzato avevano idee simili. Il maestro Giardini era nello studio: una camera ampia nella quale troneggiavano il pianoforte, un’arpa, altri strumenti appoggiati ai rispettivi leggii, più oltre, sulla destra, la scrivania e un vistoso impianto stereo. Giardini stava seduto su uno sgabello, con le cuffie in testa, premeva i tasti di un registratore a bobine e con la mano libera sembrava dirigere; quando terminò di armeggiare la stanza si riempì di Mozart.
Non più andrai farfallone amoroso,
notte e giorno d’intorno girando;
delle belle turbando il riposo
Narcisetto, Adoncino d’amor.
Non più avrai questi bei pennacchini,
quel cappello leggero e galante,
quella chioma, quell’aria brillante,
quel vermiglio donnesco color…
Il maestro tese l’orecchio e scosse la testa. Si voltò, scrisse un appunto e fermò il nastro.
«Le nozze di Figaro?» domandò Santandrea.
«Un lamento di gatti castrati; inascoltabile. Sono piuttosto occupato, come vede; immagino che la sua presenza riguardi Jolanda.»
«Esatto» Santandrea lo esaminò: lo aveva visto nelle fotografie, ma dal vivo sembrava diverso, più basso e molto meno affascinante, se così si poteva descrivere un uomo vagamente dannunziano, di circa un metro e settanta, calvo, con un pizzo luciferino e gli occhi nerissimi scavati nel viso.
«Credevo che la mia più che documentata estraneità ai fatti bastasse a tenermi lontano dalle seccature.»
«Solo due chiacchiere, non ci vorrà molto.»
«Non ne vedo la ragione, tuttavia temo sia inevitabile, non è vero? Che cosa vuole sapere?»
«Lei era fidanzato con la signora Petrini?»
Giardini fece una grassa risata.
«Non sentivo quest’espressione dai tempi del ginnasio: roba da banlieue. Très décadent. Ad ogni modo no. Diciamo che ci univano passioni e affinità. Massì, anche un certo sentimento. Per la musica soprattutto.»
«Quindi, come si dovrebbe considerare la vostra frequentazione?»
«Le categorie sono materiale per antropologi; scelga lei: amici, compagni, coppia in senso lato, non saprei. Se ci pensa bene scoprirà che il linguaggio formale conta poco. Ci si vedeva, talvolta da lei, oppure qui, da me; si passava del tempo insieme. Jolanda suonava in modo divino, peccato soffrisse di panico, sarebbe stata una concertista di livello internazionale. Un talento sprecato. Non gliel’ho mai perdonato.»
«Niente progetti per il futuro, famiglia, convivenza.»
Ancora gran risata.
«Molto spiritoso, dico davvero, anche romantico se vogliamo: figli, pannolini, la spesa al sabato, domenica dalla suocera» sogghignò. «Comunque, lei è un poliziotto e non credo sia venuto per fare conversazione. Cosa vuole sapere con precisione: se mi dispiace, se ho qualche idea su possibili assassini, cose del genere?»
«Direi che se cominciamo dall’inizio semplifichiamo il lavoro» Santandrea aprì il plico e sparpagliò il contenuto sul tavolo. «Potremmo iniziare da qui.»
Giardini guardò le fotografie. Con una mano separava le immagini, con l’altra stirava il pizzetto. Di tanto in tanto ne prendeva una e ridacchiava compiaciuto.
«Alla Polizia di Stato interessano i vizi privati?» domandò.
«In genere no, se non diventano reato.»
«Adulti consenzienti tra le proprie mura. Non vedo reati, lei?»
«Chi le ha scattate?»
«Un po’ io, un po’ Jolanda, amici comuni» Giardini ne osservò alcune da vicino.
«Ha notato qualcosa?»
«Mmm. Carine. Dove le ha trovate? Alcune non le conosco e non mi riguardano. Sono state scattate da Jolanda, cioè con l’autoscatto, o da qualcuno che la frequentava, direi; nella casa di Montecarlo e a Torino.»
Santandrea inclinò il capo.
«Cos’è? Disapprovazione?» fece Giardini. «O biasimo. Sta per darmi una lezione di etica? Vuole sapere se il piacere precede il dolore o viceversa? È curioso? Che cosa vuole?»
«Lei era a conoscenza dei rapporti intimi che la signora intratteneva con altre persone.»
Nuova risata.
«Gelosia! Adesso capisco. È questo che vuole sapere. Le dirò: è lei che non ha capito niente; la gelosia comporta la sottomissione a regole che né io, né Jolanda abbiamo mai condiviso. Noi non siamo per quel genere di sovrastrutture perlopiù confessionali. La fedeltà, l’esclusiva, la monogamia. Anzi, siamo convinti che facciano parte di un modello artificiale tipico del falso progresso; e questo, credo concluda la spiegazione. Oppure mi sta chiedendo se qualcuno era abbastanza convenzionale da non sopportare la situazione, e per questo ha ucciso?»
«Avrei usato altri termini, ma è questo il punto.»
Giardini prese dal tavolo un quadernone, un foglio, e iniziò a copiare.
«Ecco, ne faccia quello che serve al suo lavoro. È l’elenco delle persone alle quali può rivolgersi.»
Santandrea scorse la lista. Otto nomi. A prima vista coppie.
«Che cos’è?»
«Quello che stava per chiedere: il nome dei presunti gelosi, almeno quelli di cui sono a conoscenza.»
«Cos’è? Un club, un’associazione…» Santandrea cercava le parole.
«Di perversi, abominevoli reietti» rise. «È solo quello che è: un gruppo di amici con lo stesso punto di vista. Abbiamo finito?» si voltò e premette un tasto del registratore.
Tra guerrieri, poffar Bacco!
Gran mustacchi, stretto sacco.
Schioppo in spalla, sciabola al fianco,
collo dritto, muso franco…
Santandrea si avvicinò all’impianto e premette lo stop.
«Non abbiamo finito. La Petrini frequentava altre persone?»
«Questo credo sia mestiere suo, non state facendo delle indagini?»
«Chi ha ucciso Jolanda Petrini?»
«Non lo so. Non io.»
«Aveva ricevuto minacce?»
Giardini sbuffò.
«Non lo so. Non me ne ha mai parlato.»
«Perché è stata uccisa?»
«Ma come faccio a rispondere a una domanda del genere. Non lo so; perché la gente è malata, per soldi, per invidia. Uno studente pazzo, un coinquilino fuori di testa.»
«Un coinquilino?»
«Sì, quello del terzo piano che faceva le bave. Chiedete a lui.»
«Mi parli di questo signore.»
«L’ho appena fatto: chiedete a lui e facciamola finita.»
«Ricorda il nome?»
«No» si voltò e spinse il tasto play.
Un gran casco, o un gran turbante,
molto onor, poco contante!
Ed invece del fandango,
una marcia per il fango…
Santandrea premette lo stop.
«Ci pensi» insisté il vicecommissario.
«Un medico; le ho detto che non ricordo il nome.»
«Francia?»
«Non mi dice niente.»
«Alberto Francia?»
«Oooh, Alberto: è quello il nome. Jolanda ci ha giocato per un po’, poi lo trovava noioso, forse lo ha scaricato, oppure ha continuato perché era fatta così: ci giocava come fa un gatto con la mosca. Chiedete a lui.»
«La signora Petrini le aveva parlato di questo medico?»
«Un paio di volte, per ridere più che altro. All’inizio lo trovava divertente, lo stereotipo del maschio italiano: ordinario, affettato, ignorante. Diceva che era un bell’uomo, intriso di quella banalità grottesca che la faceva sorridere: il bel vestito, la macchina sportiva. Diceva che in dosi da collirio si poteva anche prenderlo in simpatia; si era quasi affezionata.»
«E lo ha lasciato?»
«Jolanda non era il genere di donna che un poliziotto può capire. Senza offesa. Una donna che non lascia e non prende, non ha il senso del possesso: fa quello che le pare. E non pensi che usasse le persone, la sua mente era molto più raffinata.»
«Si spieghi meglio.»
«Le avevo detto che non può capire.»
«Già, noi esseri comuni. Quando è stata l’ultima volta che l’ha vista?»
«Prima di partire per Bologna. Una quindicina di giorni fa.»
«Vi siete sentiti per telefono? Per caso avete parlato di qualcuno che la signora aspettava?»
«Oddio che noia. Ci siamo sentiti più di una volta. L’ultima il sabato precedente, o domenica mattina, credo, e non mi ha detto niente di interessante per lei, chiaro?»
Santandrea raccolse il plico, premette il tasto play, e fece per andarsene.
Per montagne, per valloni,
con le nevi e i sollioni.
Al concerto di tromboni…
«Se escono quelle foto vi denuncio.»
Santandrea non si voltò.